Il tartufo è un fungo ipogeo appartenente al genere Tuber, la cui produzione è tipicamente italiana. È ormai noto che la sua commercializzazione è conveniente e può portare ottimi guadagni, ma allo stesso tempo si tratta di un organismo molto fragile e difficile da trovare, vediamo perché.
Caratteristiche generali
Dal punto di vista scientifico e nonostante le numerose controversie che in passato hanno interessato la loro classificazione, i tartufi sono i corpi fruttiferi o sporofori di alcuni funghi ipogei appartenenti alla divisione degli Ascomiceti. La loro sopravvivenza è garantita grazie all’instaurarsi di simbiosi micorriziche, stretti rapporti di cooperazione con diverse specie vegetali, arboree ed arbustive. I tartufi derivano dalle Pezizaceae, funghi a forma di coppa che lungo il percorso evolutivo si sono adattati alla vita ipogea e quindi sotterranea. Proprio per questo ultimo motivo, la liberazione delle spore per la propagazione della specie dovrà avvenire mediante una prima disgregazione del corpo fruttifero e successivamente grazie alla disseminazione effettuata in modo prevalente da animali terricoli.
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Attualmente in Europa si possono raccogliere e commercializzare solamente 9 delle 29 specie presenti, che appartengono tutte al genere Tuber. Quando si parla di questi funghi, la principale distinzione che viene fatta per lo più a livello commerciale, è tra tartufi neri quali ad esempio Tuber aestivum, Tuber brumale e Tuber macroscopium, che presentano una colorazione scura e i più chiari tartufi bianchi come Tuber magnatum e Tuber albidum.
Morfologia e struttura dei tartufi
Come già accennato nel paragrafo precedente, il tartufo è la struttura riproduttiva di alcuni funghi sotterranei che si sviluppa ad una profondità variabile tra i 30 e i 50 cm. Al suo interno vengono prodotte le spore sessuali e per questo prende il nome di sporoforo. Raggiunta la maturità questi organi fungini sono in grado di rilasciare degli odori, caratteristici per ogni specie, che attirano insetti ed altri animali i quali, cibandosene, favoriscono la distribuzione e la germinazione delle spore. La tipologia e la qualità del terreno nel quale il tartufo si sviluppa è uno dei fattori principali che determina la dimensione che questo è in grado di raggiungere, anche se esiste una notevole variabilità in relazione alla specie.
Tutti i tartufi sono ricoperti da un rivestimento protettivo che prende il nome di peridio. Quest’ultimo può presentarsi come completamente liscio o ricoperto da delle piccole sporgenze. Essendo il peridio il rivestimento più esterno del tartufo è anche quello che ne determina la colorazione che può essere giallastra, marrone o grigiastra. Più internamente si trova la gleba, o polpa del tartufo, la quale ha una consistenza molto compatta e un aspetto molto simile al marmo, dovuto alla presenza di venature di varie dimensioni costituite da cellule di sesso differente. Dalla fecondazione prenderanno origine dei giovani aschi, delle piccole strutture all’interno delle quali avviene la fusione del nucleo di un sesso con un nucleo dell’altro. Attorno a questi si forma una soluzione citoplasmatica delimitata da una parete, che contribuirà alla formazione di un numero variabile di spore che va da 1 a 8. Le dimensioni delle stesse sono caratteristiche per ogni specie ma dipendono anche dal numero che raggiungono all’interno dell’asco.
Ciclo biologico
All’interno del genere Tuber il ciclo biologico può presentare una moltitudine di varianti che dipendono per lo più dalle caratteristiche genetiche della specie. Ciò nonostante può essere identificato un “percorso” che in linea generale viene seguito per arrivare alla formazione del tartufo. Quest’ultimo prevede la formazione di un micelio primario da parte della spora che viene trasportata e dispersa grazie all’attività di animali e insetti. Successivamente avviene la fusione di due miceli primari differenti, che però si devono trovare abbastanza vicini tra di loro. A questo punto, è di fondamentale importanza che il micelio secondario così formatosi, instauri il prima possibile una simbiosi con le radici di una pianta, per dar vita alle cosiddette ectomicorrize, per poi arrivare alla formazione del vero e proprio corpo fruttifero del tartufo.
La simbiosi micorrizica
La formazione della micorriza, quindi del complesso strutturale e funzionale costituito dal micelio di un fungo vivente in simbiosi con le radici di una pianta, è di fondamentale importanza poiché la sua qualità determina la prelibatezza del tartufo. Per far sì che si formi sono necessari umidità, esposizione al sole, presenza di calcare e microelementi e una giusta densità del bosco. Le micorrize sono strutture che presentano dimensioni variabili tra 0,2 e 6 mm di lunghezza e hanno un diametro che non supera gli 0,8 mm. Sono dunque estremamente delicate e tartufai e tartuficoltori devono saperle rispettare e preservare.
La micorriza ha la capacità di assorbire acqua e soluzioni attraverso le ife del fungo mentre le radichette della pianta hanno solamente funzioni di trasporto. Generalmente, gli alberi che portano tartufi difficilmente instaurano simbiosi micorriziche con altri funghi ed è bene notare che le specie più pregiate sono anche quelle più deboli e meno competitive da questo punto di vista. Il corpo vegetativo dei tartufi, talvolta, può arrivare a vivere quanto l’albero simbionte che però può interrompere la simbiosi a causa di danni accidentali, presenza di concimi chimici e di sostanze acidificanti.
Riconoscere i tartufi
Per distinguere una specie di tartufo da un’altra in alcuni casi non è necessario essere tartufai esperti dato che è sufficiente l’osservazione di pochi caratteri macroscopici. Spesso però, quest’operazione richiede un analisi più approfondita di odore, forma e dimensioni degli aschi, tipologia e colorazione del peridio, colore e morfologia delle venature presenti all’interno della gleba e dimensioni delle spore. Inoltre, può essere presente anche una notevole variabilità all’interno della stessa specie e ciò rende ulteriormente difficile la classificazione, che come è intuibile, può richiedere l’utilizzo di microscopi stereoscopici e nei casi più complessi anche ottici.
Negli ultimi anni la ricerca scientifica in questo campo ha fatto numerosi passi avanti, consentendo di individuare marcatori specie-specifici per la classificazione sistematica, ma anche di definire i rapporti filogenetici tra le varie entità tassonomiche. Attualmente, sono perfettamente conosciute le caratteristiche del DNA di quasi tutte le specie di tartufo commestibili e ciò è di fondamentale importanza nei casi in cui non sia sufficiente prendere in considerazione solamente i tratti morfologici e microscopici.
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La coltivazione del tartufo
Come tutti ben sanno la coltivazione e di conseguenza la vendita del tartufo è un attività che può risultare molto remunerativa. Bisogna però saper essere pazienti perché dall’impianto alla prima raccolta possono passare dai 9 ai 12 anni. Per ottenere dei buoni risultati produttivi in tartuficoltura è necessario identificare un luogo climaticamente adatto e che presenti un suolo con ottime caratteristiche, che rispettino i requisiti per l’impianto di materiale di qualità. In linea di massima, la prima operazione da effettuare è la messa a dimora di piante micorrizate con il tartufo che si desidera coltivare, che generalmente vengono prodotte in vivai specializzati.
Da qui in avanti bisogna procedere con una cura non ossessiva ma oculata della coltivazione, eliminando le malerbe, irrigando solo in periodi di siccità e combattendo gli attacchi di parassiti con metodologie rigorosamente naturali. Salvo problematiche eccezionali, la produzione di questo fungo ipogeo può durare anche 80 anni senza che si renda necessario sostituire le piante.
Il prezzo di vendita del tartufo varia periodicamente per lo più in base a fattori che dipendono dall’andamento della produzione e dai passaggi di filiera. Può oscillare dai pochi euro al chilo, per arrivare a 300-600 €/kg per il tartufo nero pregiato e a 2000-3000 €/kg per quello bianco.
La ricerca del tartufo: come e dove trovarli
In molti casi la coltivazione del tartufo può risultare difficile e spesso non ripaga gli sforzi del tartuficoltore. Proprio per questo motivo, soprattutto in Italia, è molto diffusa la ricerca di questi funghi all’interno dei boschi. Per diventare un tartufaio è necessario dotarsi di un apposito patentino ed è richiesta molta esperienza sia in ambito ecologico che normativo, dato che esistono dei regolamenti molto severi che tutelano questo bene prezioso. Gli strumenti necessari per la ricerca sono la cosiddetta vanghetta, utile per scavare senza rovinare il tartufo, un’apposita borsa per il trasporto e dei guanti che fungono da dispositivo di protezione individuale.
Inoltre, per evitare inutili scavi, la legge italiana oggi impone l’utilizzo di cani da tartufo, magnifici animali che essendo dotati di un fiuto eccezionale sono in grado di localizzare con precisione il fungo. Le razze che si prestano meglio a questo lavoro sono il bracco, il pointer, lo spinone e il cocker anche se in realtà può essere utilizzato qualsiasi cane, purché sia dotato di buona resistenza, concentrazione e dedizione, caratteristiche fondamentali per superare il lungo addestramento necessario.
L’identificazione di un’area idonea per la presenza del tartufo dipende da una moltitudine di fattori. In generale vengono prediletti suoli ben areati, senza ristagni e con pH alcalino. Per quanto riguarda la scelta delle piante giuste, generalmente il tartufo nero predilige il leccio, il rovere e il carpino nero mentre quello bianco instaura facilmente simbiosi micorriziche con il tiglio e la roverella.
Il tartufo in Italia
Date le favorevoli condizioni climatiche, la produzione di tartufo è tipicamente italiana ed è proprio qui che si trovano la maggiore varietà e la più vasta quantità di tartufi selvatici al mondo. A livello regionale, il Piemonte è sicuramente la regione d’Italia più conosciuta e rinomata per la produzione del tartufo che si concentra principalmente nelle aree delle Langhe, nel Monferrato e nella fascia collinare più settentrionale. Le principali varietà legate a questo territorio sono il tartufo pregiato bianco di Alba ma anche lo Scorzone e l’Uncinato. Al secondo posto si colloca l’area appenninica centrale dalla quale proviene il famoso tartufo Nero di Norcia. Nelle altre zone del Belpaese è comunque possibile trovare questo fungo, anche se in quantità più ridotte e relegate nelle aree più salubri e dunque meno influenzate dall’attività dell’uomo.
Rerefenze
- A. Ceruti, Biologia e possibilità di coltivazione dei tartufi, Atti del congresso nazionale sul tartufo, Spoleto, 1968.
- E. Marrone, La filiera del tartufo e la sua valorizzazione in Toscana e in Abruzzo, Firenze University Press – Firenze, 2011.
- F. Brun, A. Mosso, Il mercato dei tartufi in Piemonte: valorizzazione della filiera e ricadute territoriali, Economia Agro-Alimentare, 2011.
- G.L. Rana, R. Marino, I tartufi, Università degli Studi della Basilicata, Facoltà di Agraria, 2007.
- tartufo.com