Gli uomini hanno attuato la selezione artificiale, ovvero la selezione intenzionale di caratteristiche biologiche non proprie dell’ambiente naturale, è stata attuata dagli uomini già da tempi remoti basandosi esclusivamente sul fenotipo, ossia sulle caratteristiche visibili esteriormente.
Al giorno d’oggi, molti degli animali che vivono accanto a noi o che contribuiscono al nostro sostentamento sono stati addomesticati e selezionati geneticamente per i nostri scopi. Sebbene questo processo sia un artificio proprio dell’uomo, è interessante osservare come il processo selettivo sia stato avviato, in alcuni casi, dagli stessi animali per ottenere un vantaggio in termini evoluzionistici.
Cos’è e su cosa opera la selezione artificiale
Tramite la selezione artificiale le specie animali vengono addomesticate, cioè rese dipendenti dall’uomo. Senza gli animali domestici e la coltivazione delle piante, la rivoluzione neolitica, caratterizzata dalla nascita dell’agricoltura e dell’allevamento, non ci sarebbe stata. Di fatto, la società moderna così come la conosciamo non esisterebbe.
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Il processo di domesticazione è caratterizzato dalla selezione e fissazione di caratteristiche che coinvolgono diverse alterazioni genetiche o mutazioni, ossia alterazioni permanenti e ereditabili nella sequenza di DNA causate da agenti esterni.
Tra queste le più significative sono:
- SNP (Single Nucleotide Polymorphism): variazione del materiale genetico a carico di un unico nucleotide (mutazione puntiforme);
- indel: inserzione o cancellazione di basi in una sequenza esistente;
- trasposizione: duplicazione e/o spostamento di un gene o di un’ampia sequenza non genica;
- ripetizione in tandem: accumulo di sequenze identiche tra loro;
- variazione del numero di copie: ripetizione di ampie sequenze di basi.
La ricostruzione della storia evolutiva (sistematica) si pone l’obiettivo di identificare le relazioni genealogiche tra le specie. Di recente, il DNA è diventato lo strumento primario per la ricostruzione dell’albero della vita. Questo codice permette di identificare le variazioni genetiche dovute ai processi di selezione garantendo quindi una più facile comprensione dei meccanismi di trasformazione che hanno coinvolto le principali specie domestiche[1].
Dai lupi ai cani
I canidi sono carnivori comparsi circa 40 milioni di anni fa e, tra questi, il lupo è sicuramente il predatore “sociale” di maggior successo del pianeta. Nel corso dell’evoluzione, questo animale ha sviluppato la capacità di cacciare in gruppo riuscendo a catturare prede anche di grandi dimensioni.
Prima di essere addomesticato, il lupo era largamente diffuso sul pianeta e occupava vari habitat che andavano dalla tundra a zone semidesertiche. In quei territori esistevano popolazioni geneticamente diverse ma la grande mobilità di questo animale impediva la speciazione a causa del continuo flusso di geni tra individui.
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Nel corso del tempo, il lupo iniziò ad avvicinarsi agli accampamenti umani attirato dagli scarti di cibo. In questo contesto, i lupi più tolleranti ottenevano più avanzi e di conseguenza una discendenza più numerosa rispetto ai fratelli “selvatici”, avviando in questo modo un processo di auto-domesticazione. Gli uomini non apprezzarono da subito questo comportamento ma poi si accorsero che la presenza dei lupi più mansueti portava ad alcuni vantaggi. In particolare, grazie all’udito e all’olfatto sopraffino, questi animali svolsero il ruolo di sentinelle avvisando prontamente in caso di situazioni di pericolo.
Questa interazione provocò alterazioni comportamentali, anatomiche e fisiologiche, che posero le basi per la nascita dei cani. Una delle prime fu la riduzione della taglia, causata dal nuovo regime di selezione dovuto all’associazione con l’uomo. Inoltre, la dieta ricca in amidi imposta dopo l’avvento dell’agricoltura, provocò una modifica sostanziale dell’apparato digerente[1].
Da pochi anni è possibile confrontare interi genomi di varie razze canine per analizzare le loro relazioni genealogiche. Considerando il lupo come la radice dell’albero, i primi ecotipi tuttora viventi che spuntarono dalla radice furono il ramo dei dingo e successivamente il ramo del basenji (fig. 1).
Dal confronto genomico delle razze canine emergono anche alcune delle alterazioni genetiche che contribuirono all’evoluzione del cane. Ad oggi la mappatura genomica delle mutazioni legate ai tratti visibili esteriormente dei cani (tratti fenotipici) è stata ridotta per lo più a mutazioni puntiformi, indel e duplicazioni/spostamenti di geni.
Ad esempio tutti i cani di peso inferiore a 11 chili presentano una mutazione puntiforme che interessa un gene responsabile della codifica di una proteina in grado di stimolare la proliferazione cellulare, alterandone la velocità di sintesi. Per quanto concerne invece il colore del pelo, forme alternative di uno stesso gene (alleli) presenti in posizioni diverse all’interno del genoma (loci genici) si uniscono in modo più o meno complesso per produrre particolari combinazioni cromatiche[1].
Domesticazione dei gatti
La famiglia dei felidi comparve circa 35 milioni di anni fa e l’ultimo antenato comune di tutti i felidi moderni visse nel continente eurasiatico intorno a 11 milioni di anni fa. Da esso si svilupparono otto linee ben distinte (fig. 2). Come il lupo, anche il gatto selvatico, antenato del gatto domestico, ebbe un ampio areale.
Il risultato fu l’evoluzione di cinque sottospecie distinte:
- gatto selvatico europeo (Felis silvestris silvestris);
- gatto selvatico asiatico (Felis silvestris ornata);
- gatto selvatico africano (Felis silvestris lybica);
- gatto cinese di montagna (Felis silvestris bieti);
- gatto selvatico sudafricano (Felis silvestris cafra).
Ad oggi, gli studi relativi alla discendenza del gatto domestico dimostrano che l’antenato di quest’ultimo è il gatto selvatico africano. Questa sottospecie presenta caratteristiche tipiche dei felidi come lo schema corporeo e la dieta carnivora, che rendono molto complicata la domesticazione. Di fatto, il gatto si è quasi completamente auto-addomesticato mantenendo in ogni caso dei tratti tipicamente selvatici, e solo in tempi recenti una piccola parte dei gatti che popolano il pianeta è stata sottoposta a selezione artificiale per scopi puramente estetici.
Le prove genetiche, basate sul DNA mitocondriale, indicano che la domesticazione si verificò intorno all’8000 a.C. nella Mezzaluna Fertile. A quei tempi, l’uomo incominciò ad immagazzinare i cereali che inevitabilmente attraevano i topi domestici. I gatti iniziarono perciò a girovagare tra gli insediamenti umani per procurarsi delle facili prede prosperando in quella nuova nicchia e diventando più mansueti.
A differenza di quanto avviene nel cane, il pelo lungo del gatto dipende da quattro diverse mutazioni di un gene. In questo caso, ciascuna variante del gene (alleli) determina tratti analoghi, sovvertendo l’attività biologica in modi simili.
Considerando invece il gene termosensibile della tirosina, responsabile della pigmentazione del mantello, si è scoperto che una sua mutazione è in gran parte responsabile della colorazione del Siamese che li conferisce il tipico schema cromatico. A causa di questa mutazione, il gene è più attivo nelle zampe, che durante lo sviluppo sono più fredde, e meno attivo nella parte centrale del corpo, più calda[1].
Miglioramento genetico degli animali di interesse zootecnico
Per quanto riguarda la selezione di animali come ad esempio il suino e il bovino, la fissazione dei caratteri di puro interesse economico ha rappresentato da sempre il principale obiettivo. In questo senso, il miglioramento genetico attraverso una selezione artificiale è un ottimo strumento che consente la modifica del patrimonio genetico al fine di migliorare le prestazioni produttive e riproduttive degli animali da allevamento mediante la selezione dei riproduttori agendo su caratteri quali:
- produzione di latte
- contenuto lipidico del latte
- ritmo di accrescimento nei giovani
- rapporto tra cibo ingerito e crescita dell’organismo
- numero di uova deposte
Questi caratteri vengono definiti quantitativi e sono determinati geneticamente da un gran numero di locus genici che contribuiscono ciascuno per una piccolissima parte all’espressione genica. Lo studio di un carattere quantitativo in una popolazione animale si basa sulla misurazione dei valori visibili esteriormente (fenotipo) e sulla stima dei fattori genetici trasmissibili alle generazioni future, cioè che non dipendono dall’ambiente esterno.
La componente trasmissibile è il risultato dell’azione di molti geni indipendenti tra loro ed è dovuto principalmente ad effetti genetici semplici (additivi). Questi effetti sono indicati come il valore riproduttivo di un animale e sono importantissimi ai fini della selezione[2].
Referenze
- Francis C. Richard, 2015. Domesticated. Evolution in a Man-made World, Bollati Boringhieri editore.
- Pagnacco G., 2004. Genetica animale applicata, Casa Editrice Ambrosiana.