La Community italiana per le Scienze della Vita

Paleobotanica: principali applicazioni

La paleobotanica è la disciplina che, all’interno della paleontologia, si occupa dell’evoluzione delle piante e della ricostruzione degli ambienti e dei climi attraverso lo studio delle flore fossili.

In questo articolo approfondiremo le sue principali applicazioni al di fuori degli studi evolutivi (o filogenetici): la biostratigrafia, le ricostruzioni paleoambientali, la fitogeografia e le ricostruzioni climatiche. Per ogni applicazione verranno citati studi o metodologie puntuali, in modo tale da indirizzare verso l’approfondimento di tale affascinante ambito di ricerca, tuttora troppo poco noto in Italia.

Paleobotanica e biostratigrafia

La paleobotanica ha svolto un ruolo chiave in molte aree della geologia e in particolare nella biostratigrafia. Granuli pollinici e spore, nonché varie forme e cisti algali e, in misura minore, megafossili (tronchi, foglie, frutti, etc.) sono stati ampiamente utilizzati in biostratigrafia come fossili guida, ovvero come fossili utili per la datazione relativa delle rocce nei quali sono rinvenuti.

L’importanza degli organi disgiunti

Le piante fossili, o meglio le loro parti, costituiscono un eccellente indicatore biostratigrafico utile per la datazione relativa degli strati di roccia nei quali sono rinvenute. Data la loro ampia distribuzione (soprattutto dei pollini e delle spore), la rapida evoluzione osservabile in alcuni taxa e l’abbondanza di fossili incontrati, le piante fossili sono considerate tra i migliori fossili guida nelle successioni continentali.

Bisogna ricordare che le piante non fossilizzano comunemente in connessione organica, a causa dei processi tafonomici (ossia tutti i processi che intervengo dalla morte dell’organismo fino al suo rinvenimento), delle distinte condizioni di permineralizzazione o anche, semplicemente, per la distribuzione di alcune sue parti (come foglie e pollini). Esiste allora una sorta di tassonomia parallela in cui le diverse parti ricevono nomi distinti.

Quindi, poiché le piante fossili sono per lo più conservate sotto forma di organi disgiunti (foglie, steli, polline, strutture riproduttive), uno degli obiettivi della paleobotanica è ricostruire l’intera pianta. Indipendentemente dal successo di tale ricostruzione, gli organi disgiunti vengono comunque utilizzati come indicatori biostratigrafici: è possibile, quindi, che un polline o una tipologia di foglia fossile vengano utilizzate come fossili guida, anche senza un precisa attribuzione ad una pianta completa.

Esemplificativo può essere il caso di Lepidodendron, uno dei generi più conosciuti di licofite arboree del Paleozoico (fig. 1). Nonostante con questo nome ci si riferisca normalmente ad un “albero” inteso nella sua interezza, parte del registro fossile attribuito proviene da un suo organo disgiunto, Stigmaria, un fossile guida del Carbonifero, ampliamente utilizzato nella ricostruzione biostratigrafica delle successioni continentali del Nord America.

Stigmaria (notate bene: il corsivo è obbligatorio, poiché la sua tassonomia segue comunque le regole del Codice di Nomenclatura Botanica) è il nome scientifico che ricevono le radici di Lepidodendron ed uno dei più classici esempi di form classification in paleobotanica, ovvero l’utilizzo di un organ genera (un nome di genere per indicare un organo fossile). Il fatto che fino a pochi anni fa non si conoscesse la forma completa delle pianta a cui appartenevano le radici, non ha impedito l’uso scientifico di Stigmaria, ne il suo ampio utilizzo come fossile guida, soprattutto per riconoscere i giacimenti di carbone fossile caratteristici del Carbonifero.

Paleobotanica Lepidodendron
Fig. 1: Esempio di diversi nomi generici per organi della stessa pianta, Lepidodendron. (da M. J. Benton, Introduction to the paleobiology and the fossil record)

Palinologia

Tra gli organi disgiunti, meritano un discorso a parte i granuli di polline e le spore, i quali, per la loro stessa natura e funzione (la dispersione aerea), sono tra i migliori indicatori biostratigrafici. Di fatto si conservano nella facies continentale (gli ambienti terrestri), in quella mista (ambienti di transizione, come delta ed estuari) e anche in quella marina: in altre parole, hanno l’ampia distribuzione ambientale richiesta per essere un buon fossile guida.

Inoltre i granuli di polline e le spore hanno una barriera naturale molto resistente che li circonda e li protegge. Tale barriera è formata da due strati: uno strato cellulosico interno, chiamato endosporio nelle spore e intina nel polline; uno strato esterno composto da sporopollenina, una sostanza che resiste all’azione di acidi e basi concentrati, nonché a temperature fino a 300°C.

Lo studio interdisciplinare dei pollini, spore e palinomorfi (come acritarchi e alghe dinoflagellate) prende il nome di palinologia, la cui applicazione non si limita alle forme fossili per la biostratigrafia, ma ha un ampia versatilità di campi di studio: esiste infatti addirittura la palinologia forense che utilizza lo studio dei pollini per ricostruire le attuali scene del crimine.

Gli studi palinologici in biostratigrafia sono di fondamentale importanza in assenza di un registro di megafossili. Di fatto, il registro fossile più antico di embriofite (cioè di piante terrestri) corrisponde ad una tipologia di spora in tetrade conosciuta comunemente come criptospora (Cryptospore in inglese). Tali fossili sono stati incontrati in strati risalenti al Dapingiano (Ordoviciano Medio, 470 milioni di anni fa circa) della Formazione Zanjon, nella provincia Argentina di Salta, e rappresentano da un lato l’evidenza scientifica più antica di una fase sporofitica e, dall’altro, la prima inferenza di colonizzazione della terraferma.

Paleobotanica e ricostruzioni ambientali

Un altro ambito di applicazione della paleobotanica è la ricostruzione di un ambiente attraverso l’integrazione e la sintesi di informazioni botaniche (paleobotaniche e palinologiche) e geologiche. Le piante sono infatti un indicatore sensibile delle variazioni di una comunità che abitava un’area in un dato tempo.

Un esempio classico è lo studio delle flore fossili conservate nella cenere vulcanica e nei depositi fluviali del Cretaceo superiore (Maastrichtiano) del Wyoming. Curiosamente, l’esame di tale registro fossile della Formazione Lance (da cui provengono anche Ankylosaurus, Tyrannosaurus e Triceratops, solo per citare i dinosauri più noti) non solo ha consentito una buona ricostruzione ambientale, ma ha portato in passato ad ipotizzare  una possibile causa relazionata al vulcanismo per l’estinzione dei dinosauri non-aviani (ovvero tutti i dinosauri, esclusi gli uccelli), datata proprio alla fine del Maastrichtiano. Oggi le evidenze conducono ad una spiegazione di origine extraterrestre, legata all’impatto di un meteorite, ma la ricostruzione di un ambiente vulcanico, vincolata proprio agli studi di paleobotanica, è tuttora presente nella divulgazione per bambini in cui nelle illustrazioni sono spesso presenti vulcani sullo sfondo (talvolta addirittura in eruzione!).

Le interazioni con l’ambiente

Come è facilmente osservabile nella flora attuale, le piante sono un eccellente indicatore delle condizioni di un ecosistema. Queste sono ipotizzabili considerando le risorse che le piante, tanto attuali quanto fossili, richiedono per il proprio sviluppo, ma anche considerando le piante stesse come risorse per altri organismi (ad esempio come alimento per i consumatori primari e come produttori di ossigeno per gli organismi aerobi).

È quindi possibile dividere lo studio delle interazioni con l’ambiente in due tipologie principali, che, forse, rappresentano anche due filosofie diverse di vedere l’evoluzione e comprendere la vita. La prima, più antica, si focalizza nello studio della paleobotanica per sintetizzare le condizioni e le risorse dell’ambiente, concludendo in stile tipicamente Neodarwinista che la selezione della flora era completamente condizionata dalle condizioni dell’ambiente stesso. Le piante, così come gli altri organismi, hanno in questa visione una funzione passiva.

Un esempio di questa prima applicazione sono le radici delle forme arboree riferite al genere Psaronius. Questo genere (che originariamente si riferiva al solo fusto, mentre le fronde prendevano il nome di Pecopteris, in un ennesimo caso di tassonomia degli organi disgiunti) ha stipiti che avrebbero raggiunto anche i 10 metri di altezza ed è uno dei più famosi esempi di felci arboree del Carbonifero. Dato che le radici erano formate da un tessuto spugnoso di tipo aerenchima, il quale lascia molto spazio aereo intercellulare ed è tipico dei fusti che si sviluppano in ambienti allagati, ha permesso di ricostruire un ambiente ricoperto d’acqua, o parzialmente allagato, nelle foreste del Carbonifero. Ciò è di particolare importanza se si pensa alla coeva evoluzione dei primi tetrapodi terrestri, ancora fortemente vincolati all’abbondanza di acqua.

L’azione delle piante sull’ambiente

Tale conclusione è vicina alla seconda postura, più moderna, la quale riconosce un complesso processo di retroazione negli ecosistemi (feedback), in cui le piante costituiscono non solo un fondamentale indicatore delle condizioni dell’ambiente, ma anche un fattore di autoregolazione del sistema stesso.

Esemplificativi della postura più moderna possono essere due articoli presenti in Nature Geoscience.

Il primo studio afferma che, già nell’Ordoviciano, la prima colonizzazione dei continenti da parte delle piante potrebbe aver consentito un raffreddamento delle temperature globali, per azione di piccole semplici piante non vascolari[1].

Gli effetti dell’azione delle piante nel ciclo dell’anidride carbonica sono ancora più evidenti nel Devoniano con l’emergere delle prime foreste, le quali hanno estratto dalle rocce minerali come calcio, magnesio e ferro, alterando globalmente il ciclo del carbonio e quindi il clima. Sia il sequestro dell’anidride carbonica atmosferica da parte dei processi di fotosintesi, sia le alterazioni nella composizione del suolo causate dalle radici hanno contribuito all’aumento del consumo di anidride carbonica disponibile nell’atmosfera, riducendo l’effetto serra e abbassando la temperatura globale. A loro volta, in un processo di feedback positivo, le temperature più basse hanno generato ghiacciai, aumentando il volume dell’acqua allo stato solido e diminuendo il volume allo stato liquido.  L’abbassamento del livello del mare provocato dai ghiacciai, ha a sua volta porto ad un aumento della massa continentale, disponibile per nuovi processi di colonizzazione per azione delle piante.

Il secondo studio pubblicato nello stesso numero della rivista, ha sottolineato l’importanza delle piante nell’evoluzione della struttura del paesaggio e del suolo, un tempo molto diverso da quello che conosciamo oggi[2]. Gli autori hanno mostrato la correlazione tra la diversificazione dei paesaggi fluviali e l’evoluzione delle piante vascolari e della copertura vegetale. In assenza di una vegetazione vascolare diffusa, il paesaggio terrestre dell’Ordoviciano era infatti dominato da fiumi con letti molto ampi e instabili, a causa della formazione di vasti e mobili banchi di sabbia. Ma, gradualmente, con la comparsa e lo sviluppo di piante vascolari dotate di importanti apparati radicali, si manifestò uno sviluppo parallelo di fiumi i cui letti cominciarono a formare canali meandriformi e pianure fangose.

Un analogo potrebbe essere ciò che è attualmente osservabile nei fiumi anastomizzati, i quali formano isole da antiche point-bar con vegetazione; attorno alle sponde, già stabilizzate dalla vegetazione, si sviluppano poi aree verdi sempre più ampie. In conseguenza di questo primo processo, ne verrebbe attivato un secondo, legato all’aumento dei nutrienti nel suolo, in particolare quelli a base di fosforo.

Sintetizzando, questa seconda postura non si limita ad una descrizione delle caratteristiche anatomiche del fossile, dalle quali inferire l’ambiente, ma colloca l’organismo in un complesso sistema di retroazione nel quale è un fattore attivo e compartecipa con il resto della biosfera all’evoluzione del proprio ambiente e, quindi, della vita in esso.

Le interazioni con altri organismi

Un certo numero di paleobotanici, quindi, studia non solo la pianta fossile stessa, ma anche le sue interazioni con altri organismi. La maggior parte delle piante terrestri ha associazioni mutualistiche con funghi che popolano le loro radici (micorrize) o con organismi impollinatori.

Tralasceremo lo studio delle associazioni simbiotiche, la cui trattazione è così amplia che meriterebbe un articolo a parte, comprendendo anche l’origine dei cloroplasti negli organismi unicellulari secondo la teoria endosimbiontica nella moderna accezione di Lynn Margulis.

In paleobotanica risulta difficile caratterizzare le relazioni all’intento della specie e tra le specie, in quanto è complesso determinare se la presenza di un secondo organismo ha un beneficio mutuo, se essa è dannosa per uno dei due (si tratta di un caso di parassitismo) o se addirittura è ininfluente. È ad esempio comunemente accettato che la presenza di funghi endofiti, spesso associata a parassitismo, può essere invece di beneficio per la pianta, osservando l’alterazione delle componenti del suolo operata dal fungo. In conseguenza, il suolo, risulterebbe più favorevole per la pianta ospitante. Nel registro fossile sono presenti sia tappeti microbici (microbial mats) prodotti per organismi assimilabili a Rhizobium (batteri simbiotici capaci di fissare l’azoto, riconoscibili per la traccia “a bastoncino” che lasciano sul suolo), sia funghi formatori di endomicorrize.

Affascinati, ma spesso speculative, sono anche le interazioni tra flora e fauna. Un famoso esempio, spesso citato nella divulgazione ma già completamente scartato dalla comunità scientifica, è l’ipotesi di Bakker sulla coevoluzione di angiosperme e dinosauri ornitopodi. Senza scomodare i dinosauri, la gran parte delle ipotesi di mutualismo coinvolgono però gli insetti impollinatori, così come le evidenze di brucazione e di nidificazione (fig. 2).

Leggi anche: Piante e insetti – Niclora Anaclerio e Maria Elena Rodio

Le ipotesi di mutualismo, per essere supportate adeguatamente, richiedono filogenesi robuste e ben calibrate geologicamente, come nel classico caso studio dell’associazione mutualistica tra una falena eocenica e la pianta di Yucca[3]. In ogni caso esistono esempi anche più antichi: il primo registro fossile risale ad una megaspora del Permiano (280 milioni di anni circa) la quale presentava superficialmente un amido. Tale amido poteva avere la funzione di attrarre organismi impollinatori, i quali dopo essersi nutriti avrebbero contribuito alla dispersione della megaspora, favorendo la riproduzione della pianta[4].

Leggi anche: Cecropia e la simbiosi con le formiche

Paleobotanica foglia
Fig. 2: Foglia di Platanus raynoldsii con segni prodotti da larve di vespa, visibili alla base della foglia con un colore più chiaro. (di Michael Donovan, Penn State University)

Paleobotanica e fitogeografia

La fitogeografia studia la distribuzione spaziale, sia presente che passata, delle specie vegetali, inclusi i processi e gli eventi che spiegano tale distribuzione.

L’applicazione più immediata della fitogeografia in paleobotanica consiste nello studio degli endemismi, ossia l’area di origine di un organismo, attraverso modelli di distribuzione basati sul registro fossile. L’esempio più noto è probabilmente la cosiddetta flora di Glossopteris, considerata un endemismo tipico di Gondwana (la massa continentale australe) durante tutto il Permiano e, in forma minore, durante il Triassico Inferiore. L’ordine Glossopteridales include pteridosperme arborescenti storicamente assegnate ad altri gruppi (cicadi, felci, gnetofite, Cordaitales e persino angiosperme) e solo la scoperta di megasporofilli portatori di semi ha supportato la loro inclusione definitiva nelle Pteridosperme[5]. Di fatto, parlando di “flora di Glossopteris” ci riferiamo a una serie di organi disgiunti di piante fossili (come foglie, strutture fertili, permineralizzazione di tronchi, polline) con almeno 200 specie descritte.

La sua importanza paleontologica risiede nel fatto che la distribuzione di Glossopteris è stata uno degli argomenti paleontologici a sostegno della teoria della deriva dei continenti: trovare queste flore in luoghi così distanti oggi è stata una prova molto importante per descrivere una massa continentale unita in un unico continente, Gondwana.

Flora di Glossopteris
Fig. 3: Distribuzione della flora di Glossopteris a supporto della deriva de continenti. (di Petter Bøckman)

Paleobotanica e ricostruzioni climatiche

La paleobotanica è inoltre una disciplina che permette di compiere stime climatiche e stime sui livelli di ossigeno atmosferico, analizzando le variazioni attraverso i milioni di anni del tempo profondo. Tale registro fossile è di fondamentale importanza non solo per ricostruire gli ambienti del passato, ma anche per ipotizzare quelli che possono essere gli effetti di drastici cambiamenti nel futuro.

Il metodo dell’analogo moderno

Le tradizionali stime paleoclimatiche in paleobotanica sono effettuate attraverso il cosiddetto metodo dell’analogo moderno, o NLR (nearest living relative). Per chi ha maggiore familiarità con concetti di zoologia o di paleontologia dei vertebrati, tale metodo è molto simile al EPB (Extant Phylogenetic Bracketing). Esso è basato sul riscontro delle omologie a livello anatomico in taxa strettamente imparentati. Tali omologie si traducono poi in analogie sul grado di tolleranza climatica o su tratti anatomici non deducibili direttamente dal fossile (si noti bene: il concetto di “analogia” qui non è usato in contrapposizione a quello di omologia, ma indica solo la richiesta di simili condizioni climatiche).

Tale metodologia è stata utilizzata dagli albori della paleobotanica, basandosi sulla premessa che la tolleranza climatica delle piante fossili è molto simile a quella della controparte attuale più imparentata. Ciò è valido soprattutto per il tardo Cretaceo e per il Cenozoico, mentre è risultato di più difficile applicazione per il Carbonifero.

Tale metodo, sebbene molto utilizzato, presenta però due difficoltà intrinseche:

  • richiede una precisa identificazione della composizione tassonomica della paleoflora, difficoltà che aumenta vertiginosamente con l’età della stessa;
  • accetta la premessa che i requisiti ecologici del fossile e della forma attuale siano simili, il che non solo è un dato spesso smentito, ma produce un’inferenza conservativa.

Dendroclimatologia

Altra metodologia tradizionale della paleobotanica, ereditata direttamente dalla botanica classica, consiste nelle analisi del cambio vascolare degli steli legnosi. Tale struttura cilindrica è infatti in attiva divisione cellulare e,  poiché produce cellule verso l’interno del fusto, genera una crescita di spessore dello stelo stesso, aumentandone la circonferenza: quelli che comunemente si chiamano anelli degli alberi.

Questa attività di crescita non è costante durante tutto l’anno, soprattutto alle alte latitudini. La graduale cessazione dell’attività cambiale in condizioni sfavorevoli genera piccole cellule, mentre in condizioni favorevoli l’attività cambiale aumenta, così come aumenta  il diametro delle pareti cellulari dello xilema che produce. Pertanto, si generano anelli annuali. Generalmente nei tronchi della zona temperata, il tronco precoce è meno denso con pareti più sottili e il tronco tardivo è più denso con pareti ispessite.

Leggi anche: Lo studio degli anelli di accrescimento degli alberi mostra un aumento delle precipitazioni

Gli anelli di crescita forniscono quindi un record annuale che riflette le condizioni climatiche durante la crescita dell’albero. La scienza che si occupa dello studio degli anelli degli alberi si chiama dendrologia. In particolare, la dendroclimatologia, come suggerisce il nome, applica la dendrologia allo studio del clima, includendo lo studio dei modelli ad anello e della loro composizione isotopica. Queste proprietà riflettono le condizioni ambientali al momento della formazione di ciascun anello. Qualsiasi evento geologico o climatico influenzerà la crescita degli anelli e la loro composizione isotopica, restando registrato in essi.

È quindi facile intuire perché la dendroclimatologia sia un metodo così importante in paleobotanica: essa permette di valutare gli effetti di eventi macroscopici (come possono essere, ad esempio, le estinzioni di massa) in una scala tarata quasi a livello annuo.

Normalmente, in dendroclimatologia, si svolgono distinti tipi di analisi:

  • analisi inter-radiale, in cui la larghezza degli anelli può essere calcolata mediante un indice di sensibilità medio che tiene conto del grado di omogeneità interannuale delle condizioni in cui l’albero è cresciuto;
  • analisi intra-radiale, il diametro radiale delle cellule attraverso un anello può tenere conto delle condizioni ambientali durante una stagione di crescita;
  • frequenza registrazione anticipata/registrazione ritardata (velocità ottenuta tra l’ampiezza della banda di registrazione iniziale e quella della registrazione ritardata), che permette di avere un’idea di quanto “generose” ed estese nel tempo fossero le condizioni favorevoli (in generale condizioni favorevoli, molto buone e protratte durante tutto l’anno, generano un’importante produzione di legno tardivo).

Un’applicazione interessante di questa metodologia è utilizzata per stimare la produttività delle foreste attuali. Utilizzando la tecnica descritta per le foreste fossili, in condizioni di grandi cambiamenti climatici, è possibile quantificare, attraverso la misurazione degli anelli di crescita, il grado di produttività delle foreste attuali. Cioè, per esempio, attraverso formule e analoghi fossili è possibile stimare il volume di legno generato dalla foresta Amazzonica (e quindi anche il suo apporto di ossigeno atmosferico) se in futuro dovessero variare le condizioni climatiche favorevoli o si incrementi la deforestazione.

Morfologia fogliare 

L’analisi della morfologia fogliare è una delle tecniche di maggiore applicazione nella paleobotanica moderna. Si propone di effettuare stime di temperatura e di precipitazione attraverso la quantificazione del rapporto tra il tipo di margine (intero e dentato) e l’area fogliare delle foglie di angiosperme dicotiledoni di una determinata associazione fossile. Parte dalla premessa che esista una relazione tra le variabili di margine con la temperatura e tra l’area fogliare con le precipitazioni: in un ambiente freddo il margine è solitamente più dentellato e in zone con maggiori precipitazioni ci sono foglie con area più grande. 

Questa relazione è stata osservata nelle flore attuali dall’inizio del secolo scorso, ed esplorata da vari autori. Se però, da un lato, tale metodo gode di una larga utilizzazione ed i dati risultanti sono perciò più facilmente replicabili, di contro soffre di due limiti applicativi: (1) fondamentalmente si applica solo a flore fossili cenozoiche (dato che richiede angiosperme dicotiledoni); (2) richiede un campionamento esaustivo (con un minimo di 20 specie riconosciute).

Un metodo similare (e derivato) è il CLAMP (climate-leaf analysis multivariate program) che utilizza l’analisi statistica multivariata per mappare gli attributi della morfologia fogliare in uno spazio bidimensionale, così da consente di ottenere stime di precipitazioni, temperatura e umidità. Alternativamente, il metodo LMA (leaf margin analysis) stabilisce una relazione univariata tra il tipo di margine (seghettato/intero) e la temperatura media annuale.

Analisi epidermiche e dei pori stomatici

Altri studi si concentrano sulle caratteristiche dell’epidermide, come cuticole, stomi, tricomi e papille. Tali studi partono dalla premessa che il carattere sedentario delle piante terrestri conferisce loro una particolare dipendenza dalle strategie di adattamento al clima in cui si sviluppano. Di conseguenza, le piante mostrano normalmente adattamenti strutturali caratteristici del loro habitat. Questi adattamenti, osservati nelle piante fossili, possono essere utilizzati come indicatori paleoambientali sensibili.

La cuticola delle piante terrestri, con i suoi pori stomatici, rappresenta l’interfaccia tra la pianta e l’ambiente che la circonda, e la sua struttura porta importanti informazioni sul rapporto pianta/ambiente. L’indice stomatico permette di rilevare le fluttuazioni di CO2: in tutto il Fanerozoico sono state registrate marcate fluttuazioni nella concentrazione atmosferica di CO2. Tali fluttuazioni di CO2, in tutto il Fanerozoico, sono state stimate inizialmente utilizzando modelli geochimici e isotopici da varie fonti. Un altro metodo utilizzato nella stima della CO2 atmosferica si basa sulla determinazione della relazione tra i caratteri morfologici delle piante e l’atmosfera dell’ambiente che le circonda e la successiva quantificazione e caratterizzazione di tale relazione. Gli stomi svolgono un ruolo fondamentale nella fisiologia delle piante, agendo come regolatori degli scambi gassosi (principalmente O2 e CO2) e del vapore acqueo tra i tessuti interni delle piante e l’ambiente. La strategia utilizzata tende ad ottimizzare il livello di scambio gassoso minimizzando la perdita di acqua attraverso la traspirazione.

Woodward (1987), confrontando le specie attuali e quelle erbacee, è stato probabilmente il primo a osservare la relazione inversa tra densità stomatica e CO2 atmosferico. Queste osservazioni sono servite come base per numerosi lavori in cui le fluttuazioni della densità stomatica delle foglie fossili vengono analizzate come misura della concentrazione di CO2 nelle atmosfere passate. Le analisi dell’indice stomatico sono tra le più rivoluzionarie fonti di dati sulla composizione atmosferica nel passato geologico del nostro pianeta e sono di fondamentale importanza per inferire le conseguenze di un aumento dei gas serra[6].

Conclusione

La paleobotanica da secoli ricopre un ruolo fondamentale nella comprensione di come erano gli ambienti del passato. Con il tempo ha ampliato il proprio raggio d’azione passando dalla classica funzione di supporto alla biostratigrafia, fino a diventare uno dei più efficaci strumenti per ricostruire il clima durante i migliori di anni della Terra.

Le diverse metodologie applicate dalla paleobotanica per stimare l’evoluzione del clima terrestre nel corso del tempo permettono, però, non solo di riscoprire gli ambienti del passato, ma hanno anche una concreta applicazione nella ricerca di modelli predittivi, permettendo di fare stime su quello che sarà l’impatto futuro dei cambiamenti climatici in corso.

Referenze

  1. Lenton, T. M., et al. (2012). First plants cooled the OrdovicianNature Geoscience5(2), 86-89;
  2. Gibling, M. R., & Davies, N. S. (2012). Palaeozoic landscapes shaped by plant evolutionNature Geoscience5(2), 99-105;
  3. Pellmyr, O., & Leebens-Mack, J. (1999). Forty million years of mutualism: evidence for Eocene origin of the yucca-yucca moth associationProceedings of the National Academy of Sciences96(16), 9178-9183;
  4. Liu, F., et al. (2018). 280-my-old fossil starch reveals early plant–animal mutualismGeology46(5), 423-426;
  5. Gould, R. E., & Delevoryas, T. (1977). The biology of Glossopteris: evidence from petrified seed-bearing and pollen-bearing organsAlcheringa1(4), 387-399;
  6. Woodward, F. I. (1987). Stomatal numbers are sensitive to increases in CO2 from pre-industrial levelsNature327(6123), 617-618.

Immagine di copertina di skeeze, Pixabay.

Articoli correlati
Commenta