Dalle torride savane al gelido artico, dal livello del mare all’altopiano del Tibet, non c’è ambiente sulla terraferma che gli esseri umani non siano stati in grado di colonizzare. Questa varietà di luoghi ci ha posto dinanzi ad una moltitudine di sfide, alle quali non sempre siamo stati in grado di rispondere con l’intelletto. In questi casi, la selezione naturale sull’uomo ha premiato gli individui geneticamente predisposti a fronteggiare con successo le avversità incontrate lungo il cammino.
Prima di esaminare alcuni degli adattamenti biologici all’ambiente scoperti in diverse popolazioni umane, una rapida digressione introduttiva.
Cos’è la selezione naturale?
Si parla di selezione naturale quando alcuni individui di una popolazione sono in grado di riprodursi maggiormente degli altri in una maniera non casuale. Se ad esempio una variante genetica conferisce a chi la possiede una capacità di riprodursi superiore a quella di chi ne è sprovvisto, tale variante assicurerà maggiori chances riproduttive e verrà trasmessa alle generazioni successive a scapito delle altre, diffondendosi nella popolazione[1].
La selezione naturale, dunque, è un processo che, con il passare della generazioni, determina dei cambiamenti nella frequenza della varianti genetiche all’interno della popolazione. Al netto di altri fattori – primo fra tutti, il caso –, le varianti genetiche vantaggiose diverranno più frequenti, mentre quelle svantaggiose più rare.
Selezione naturale nell’uomo
Sebbene si tenda spesso a dimenticarlo, anche noi esseri umani siamo soggetti agli stessi fenomeni che regolano l’evoluzione biologica di tutti gli altri organismi viventi. Tra questi fenomeni, la selezione naturale ha giocato un ruolo cruciale nel plasmare ogni aspetto della nostra biologia. Fattori come clima, alimentazione, latitudine, infezioni batteriche e virali hanno determinato delle disparità nel successo riproduttivo degli individui: quelli geneticamente predisposti a fronteggiare meglio determinate avversità ambientali hanno potuto riprodursi con maggior successo rispetto agli altri ed hanno trasmesso le loro caratteristiche ai discendenti.
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Grazie soprattutto all’avvento di sofisticate tecniche di analisi del genoma, gli antropologi sono oggi in grado di risalire al ruolo giocato dalla selezione naturale nell’evoluzione dell’uomo[2]. Vediamo, dunque, quali sono alcune delle scoperte più affascinanti sull’argomento.
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Selezione naturale ed esposizione solare
Questione di latitudine
Spostandosi dall’equatore verso i poli, la radiazione solare che raggiunge la superficie terrestre diminuisce sempre di più. Ne consegue che chi vive all’equatore tenderà ad essere maggiormente esposto ai raggi solari rispetto a chi vive a latitudini superiori.
La radiazione ultravioletta (UV) è indispensabile per la sintesi della vitamina D, che ha luogo negli strati superficiali dell’epidermide. Una volta prodotta, questa vitamina gioca un ruolo cruciale nel mantenimento di un buono stato di salute nell’uomo, garantendo ad esempio un adeguato sviluppo osseo. D’altro canto, l’eccessiva insolazione può portare a scottature e, nel peggiore dei casi, a tumori della pelle. Inoltre, la radiazione UV determina la distruzione del folato, una molecola importantissima poiché coinvolta nella sintesi e nella riparazione del DNA, nonché nella fertilità maschile[3].
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Il colore della pelle è fondamentalmente determinato dal tipo e dalla quantità di melanina presente nell’epidermide. Oggi sappiamo che esso diviene via via più scuro man mano che ci si avvicina all’equatore: le popolazioni nordeuropee hanno la pelle più chiara di quelle dell’Europa meridionale, le quali, a loro volta, hanno la pelle più chiara di quelle africane.
La correlazione tra un carattere e una variabile ambientale è un primo indizio del fatto che quel carattere è un adattamento. Un adattamento, sì, ma a quale fattore ambientale? Cos’è che varia al variare della latitudine e può avere un impatto sulla salute e sul successo riproduttivo umano? Bingo! L’insolazione!
Già gli antichi greci si erano resi conto dell’associazione tra elevata esposizione solare e colore scuro della pelle[3]. Ma in che modo il colore della pelle protegge dagli effetti deleteri della radiazione UV e/o ne preserva quelli benefici? Vediamolo di seguito.

Tumori, folato e vitamina D
La melanina scherma gli strati più profondi dell’epidermide dai raggi UV, riducendo il rischio di tumori. Tuttavia, i tumori causati dalla radiazione UV tendono ad insorgere ad un’età in cui l’individuo ha già avuto il tempo di riprodursi. Di conseguenza, è improbabile che essi rappresentino il setaccio della selezione naturale.
Come già spiegato, i raggi UV degradano il folato, e la carenza di folato può portare a gravi difetti nello sviluppo del feto. Ciò che è più probabile, quindi, è che il vantaggio selettivo di una pelle scura risieda nella protezione al folato che essa assicura[4]. Tale vantaggio diminuisce all’aumentare della latitudine. Allontanandosi dall’equatore, infatti, la quantità di radiazione solare a cui si è esposti diminuisce sempre di più: una pelle scura in presenza di una ridotta radiazione solare, di conseguenza, potrebbe impedire un’adeguata produzione di vitamina D. Ecco, allora, che maggiore è la latitudine, maggiore è il vantaggio selettivo di avere una pelle chiara.
Storia evolutiva del colore della pelle
Alcuni studi condotti sui profili genetici di varie popolazioni umane hanno permesso di datare l’impronta della selezione naturale su alcuni geni responsabili del colore della pelle. Sulla base delle datazioni ottenute, quindi, gli scienziati hanno formulato alcune ipotesi sulla storia evolutiva di questo tratto biologico.
Attualmente, la ricostruzione più accreditata vede i più antichi esponenti del genere Homo, vissuti in Africa, possedere una pelle chiara e una folta peluria, praticamente come l’attuale scimpanzé. Successivamente, l’acquisizione della postura eretta e la possibilità di percorrere lunghe distanze sotto il cocente sole africano dovettero comportare il rischio di surriscaldamento. Questo, dunque, rese selettivamente vantaggiosa la perdita della pelliccia. Tuttavia, se da un lato una pelle nuda proteggeva dal rischio di colpo di calore, dall’altro era più vulnerabile agli effetti indesiderati della radiazione UV. Ecco, dunque, che la selezione naturale cominciò ad agire premiando le varianti genetiche che conferivano un colore della pelle più scuro[4].
Tra i 60 e i 50 000 anni fa, le prime tribù umane lasciarono il continente africano e, come dimostrano gli studi genetici, dai membri di quelle tribù discesero tutte le attuali popolazioni non-africane. Alcuni di quei gruppi migrarono verso est, attraverso l’Asia meridionale (colonizzando Melanesia e Australia) mentre altri colonizzarono l’Eurasia continentale: non discostandosi mai troppo dall’equatore, i primi mantennero una carnagione scura; i secondi, invece, spostandosi verso latitudini maggiori, furono sottoposti ad una pressione selettiva che favorì le varianti genetiche associate ad una carnagione chiara[4].
Selezione naturale e vita in alta quota
Salendo di quota, la quantità di ossigeno che il corpo umano è in grado di ricavare dall’atmosfera si riduce sempre di più. Per questo motivo, superata la quota di 2 500 metri, il nostro organismo mette in atto una serie di risposte fisiologiche alla rarefazione dell’aria. Tra queste, vi è l’aumento della produzione di globuli rossi, la cui funzione è quella di trasportare l’ossigeno nel sangue. Se tale aumento può temporaneamente sopperire alla scarsa disponibilità di ossigeno, a lungo andare esso ha però ripercussioni negative sulla salute. Un numero di globuli rossi elevato, infatti, implica una maggiore viscosità del sangue, con conseguenze nefaste a carico del sistema cardiocircolatorio[5]. Tuttavia, gli effetti dell’alta quota sulla fisiologia umana sono reversibili, scomparendo poco dopo essere tornati a quote più basse.
Quanto appena descritto non è però sempre valido. Alcune popolazioni umane, infatti, vivono stabilmente oltre i 2 500 metri sul livello del mare, senza risentire dei problemi derivanti da una prolungata permanenza in alta quota: è il caso degli Sherpa sul plateau tibetano, degli Amhara sugli altipiani etiopi, di Quechua e Aymara sulle Ande. In queste popolazioni, la selezione naturale ha agito su caratteri fisiologici differenti, portando comunque allo stesso esito: la capacità di prosperare ad alta quota.
Il caso degli Sherpa
Gli Sherpa abitano il plateau tibetano da almeno 20 000 anni, con insediamenti situati sino a 5 000 metri di quota. Pur vivendo a simili altitudini, il numero di globuli rossi nel loro sangue è uguale a quello delle popolazioni che vivono a livello del mare.
I loro globuli rossi, quindi, non aumentano con l’altitudine, e questo li protegge dai rischi di una maggiore viscosità sanguigna. Alla base di questo loro adattamento alla vita in alta quota vi sono specifiche varianti di alcune proteine, dette hypoxia-inducible factors (fattori indotti dall’ipossia). Normalmente, quando l’ossigeno scarseggia, queste proteine attivano i geni responsabili delle risposte fisiologiche alla carenza di ossigeno. Le varianti genetiche Sherpa, però, comportano la mancata attivazione di alcuni di questi geni, impedendo le risposte fisiologiche che altrimenti avrebbero luogo[5].
Alcuni degli adattamenti genetici appena descritti derivano dall’ibridazione tra gli antenati degli Sherpa e i membri di un’altra specie ormai estinta, l’uomo di Denisova. Quando i sapiens lasciarono l’Africa, infatti, l’Eurasia era già popolata da altre specie afferenti al genere Homo, come l’uomo di Neanderthal e, appunto, l’uomo di Denisova. In alcuni casi, i nuovi arrivati misero su famiglia con questi nostri lontani cugini. Risultato: una piccola percentuale del DNA di noi esseri umani odierni deriva da queste forme umane estinte. In rare occasioni, le varianti genetiche ereditate da queste specie si sono rivelate vantaggiose per la sopravvivenza e la riproduzione. E questo è proprio il caso degli Sherpa, i quali posseggono delle varianti genetiche ereditate dall’uomo di Denisova: tali varianti, ricadenti all’interno del gene EPAS1, sono infatti tra quelle responsabili dell’adattamento di questa popolazione all’alta quota[6].
Il caso dei Quechua e degli Aymara
Il popolamento delle Ande risale ad almeno 12 000 anni fa, e oggi, tra le popolazioni indigene, si annoverano quelle dei Quechua e degli Aymara. Diversamente da quanto accade negli Sherpa, negli abitanti delle Ande il numero di globuli rossi aumenta con la quota, esattamente come nella maggioranza degli esseri umani. In compenso, in Quechua e Aymara, la selezione naturale pare aver agito a livello dei geni che influiscono sugli effetti deleteri di tale aumento, arginandoli e contrastado ad esempio lo stress ossidativo[5].
Inoltre, sebbene non sempre se ne conoscano le basi genetiche, gli Andini mostrano una serie di caratteri che risultano vantaggiosi in ambiente d’alta quota[7]. Questi riguardano i sistemi circolatorio e respiratorio, e implicano una più efficiente ossigenazione dei tessuti corporei attraverso, per esempio:
- un maggior volume polmonare;
- un maggior diametro delle arterie uterine;
- un utilizzo più efficiente dell’ossigeno da parte del cuore.
Il caso degli Amhara
Attualmente, si stima che gli Amhara popolarono gli altopiani etiopi intorno ai 5 000 anni fa. Come gli Sherpa, anche queste popolazioni sono caratterizzate da un numero di globuli rossi che risente poco dell’aumento di quota. Bisogna specificare che le basi genetiche dell’adattamento Amhara all’alta quota non sono ancora del tutto chiare ma, alla base di questo fenomeno, parrebbero esserci varianti genetiche diverse da quelle risultate vantaggiose negli Sherpa[8].
Selezione naturale ed immersioni in acqua
L’apnea e l’immersione del viso nell’acqua fredda scatenano una serie di risposte fisiologiche comuni all’uomo e ai mammiferi marini. Queste includono:
- il rallentamento del battito cardiaco, che riduce il consumo di ossigeno;
- il restringimento dei vasi sanguigni periferici, che dirotta il sangue agli organi vitali;
- la contrazione della milza, che immette sangue ossigenato extra in circolo.
Da secoli, i Bajau, chiamati anche nomadi del mare, spendono la propria esistenza vagando per i mari del sud-est asiatico su abitazioni galleggianti. La loro sussistenza si basa principalmente sulla pesca, effettuata attraverso immersioni in apnea, a profondità che possono superare i 70 metri!
In generale, la dimensione della milza sembra influire sulla durata dell’immersione. Ciò che si è visto infatti è che, ad esempio nelle foche, più la milza è grande, maggiore è il tempo che l’animale può trascorrere in apnea.
Utilizzando gli ultrasuoni, alcuni ricercatori hanno osservato che la milza dei Bajau è più grande di quella dei Saluan, un’altra popolazione del sud-est asiatico. Inoltre, non vi sono grosse differenze tra la milza dei Bajau che si immergono e quella dei Bajau che non lo fanno. Di conseguenza, la maggiore dimensione della milza Bajau non risulta ascrivibile ad un adattamento fisiologico temporaneo all’immersione. Al contrario, essa potrebbe rappresentare un adattamento innato, ovvero di natura genetica, al singolare stile di vita di questa popolazione.
E tale ipotesi è avvalorata dalle analisi genetiche. Nei Bajau, infatti, l’impronta della selezione naturale è stata riscontrata in corrispondenza di sequenze di DNA che possono influire proprio sulla dimensione della milza[9].

Selezione naturale ed esposizione all’arsenico
L’arsenico è un semimetallo naturalmente presente nella crosta terrestre. Da qui, attraverso una serie di processi, esso può passare in aria, acqua, nonché in piante ed animali. Nell’uomo, la principale fonte di esposizione all’arsenico sono le acque sotterranee contaminate. E quando l’esposizione a questo elemento si fa persistente, il rischio di incorrere in cancro, aborti spontanei e altre patologie aumenta[10].
La valle del fiume Camarones, in Sud America, è uno dei luoghi più contaminati da arsenico al mondo. Le acque locali mostrano concentrazioni di questo elemento dieci volte superiori al limite di sicurezza stabilito dalla World Health Organization. Nonostante ciò, le comunità che abitano la regione se ne servono da almeno 7 000 anni[11].
Cosa ci racconta l’archeologia?
Analizzando ossa e capelli degli antichi abitanti della valle del fiume Camarones, è emersa una graduale diminuzione delle concentrazioni di arsenico al loro interno. Tali concentrazioni, infatti, diminuiscono gradualmente passando dai resti più antichi, risalenti a 7 000 anni fa, a quelli più recenti. E per spiegare tale evidenza, gli studiosi suggeriscono che gli abitanti della valle siano stati soggetti ad un fenomeno di progressivo adattamento.
I primi abitanti, quindi, non sarebbero stati in grado di metabolizzare efficientemente l’arsenico ingerito, il quale si sarebbe accumulato nei tessuti corporei. Con il passare delle generazioni, però, intossicazione dopo intossicazione, la selezione naturale avrebbe premiato gli individui dotati di un metabolismo dell’arsenico più efficiente. Questi sarebbero stati in grado di espellere l’arsenico più rapidamente, riducendone l’accumulo e limitandone i danni[10].

Conferme dalla fisiologia e dalla gentica
Il metabolismo dell’arsenico ha luogo nel fegato, e comporta la produzione di due tipi di molecole: le monometilammine (MMA) e le dimetilammine (DMA). I soggetti che risentono maggiormente della tossicità dell’arsenico mostrano una percentuale di MMA nelle urine più alta. Al contrario, chi è più protetto dagli effetti nefasti di questo elemento mostra una maggiore percentuale di DMA. A parziale conferma di quanto ipotizzato sulla base delle ricerche archeologiche, gli odierni abitanti della valle del fiume Camarones appartengono a questa seconda categoria e sarebbero quindi protetti dagli effetti avversi dell’arsenico.
Inoltre, nonostante il costante utilizzo di acque ricche in arsenico, in queste popolazioni i classici sintomi dell’intossicazione compaiono solo raramente[10].
A corroborare l’ipotesi di un adattamento all’arsenico, vi sono anche i risultati dell’analisi genetica condotta sulle suddette popolazioni. Queste, infatti, sono caratterizzate da un’elevata frequenza delle varianti genetiche che proteggono dalla tossicità del contaminante. Al contrario, nelle stesse popolazioni, le varianti associate ad una maggiore vulnerabilità agli effetti deleteri dell’arsenico risultano rare[11].
Altri adattamenti dell’uomo
Quelli discussi nei paragrafi precedenti sono solo alcuni degli adattamenti umani scoperti fino ad oggi. Fattori come clima, patogeni e cambiamenti di dieta, hanno sempre rappresentato agenti selettivi in grado di plasmare la biologia delle popolazioni umane[12, 13].
La capacità di digerire il lattosio anche in età adulta, per esempio, sembrerebbe essere un adattamento risalente all’avvento dell’allevamento degli animali[14].
Negli Inuit del Nord America, invece, l’impronta della selezione naturale è stata rilevata a livello di geni coinvolti nel metabolismo degli acidi grassi. Questo, insieme ad altre evidenze, lascia supporre che questi popoli siano geneticamente adattati alla loro dieta ricca di pesce e mammiferi marini[15].
Infine, diverse popolazioni posseggono adattamenti genetici alla malattia che causa il maggior numero di morti infantili al mondo: la malaria[16].
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Conclusioni
Agendo sulla variabilità biologica insita nella nostra specie, la selezione naturale ha spesso reso le popolazioni umane adattate all’ambiente in cui vivono. Fattori di vario tipo hanno determinato differenze nel successo riproduttivo degli individui, favorendone alcuni e penalizzandone altri. Persino fattori culturali, come la dieta, hanno funto da agenti selettivi, rendendo vantaggiose le varianti genetiche associate alla capacità di metabolizzare meglio determinati nutrienti. E proprio le scoperte fin qui descritte ci devono ricordare che, nonostante si tenda a considerare gli esseri umani ormai avulsi dalle dinamiche evolutive, la nostra specie è in realtà costantemente sottoposta al vaglio della selezione.
Referenze
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