Rita Levi-Montalcini è oggi considerata come una delle più importanti scienziate della storia italiana nonché mondiale. Le sue intuizioni e le sue scoperte hanno portato ad una rivoluzione delle neuroscienze e alla possibilità di poter trattare malattie prima ritenute non curabili. La sua vita però non fu affatto facile. Dalle discriminazioni di genere a quelle religiose la Montalcini dovette superare numerosi ostacoli prima di riuscire a vedere riconosciuto il suo talento.
I primi anni di Rita Levi-Montalcini
Rita Levi-Montalcini nacque a Torino il 22 Aprile 1909. Suo padre Adamo Levi era un ingegnere elettrotecnico e sua madre Adele Montalcini era una pittrice. La sua abitazione permetteva uno sguardo sulla statua di Vittorio Emanuele II, nell’0monimo corso. Da piccola trascorreva molto tempo a guardare l’opera dedicata al primo Re d’Italia. Egli infatti possedeva un paio di baffi che le ricordavano quelli del padre.
Il suo rapporto con il padre fu sempre piacevole e basato su un supporto sincero. Nonostante ciò fin da piccola la Montalcini dimostrava un carattere più freddo e distaccato rispetto al fratello Gino e alle sorelle Anna e Paola, tutte più grandi di lei, tanto da raccontare come non riuscisse a baciare i suoi genitori se non a distanza, ovvero senza toccare fisicamente le loro guance. Lei stessa li definì “baci d’aria”[1].
Il rapporto più stretto lo aveva con Paola in quanto sua gemella. Quest’ultima aveva un carattere totalmente opposto al suo e riusciva a manifestare i suoi sentimenti con un ardore nettamente superiore al suo.
Adamo Levi e Adele Montalcini erano ebrei. Essi però decisero di non imporre la loro fede ai figli e alle figlie, ma anzi dissero loro di definirsi “liberi pensatori”. Questa decisione fu fondamentale per creare in Rita Levi-Montalcini quel senso critico che sarà alla base delle sue scelte future. Suggestivi per Lei furono i pranzi e le cene durante le festività ebraiche che terminavano spesso con discussioni tra i parenti più conservatori e il padre.
Ad aumentare queste riflessioni c’era la loro tata Giovanna, soprannominata Cincirla da Rita e Paola, la quale era invece cattolica e non perdeva occasione per cercare di convertirle al cattolicesimo, senza ovviamente farsi scoprire dai due genitori.
Ebrea e pure donna
Come se in un’Italia dei primi del Novecento non bastasse essere ebrei Rita Levi-Montalcini aveva un’altra “colpa”: essere donna.
Agli inizi del Novecento ci troviamo infatti nel periodo post vittoriano durante il quale le donne venivano riconosciute solo in quanto mogli. Le donne non avevano alcun diritto sull’economia familiare, non potevano svolgere alcun attività senza il permesso dei mariti e l’unica istruzione immaginabile era frequentare i licei femminili per imparare ad essere delle brave mogli. In Italia la situazione era più tenue: molte donne andavano all’università e potevano lavorare. Tali scelte però erano complesse e spesso accompagnate da sfruttamenti e discriminazioni intellettuali.
Rita fu molto fortuna a nascere in una famiglia molto aperta mentalmente. Infatti le sorelle del padre erano laureate in lettere e matematica, molto raro per quei tempi. Nonostante ciò ebbero numerose difficoltà nel terminare gli studi e nel trovare lavoro, non certo perché non fossero all’altezza, ma per via della discriminazione verso le donne che volessero percorrere carriere tipicamente maschili.
Considerate queste problematiche il padre decise di indirizzare le due figlie, dopo elementari e medie, al liceo femminile, che non permetteva l’accesso all’università.
La scelta di diventare medico
L’evento che più di tutti segnò la vita di Rita fu la diagnosi di tumore allo stomaco della tata Giovanna. Nonostante i tentativi di conversione lei era la persona che le aveva accudite e accompagnate per tutta la loro vita fino a quel momento. Fu quindi una notizia destabilizzante scoprire come lo stadio del tumore fosse tale da renderla una malata terminale, quindi non guaribile.
L’intera famiglia andava a trovarla ogni giorno e Rita rimase colpita da quel corpo pallido e abbattuto dalla malattia che morì qualche anno dopo la diagnosi. Fu lì al suo capezzale che prese la decisione più importante della sua vita. Non contava nulla che la società l’etichettasse come ebrea e che le facesse pesare il suo essere donna, lei voleva diventare una medica. Rita aveva terminato gli studi già da tre anni e l’unico ostacolo davanti a sé era il doverli riprendere.
Lo disse dapprima a sua madre, la quale però le rispose di discuterne con il padre. Egli l’ascoltò con interesse e cercò di dissuaderla affermando come fosse una carriera lunga, complessa e poco adatta a una donna. Nonostante ciò accettò la sua scelta e fu così che Rita Levi-Montalcini cominciò, insieme alla cugina Eugenia, a studiare matematica, greco e latino da privatista, con insegnati amici di famiglia. Da sole invece affrontarono gli studi di storia e filosofia. La Montalcini si ritenne, sarcasticamente, fortunata ad aver affrontato gli studi femminili invece del liceo classico: affermò come la filosofia la appassionasse a tal punto che avrebbe proseguito su quella strada se l’avesse studiata già dal liceo[1].
A ogni modo insieme a ripetenti e bocciati svolsero gli esami su queste materie fondamentali per accedere alla facoltà di medicina: Rita Levi-Montalcini arrivò prima in graduatoria e fu ammessa all’Università di Torino.
L’università e le ricerche di Rita Levi-Montalcini
Nel 1932, due anni dopo l’inizio dei suoi studi, Adamo Levi morì. Nonostante Rita fosse molto fredda e avesse difficoltà a manifestare le proprie emozioni ne rimase distrutta. D’altronde era grazie a lui se poteva studiare medicina. Questo gravissimo evento rafforzò ulteriormente la sua determinazione nel prosegue gli studi.
Durante l’università Rita conobbe numerosi studenti e studentesse. Tra questi Renato Dulbecco, primo della classe e vincitore del Nobel per la medicina nel 1975.
In quegli anni durante gli studi medici si doveva svolgere un tirocinio con esame finale. La Montalcini scelse il laboratorio di istologia del professor Giuseppe Levi.
Oltre ad imparare a realizzare vetrini istologici a Rita toccò dimostrare che il numero di cellule neurale variasse tra gli animali invertebrati e vertebrati. Allora infatti era molto complesso ottenere organismi da studiare e tutte le analisi quantitative dovevano essere svolte con un paziente lavoro di osservazione e conta al microscopio. Dopo aver compilato tabelle con infiniti numeri dovette studiare le fasi con cui si formavano le circonvoluzioni del cervello in feti umani.
Insieme alle difficoltà relative al reperire feti umani un altro ostacolo cominciava a diventare sempre più insormontabile: il fascismo.
Il suo maestro Giuseppe Levi era ebreo e convinto antifascista. Frequenti erano le analisi al microscopio accompagnate dai suoi dibattiti con gli assistenti riguardo le violenze del regime fascista. Molti collaboratori tedeschi di Giuseppe Levi furono espulsi dalle università in Germania a causa del regime nazista e in Italia si cominciava a fare lo stesso. Sempre più frequentemente professori dell’università cominciarono ad isolare i docenti di religione ebraica.
Gli studi della Montalcini terminarono con una tesi sperimentale sulla formazione del collagene reticolare nei tessuti connettivi di muscoli, cuore ed epitelio.
La scienza clandestina
Il 14 luglio 1938 uscì su tutti i giornali il manifesto razziale firmato da 10 scienziati italiani. Il 17 novembre 1938 vengono promulgate le leggi antisemite. Da qual momento in poi nessun ebreo avrebbe più potuto insegnare o frequentare qualsiasi tipo di istituzione scolastica, tra le varie.
In quegli anni Rita stava conducendo uno studio sull’attività elettrica del sistema nervoso di embrioni di pollo. Il clima era sempre più pesante e discriminatorio a tal punto che gli studi più in voga riguardavano l’eugenetica e la genetica degli individui “puri”.
Considerando ciò sia la Montalcini che il suo Professore Giuseppe Levi si trasferirono nel 1939 all’università di Liegi in Belgio per completare e continuare le loro carriere.
A settembre dello stesso anno, con l’invasione della Polonia da parte della Germania, scoppiò la seconda guerra mondiale. Rita Levi-Montalcini tornò a dicembre in Italia credendo alle voci che parlavano di una rottura dell’asse Italia-Germania che furono subito smentite dalla stipula del “patto d’acciaio”. Così cominciò la sua vita clandestina.
Riuscì a prendere e conservare tutti gli strumenti necessari per continuare i suoi studi nella sua cameretta a Torino. Cominciò a osservare al microscopio lo sviluppo del sistema neurale in embrioni di pollo. Vide come recidendo i nervi periferici questi smettessero di stimolare la formazione dei neuroni ad essi associati. Evidentemente il “taglio” causava la perdita di un qualche fattore che dovesse in qualche modo guidare questo processo.
Anche un famoso scienziato statunitense, Viktor Hamburger, stava studiando la crescita dei nervi in embrioni di vario tipo ed era arrivato alla conclusione che dovesse esserci un qualche fattore ignoto che ne fosse la causa.
Il dopoguerra
Il 25 luglio 1943 Mussolini fu deposto. Gli italiani credettero che la guerra fosse finita: si sbagliavano. Il momento più cruento della resistenza stava per cominciare. I bombardamenti senza sosta, le rappresaglie fasciste e l’arrivo dell’esercito statunitense resero impossibile continuare a vivere “normalmente”. La Montalcini, stanca di doversi portare il microscopio nei sotterranei a ogni allarme bombardamento, nel maggio 1945 si fece ospitare nella soffitta di una famiglia fiorentina che aveva contatti con la sorella Paola Levi-Montalcini.
Anche quella soffitta divenne quindi un laboratorio dove gli embrioni di pollo continuarono ad essere studiati. Poco tempo dopo anche Giuseppe Levi andò a vivere a Firenze e i due ripresero la collaborazione che nel 1946, a guerra finita, poterono riprendere a Torino.
Rita, abbattuta dagli eventi e dalle vicissitudini trascorse, trovò molta difficoltà a riprendere le sue ricerche; fu così che riuscì grazie al suo professore ad ottenere di passare un semestre al college di St. Louis negli Stati Uniti.
La sua maggior scoperta: il Nerve Growth Factor
Viaggiò verso gli USA via mare, in compagnia di Renato Dulbecco che era anch’egli diretto verso il “nuovo mondo”. Durante le due settimane della traversata la nave incontrò varie burrasche che non resero il viaggio un’esperienza tranquilla.
Appena giunta al St. Louis venne invitata da Viktor Hamburger a cena per orientarla all’interno del college e discutere delle loro ricerche. L’ambiente in cui queste si svolsero dovette essere estremamente stimolante: lì infatti conobbe Gary Cooper, vincitore nel 1949 del premio Nobel per la medicina per aver contribuito alla scoperta delle funzioni degli emisferi cerebrali, e un giovane James Watson, tra gli scopritori della struttura elicoidale del DNA.
Le neuroscienze erano negli anni ’50 ancora una disciplina sconosciuta. Si conoscevano da poco le vaie tipologie di cellule neuronali grazie a Camillo Golgi e anche lo studio dello sviluppo embrionale del sistema nervoso stava muovendo i suoi primi passi, grazie a Santiago Ramón y Cajal. Ancora attivo era il dibattito sulle modalità di trasmissione di un impulso tra neuroni che protendeva verso la trasmissione chimica.
C’era molto da fare. La Montalcini cominciò studiando le fasi di sviluppo del midollo spinale realizzando vetrini da embrioni a diversi tempi di sviluppo. Dopo numerose osservazioni e pubblicazioni che le descrivessero la domanda venne spontanea: cosa regola queste fasi?
Per capirlo, l’idea fu quella di innestare due sarcomi, S180 e S37, nelle zampe degli embrioni. Questi tumori con un elevato tasso proliferativo avrebbero permesso di capire come si sviluppavano i nervi periferici e i meccanismi associati. Ciò che trovarono fu sorprendente: i nervi simpatici erano talmente tanti e ramificati che finivano per ostruire i vasi sanguigni vicini ai siti d’innesto.
Un veleno vitale
Quello che rimaneva da fare era rendere questi studi più “molecolari”. Per fare ciò la Montalcini scrisse ad una sua ex compagna di studi Herta Meyer la quale lavorava come assistente in un laboratorio a Rio De Janeiro e si era specializzata nelle colture in vitro allora appena introdotte nella pratica laboratoriale. Questa corrispondenza portò la scienziata a trasferirsi qualche mese in Brasile dove continuò i suoi studi. Lì scoprì come in colture cellulari di fibroblasti la presenza dei sarcomi S180 e S37 inibisse la crescita cellulare e che invece favorisse quella di neuroni anche coltivati in vitro. Provando ad innestare tali tumori in cervelli di topo invece si ottenevano tumori secondari senza effetti positivi per lo sviluppo nervoso.
Con questi dati tornò negli USA dove riprese gli studi con un nuovo collaboratore: Stanley Cohen. Egli era un biochimico che si occupava di studiare la produzione dell’urea nei nematodi. Su invito di Hamburger accettò la collaborazione per cercare di identificare il fattore ignoto.
Per prima cosa estrasse il contenuto proteico degli innesti tumorali e lo chiamò Nerve Growth Factor, abbreviato NGF, e cominciò a sperimentare la sua efficacia. Successivamente, grazie al suggerimento di un suo collega, cominciò ad aggiungere anche una piccolissima dose di veleno di serpente che si era dimostrato attivo sul sistema nervoso. Una mattina dell’aprile del 1956 con grande sorpresa Stanley e Rita si resero conto di come le fibre nervose dei campioni contenenti anche il veleno fossero nettamente più dense e sviluppate delle altre. Ripetendo l’esperimento con il solo veleno di serpente si ottenevano gli stessi risultati.
Dopo numerose analisi ed estrazioni chimiche e comparative tra gli estratti dei sarcomi e il veleno dei serpenti Stanley Cohen isolò il fattore responsabile del differenziamento nervoso che oggi conosciamo come NGF. Esso fu trovato con un’attività ancora superiore nelle ghiandole sottomandibolari dei topi. Inoltre scoprirono che l’antidoto al veleno dei serpenti utilizzati inibiva la differenziazione dei neuroni.
Purtroppo la collaborazione tra i due scienziati terminò con quest’ultima scoperta a causa di tagli del budget che portarono al congedo del biochimico.
La rivoluzione medica
Oggi il fattore NGF è oggetto di numerose ricerche. Dopo le scoperte della Montalcini molti laboratori in tutto il mondo cominciarono a studiare questa molecola. Negli anni ’70 si scoprì il gene che lo sintetizzava, chiamato “NGF gene”. Il fattore veniva sintetizzato come proNGF, precursore di dimensioni doppie rispetto al NGF finale. Questo è una proteina di circa 120 aminoacidi privata della porzione N-terminale presente nella forma “pro-“[2].
La sua attività si manifesta tramite il legame con due recettori: TrkA e p75NTR. Se interagisce con il primo si ha la stimolazione dello sviluppo nervoso, se con il secondo si induce l’apoptosi[2].
Negli anni ’90 si pensò di utilizzare il fattore per cercare di stimolare la formazione di neuroni in malattie degenerative quali Alzheimer e Parkinson. In entrambi i casi si vide che i sintomi relativi alla demenza erano attenuati e che la perdita di memoria risultava nettamente diminuita. Si riscontrarono però anche effetti negativi come ipersensibilità nervosa[2].
L’applicazione più sorprendente riguarda la capacità rigenerativa del fattore. Questo è in grado di velocizzare la rimarginazione di traumi e ferite epiteliali. La proteina è stata trovata anche nei tessuti epiteliali umani, seppure in basse concentrazioni. Inoltre si è dimostrato capace di favorire il rallentamento dei processi degenerativi della retina e della cornea[2].
Riconoscimenti mondiali e il Nobel
Il 10 dicembre 1986 Rita Levi-Montalcini vinse il premio Nobel per la medicina e la fisiologia grazie alla scoperta del Nerve Growth Factor. Lo vinse da sola. Stanley Cohen purtroppo si suicidò circa dieci anni dopo la fine della loro collaborazione e per questo non poté ritirare il premio. A ogni modo la Montalcini si dimostrò sempre grata per il fondamentale ruolo che il collega ebbe nella scoperta e nell’isolamento della proteina.
La studiosa che già tanto aveva dato alla scienza continuò la sua attività di ricerca studiando gli effetti delle malattie degenerative su modelli murini. Nonostante l’età che avanzava continuò ad essere attiva e non solo in ambito scientifico. Lei spesso diceva: “sono mente e non corpo”.
Parallelamente alle sue ricerche cominciò campagne di sensibilizzazione per favorire le carriere di donne nella scienza ed aiutare bambine e ragazze di paesi poveri ad ottenere un’istruzione. Nel 2001 fu nominata Senatrice a vita per l’importanza dei suoi studi scientifici e per le sue attività sociali. Fondamentale in Senato fu la sua battaglia per legalizzare l’aborto e renderlo un diritto imprescindibile.
Morì il 30 dicembre 2012.
Ancora oggi numerose sono le questioni irrisolte sia in ambito scientifico che sociale. Le applicazione del NGF non sono ancora chiarite e numerose donne ancora si vedono discriminate per il loro sesso biologico. La vita di Rita Levi-Montalcini è ad oggi una testimonianza di genio e capacità da cui tutti e tutte noi possiamo imparare per migliorare il mondo in cui viviamo.
Referenze
- Levi-Montalcini R., “Elogio dell’imperfezione”, 2013, Baldini&Castoldi s.r.l., Milano.
- Rocco Maria Luisa et al., “Nerve Growth Factor: early studies and recent clinical trials“, Curr. Neuropharmacol. 2018 dec; 16(10): 1455-1465.