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Paradosso di Peto

Perché gli elefanti non si ammalano (quasi mai) di cancro?

I mammiferi molto grandi sviluppano meno forme tumorali di quanto ci aspetteremmo: è il Paradosso di Peto, un enigma la cui soluzione potrebbe esserci molto utile nella guerra contro il cancro. Con una prevalenza in continuo aumento e una mortalità ancora significativamente alta, il cancro è considerata la malattia del secolo. Ad ammalarsi maggiormente sono gli anziani ma, oltre all’età, sono numerosi i fattori che contribuiscono al rischio di sviluppare un tumore. Tra questi, sembra avere un impatto significativo l’altezza.

Un tumore si sviluppa a partire da una cellula che, a seguito dell’accumulo di mutazioni, perde i meccanismi che controllano la sopravvivenza e la proliferazione cellulare. Ogni volta che una cellula si divide il suo DNA viene replicato e l’enzima deputato a questo compito può compiere, inevitabilmente, degli errori. Pertanto ogni divisione cellulare porta con sé un piccolo ma significativo rischio che le cellule figlie presentino mutazioni capaci di condurre allo sviluppo tumorale.

Il rischio di ammalarsi di cancro dovrebbe quindi aumentare all’aumentare del numero di divisioni cellulari che si verificano nel corso della vita di un individuo. Ma allora perché mammiferi grandi e longevi, come le balene e gli elefanti, mostrano incidenze di cancro bassissime? Il paradosso di Peto, quindi, è uno tra i più stimolanti enigmi della scienza la cui soluzione potrebbe avere ricadute importantissime per la salute dell’uomo.

Età e altezza: fattori di rischio per il cancro

Nell’ultimo secolo si è assistito a un incremento eccezionale dell’aspettativa di vita della popolazione. Contemporaneamente però è aumentato drammaticamente il numero di casi di tumore diagnosticati. L’età è infatti il principale fattore di rischio per il cancro: l’incidenza di numerosi tipi tumorali aumenta all’aumentare dell’età e circa la metà dei casi di cancro si registrano nella popolazione di età superiore ai 70 anni[1]. La correlazione età-rischio di cancro ha una spiegazione molecolare chiara. All’aumentare dell’età aumenta il numero di divisioni cellulari a cui le cellule dell’organismo sono andate incontro e aumenta il tempo di esposizione a sostanze ed eventi mutageni[1]. Di conseguenza, con il passare degli anni aumenta il numero di mutazioni accumulate da una cellula, con la probabilità che tra queste vi siano mutazioni chiave per lo sviluppo tumorale.

Ma negli ultimi anni si è dimostrato che anche l’altezza è un fattore di rischio importante per il cancro. Uno studio recente ha verificato come un aumento di 10 cm rispetto all’altezza media considerata incrementi del 10% il rischio dell’individuo di sviluppare un tumore[2]. Una possibile spiegazione a questa correlazione è legata al fatto che un’altezza maggiore significa un numero più elevato di cellule nell’organismo e quindi un numero maggiore di divisioni cellulari nel corso della vita[2].

Il paradosso di Peto

Il rischio di ammalarsi di cancro dovrebbe quindi aumentare all’aumentare delle dimensioni (numero di cellule) e dell’aspettativa di vita (numero di divisioni cellulari nel tempo) dell’organismo. Di conseguenza, individui più grandi e longevi dovrebbero essere soggetti a una maggiore probabilità di sviluppare il cancro solo per il fatto di avere più cellule e di andare incontro a più divisioni cellulari nel corso della loro vita[3]. Questa relazione è ben verificata se si considerano individui della stessa specie. Ma cosa succede se confrontiamo il rischio di cancro in specie diverse?

Richard Peto, epidemiologo e statistico britannico, è stato il primo a sollevare questo problema. Confrontando l’incidenza di tumore tra uomo e topo, lo studioso si è accorto che qualcosa non tornava. Gli uomini, pur avendo un numero di cellule 1000 volte superiore a quello dei topi e vivendo 30 volte più a lungo, presentano infatti una probabilità di sviluppare il cancro non molto superiore a quella dei roditori[4]. Studi condotti recentemente hanno confermato questa tendenza: confrontando la mortalità per cancro tra i mammiferi si è infatti provato che il rischio di cancro tra le diverse specie risulta essere indipendente dalla massa corporea e dall’aspettativa di vita[3]. In altre parole, sembra che i mammiferi più grandi e longevi si ammalino meno di cancro rispetto a quanto ci si aspetterebbe.

Una possibile spiegazione al paradosso

Applicando una semplice equazione matematica che esprime il rischio per una persona di sviluppare un cancro al colon in base al numero di cellule e di divisioni cellulari nell’organo, Caulin e Maley hanno concluso che il 100% delle balene dovrebbe sviluppare un cancro al colon retto entro gli 80 anni, mentre l’incidenza di questo tipo di tumore nell’uomo è circa il 10% all’età di 90 anni[5].  Questo significa che, se il rischio di sviluppare un tumore aumentasse effettivamente tra le specie in relazione alle dimensioni dell’organismo, i  grandi mammiferi avrebbero un’elevata probabilità di sviluppare un tumore già da giovani. Come è possibile allora che le balene abbiano un tasso di cancro simile se non inferiore a quello dell’uomo? La risposta va ricercata nella storia evolutiva di ciascuna specie.

Un rischio troppo elevato di cancro comprometterebbe infatti la capacità riproduttiva degli individui, e di conseguenza la sopravvivenza della specie[5]. Nel corso della storia, la pressione selettiva ha dunque favorito quegli individui che possedevano meccanismi di resistenza al cancro, evitando in questo modo una riduzione della fitness e la possibile estinzione della specie. In particolare, una riduzione del tasso di mutazioni, una diminuzione nella velocità di divisione delle cellule staminali o un aumento nel numero di mutazioni necessarie per la trasformazione cellulare sono adattamenti che potrebbero spiegare perché i mammiferi grandi e longevi hanno una probabilità minore di sviluppare un tumore nonostante l’aumentata massa corporea e l’elevata aspettativa di vita[5].

Come gli elefanti hanno risolto il paradosso di Peto

Nel 2015 due gruppi di ricerca indipendenti hanno scoperto lo stratagemma che gli elefanti hanno evoluto per sfuggire al cancro. Secondo dati epidemiologici registrati negli zoo, infatti, solo il 5% delle morti tra questi pachidermi è attribuibile allo sviluppo di un tumore[6]. Sequenziando il genoma dell’elefante africano della savana, Loxodonta africanagli scienziati hanno scoperto che questa specie possiede 20 copie – cioè 40 alleli – del gene oncosoppressore TP53[6]. Questo gene ha un ruolo fondamentale nell’impedire la trasformazione tumorale: quando il DNA di una cellula soffre un danno, TP53 blocca il ciclo cellulare impedendo alla cellula di replicare, attiva i meccanismi di riparazione del DNA e, se il danno è irrecuperabile, induce la morte per apoptosi della cellula.L’uomo possiede solo una copia di questo gene e la perdita di un solo allele è sufficiente per indurre la trasformazione cellulare e aumentare il rischio di sviluppo tumorale.

Nell’elefante, invece, la presenza di molteplici copie del gene TP53 sembra conferire alle cellule una maggiore sensibilità al danno al DNA, anche quando di minor entità. Infatti, i linfociti e i fibroblasti degli elefanti esposti a radiazioni ionizzanti presentano un più elevato tasso di apoptosi rispetto a quanto osservato in linee cellulari umane sottoposte al medesimo trattamento[6]. Gli elefanti hanno quindi risolto il paradosso di Peto aumentando l’azione di un gene oncosoppressore, migliorando quindi il controllo sul ciclo cellulare e la capacità di eliminare potenziali cellule cancerogene. Inoltre, in uno studio pubblicato nel 2018, si è dimostrato che gli elefanti possiedono anche 11 copie extra del gene LIF[7]. La copia LIF6 è attivata dal gene TP53 in risposta al danno al DNA, ma la sua overespressione da sola è sufficiente a indurre l’apoptosi anche in assenza di attivazione da parte di TP53, favorendo ulteriormente il suicidio delle cellule danneggiate.

Meccanismi alternativi di resistenza al cancro

Il meccanismo di resistenza individuato negli elefanti non è l’unico ad oggi noto. Nel corso della storia evolutiva, infatti, per bilanciare il rapporto tra massa corporea/longevità e rischio di cancro, specie diverse hanno sviluppato indipendentemente svariate soluzioni che coinvolgono aspetti diversi della loro biologia.
Il ratto talpa, ad esempio, vive 7 volte più a lungo del topo e presenta un’incidenza di cancro bassissima. Si è scoperto che questo roditore evita il cancro grazie a un’insolita forma di acido ialuronico nella matrice extracellulare che garantisce un’aumentata sensibilità all’inibizione da contatto[7]. Quando le cellule proliferano in modo incontrollato e il tessuto diventa troppo affollato, nel ratto talpa si attivano dei network di segnalazione che bloccano la proliferazione cellulare impedendo la degenerazione iperplastica.

Un altro esempio interessante per il paradosso di Peto è il capibara, roditore del Sud America dal peso di 60 kg. Nel capibara la segnalazione insulinica è notevolmente potenziata[7]. Questo adattamento permette all’animale di raggiungere dimensioni maggiori rispetto ai più piccoli antenati roditori, ma al tempo stesso può contribuire ad innescare e favorire la crescita tumorale. Per questo motivo si è sviluppato un meccanismo compensatorio: il sistema immunitario è iper-attrezzato a riconoscere ed eliminare le cellule tumorali  grazie ad un aumento nel numero di geni legati all’immunità[7]. In questo modo, anche se le cellule tumorali dirottano il pathway dell’insulina per supportare la loro crescita e proliferazione, la potenziata sorveglianza immunitaria è in grado di limitare efficacemente lo sviluppo tumorale.

Inoltre, diversi studi pongono l’accento sul ridotto tasso metabolico che caratterizza tutti gli animali di grandi dimensioni[8]. Questa caratteristica potrebbe essersi evoluta nei grandi mammiferi come contromisura necessaria al fine di prevenire la comparsa del tumore. Un ridotto tasso metabolico implica infatti una minor produzione di agenti mutageni endogeni – specie reattive dell’ossigeno – che possono danneggiare il DNA[8].

Perché non tutti gli animali hanno evoluto meccanismi extra di soppressione tumorale?

Il cancro è un problema che riguarda tutti gli organismi multicellulari, ma solo in alcune specie si sono sviluppati meccanismi per ridurre drasticamente il rischio di cancro. Si tratta delle specie in cui la probabilità di sviluppare un tumore sarebbe stata così elevata da compromettere la fitness e la sopravvivenza della specie. In molte specie il rischio di cancro influenzato dalla massa corporea e dalla longevità è considerato “accettabile”, al vaglio della selezione naturale, tanto da non indurre lo sviluppo di meccanismi di resistenza “extra”.

Questo è il risultato di un fine bilanciamento tra le necessità complessive dell’organismo/specie. I meccanismi di resistenza al cancro sono spesso molto costosi in termini energetici ed è, quindi, necessario un compromesso tra la spesa energetica necessaria per contrastare lo sviluppo tumorale e quella necessaria per sostenere altre funzioni vitali come la riproduzione e la crescita[8]. Inoltre, per gli animali che hanno un’aspettativa di vita ridotta non ha senso investire nello sviluppo di strategie per contrastare il tumore. Il cancro insorge normalmente in età avanzata, ed è più probabile per questi animali morire per altre cause prima che il cancro si possa sviluppare[8].

Perché ci interessano il paradosso di Peto e le sue soluzioni?

Individuare le diverse soluzioni al paradosso di Peto disponibili in natura non è solo interessante dal punto di vista evoluzionistico. Comprendere i meccanismi che permettono di contrastare l’aumento del rischio di cancro associato alle grandi dimensioni e/o alla maggiore aspettativa di vita può avere, infatti, ricadute importanti anche per la prevenzione e il trattamento dei tumori nell’uomo. Ogni volta che scopriamo in una specie un nuovo meccanismo di soppressione del cancro, individuiamo nuovi possibili bersagli che possono guidare lo sviluppo di nuovi farmaci per la lotta al tumore. Sarebbe quindi affascinante traslare le conoscenze acquisite negli animali in strategie per la prevenzione nell’uomo, andando a replicare meccanismi che la natura stessa ha provveduto a evolvere e che si sono dimostrati assolutamente efficaci nel contrastare lo sviluppo tumorale.

Referenze

  1. Cancer Research UK – Age and Cancer
  2. Nunney L. – Size matters: height, cell number and a person’s risk of cancerProc Biol Sci, 2018
  3. Vincze O., Colchero F., et al. –Cancer risk across mammalsNature, 2022
  4. Richard Peto – Epidemiology, multistage models and short-term mutagenicity testsInternational Journal of Epidemiology, 2016
  5. Peto’s Paradox: Evolution’s Prespriction for cancer preventionTrends Ecol Evol, 2016
  6. Abegglen LM., et al. – Potential mechanisms for cancer resistance in elephants and comparative cellular response to DNA damage in humans –  JAMA, 2015
  7. Callier V. – Core concept: Solving Peto’s PAradox to better understand cancerProc Natl Acad Sci USA, 2019
  8. Tollis M., et al. – Peto’s Paradox: how has evolution solved the problem of cancer preventionBMC Biol, 2017
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