È facile notare come gli scaffali delle librerie siano sempre più affollati di volumi, scientifici e non, riguardanti l’Anti-aging. Metodi per ringiovanire, diete miracolose o esercizi per allungare la vita. Dietro quello che è un fenomeno editoriale-culturale si cela un settore della ricerca scientifica in vivissimo fermento. Sappiamo già molto su un fenomeno complesso come l’invecchiamento, ma molto è ancora da scoprire. La medicina si è spesso concentrata, storicamente, sulla cura delle malattie e soltanto in tempi relativamente recenti sulla loro prevenzione. La stessa idea di vecchiaia, come molti di noi l’abbiamo in mente, inizia ad assumere connotati diversi: essa è, sì, un processo inevitabile ma non per questo non modificabile. Risalire alle cause primarie dell’invecchiamento e comprenderle in un contesto più ampio è ciò su cui la comunità scientifica si concentra.
Le nostre cellule invecchiano
Per spiegare tutti i segni distintivi dell’anzianità, come la maggiore suscettibilità alle malattie o in generale un alterato funzionamento dei processi fisiologici, bisogna partire dai nostri costituenti fondamentali: le cellule. Quello che si può facilmente notare al microscopio è l’accumulo di un composto di molecole polimeriche di natura principalmente proteica, chiamato Lipofuscina o “pigmento dell’invecchiamento” [1]. Le nostre cellule non sono in grado di degradare la lipofuscina e da ciò consegue la sua abbondanza nelle cellule più anziane. La presenza di questa sostanza è correlata con perdita di funzione del tessuto e con danni all’intero organismo che vanno dalla Degenerazione Maculare nell’occhio fino a malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer. Inoltre, nelle cellule più anziane la regolazione fine di tutte le funzioni cellulari in generale viene a mancare [2]. Le proteine vengono sintetizzate in maniera scorretta (Misfolding) e una componente essenziale delle cellule, ossia il loro citoscheletro, perde la necessaria integrità a causa dell’azione di sostanze tossiche.
Telomeri e longevità
I Telomeri formano la parte terminale dei cromosomi e sono costituiti da brevi sequenze di DNA ripetute. La loro funzione è quella di “chiudere” la doppia elica di DNA in modo da proteggerla dalla degradazione, che porterebbe inevitabilmente alla perdita di informazione genetica. Ad ogni divisione cellulare i telomeri vengono replicati soltanto parzialmente: ne consegue che più la cellula è “anziana” più i suoi telomeri sono corti. Un enzima chiamato Telomerasi compensa parzialmente questo accorciamento aggiungendo ad ogni ciclo nuove sequenze telomeriche. L’enzima però è attivo soltanto nelle cellule germinali e staminali, e in modo patologico nelle cellule tumorali. La lunghezza dei telomeri è un buon predittore dell’aspettativa di vita di un organismo, dato che gli animali che hanno vite più lunghe hanno anche telomeri più lunghi [3]. Il loro accorciamento, al contrario, è correlato alla senescenza della cellula, oltre che a manifestazioni patologiche come il declino del sistema immunitario.
La genetica dell’invecchiamento
A questo argomento Cynthia Kenyon ha dedicato gran parte della sua carriera scientifica, studiando principalmente il nematode C. elegans [4]. Identificando i geni che, quando mutati, producevano cambiamenti nella durata di vita dell’animale, ha chiarito i meccanismi genetici e i pathway che dirigono l’invecchiamento. Sono proteine come Insulina, IGF-1, mTOR, AMP chinasi e Sirtuine a regolare i processi biochimici di maggiore impatto sul fenomeno dell’invecchiamento. È interessante notare come tutti questi pathway siano coinvolti nella risposta allo stress oppure come sensori di nutrienti.
Globalmente, ciò che accade, è che nei periodi di benessere questi geni promuovono la crescita e la riproduzione; al contrario, in condizioni più rigide, l’organismo si concentra sulla protezione delle cellule e sul mantenimento dell’integrità. Agendo proprio su queste condizioni (restrizione calorica, temperature calde o fredde, rallentamento del metabolismo, stress ossidativo) o mutando i geni ad esse associati, è possibile estendere la vita degli animali di laboratorio.
L’orologio epigenetico
Nel 2013 Steve Horvath pubblica un sofisticato algoritmo che permette di correlare l’età anagrafica di un individuo con specifici parametri del suo DNA [5]. Denominato “Orologio epigenetico”, questo test si basa sui livelli di metilazione, ossia sulla quantità di gruppi metilici (-CH3) aggiunti alla Citosina in specifiche aree del genoma. Dal punto di vista funzionale, la metilazione è associata a repressione della trascrizione e addensamento della cromatina, sebbene a seconda dei casi l’effetto possa variare, suggerendo che questa modifica, come del resto altre modifiche epigenetiche, modulano in modo variabile la trascrizione e l’espressione del DNA. Sebbene questo test sia estremamente preciso, rimane ancora poco chiaro il significato biologico che riveste l’incremento dei livelli di DNA metilato a livello cellulare.
È doveroso precisare che l’età che si misura con questo test è l’età “biologica” dei tessuti, che in generale è assolutamente sovrapponibile a quella anagrafica, e indica lo stato di salute delle cellule del tessuto. Tessuti diversi, però, possono avere età diverse. È da questa osservazione che si evincono le potenziali applicazioni dell’orologio epigenetico. Siamo in grado di quantificare la differenza tra l’età “osservata” nel tessuto e quella che ci si aspetterebbe invece da un tessuto sano. Possiamo rapidamente quantificare quanto un campione biologico stia invecchiando precocemente, sintomo che qualcosa non funziona come dovrebbe. È questo quello che si verifica ad esempio nel tessuto nervoso di pazienti che soffrono di patologie neurodegenerative, o nei soggetti affetti da HIV. Future ricerche estenderanno senz’altro il potere diagnostico di questo test.
La ricerca domani
Che abbiamo la capacità di intervenire sulla nostra aspettativa di vita è ormai più che consolidato. Dal 1900 ad oggi, la durata media della vita è raddoppiata e, secondo molte stime, potrebbe continuare ad aumentare nei prossimi anni. Il settore della ricerca anti-aging è visto come un’enorme opportunità di investimento, dove piovono finanziamenti e nascono nuove aziende. Tra queste spicca il nome Calico, azienda biotecnologica di proprietà di Google, il cui obiettivo è quello di comprendere la biologia alla base dell’invecchiamento attraverso le più moderne tecnologie ed un approccio interdisciplinare.
Man mano che si chiariscono i meccanismi molecolari che controllano l’invecchiamento sarà possibile intervenire in maniera sempre più mirata. Non siamo lontani dai primi farmaci che verranno commercializzati proprio con lo scopo dichiarato di allungare la vita. Che un allungamento farmacologico della vita non si accompagni necessariamente all’aumento della sua qualità è una questione che preoccupa molto i biologi. Come puntualizza Leonard Hayflick [6], pioniere dello studio sull’invecchiamento cellulare, “L’obiettivo della ricerca non è quello di incrementare la longevità indipendentemente dalle conseguenze, ma piuttosto l’estensione di una vita attiva, libera da disabilità e dipendenze funzionali”.
Referenze
- Ulf T. Brunk, Alexei Termin. “Lipofuscin: mechanisms of age-related accumulation and influence on cell function”. Free Radical Biology and Medicine, 1 September 2002.
- Race DiLoreto, Coleen T. Murphy. “The cell biology of aging”. Molecular Biology of the Cell. 15 December 2015.
- Heidinger BJ et al. “Telomere length in early life predicts lifespan”. Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America. 31 January 2012
- Cynthia J. Kenyon. “The genetics of ageing”. Nature. 24 March 2010
- Steve Horvath. “DNA methylation age of human tissues and cell types”. Genome Biology. October 2013.
- L. Hayflick. “The future of ageing”. Nature. 9 November 2000.