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Overfishing: il fenomeno della sovrapesca

Sovra-sfruttamento dei mari e modalità di pesca dannose

Fin dai tempi più antichi l’uomo si è rivolto al mare per poter trarre sostentamento: ci sono reperti che fin dalla preistoria documentano il rapporto dell’uomo con il mare e con le risorse ittiche, rapporto che nell’antichità era scandito da un ritmo concorde alla sostenibilità. Con il passare del tempo sono cambiati però i mezzi di pesca e anche la domanda di risorse ittiche da parte degli uomini: incrementando sempre più il pescato e favorendone il commercio, è iniziato, intorno al XIX secolo, un vero e proprio sovrasfruttamento delle risorse ittiche, chiamato sovrapesca (o overfishing in inglese). L’overfishing è stato favorito, tra l’altro, anche dall’idea dell’inesauribilità delle risorse ittiche, sostenuta da diversi naturalisti dell’Ottocento, tra cui Huxley.

Cos’è l’overfishing?

Oggi sappiamo che le risorse ittiche non sono inesauribili e che il sovrasfruttamento degli ecosistemi marini e dei loro abitanti porta all’impoverimento dei mari in termini sia di ricchezza in specie (quindi di biodiversità) che di servizi ecosistemici.

Il termine overfishing indica le modalità di pesca eccessiva che causano effetti deleteri all’ambiente. Il continuo sfruttamento delle risorse ittiche ne ha ridotto drasticamente l’abbondanza, con conseguenze negative sul settore della pesca stesso, come la riduzione delle catture e la riduzione della redditività delle imprese di pesca.

Uno stock ittico si definisce sovrasfruttato quando all’aumento dello sforzo di pesca (numero di imbarcazioni, potenza motrice, ore di pesca) non corrisponde un incremento dei rendimenti di pesca. In altri termini, il concetto di overfishing corrisponde all’espressione: status in cui si pesca di più ma si cattura di meno[5].

Per minimizzare gli effetti negativi causati dall’overfishing, ad oggi ci si sta muovendo in direzione di uno sfruttamento sostenibile, cioè verso il prelievo della risorsa ittica in modo da non comprometterne irreversibilmente la presenza in natura. A livello del Mediterraneo, importanti passi in avanti in questo senso sono stati fatti con l’entrata in vigore del regolamento europeo CE 1967/2006, atto a definire delle misure di gestione per uno sfruttamento sostenibile delle risorse della pesca[4].

Stime attuali di overfishing

Riassumendo i dati dei report della FAO e delle Nazioni Unite sulle attività di pesca, emerge un quadro davvero preoccupante per quanto riguarda lo stato attuale delle risorse alieutiche (cioè delle risorse relative alla pesca).

Ad oggi, ogni persona mangia una media di 19,2 kg di pesce l’anno (circa il doppio rispetto a 50 anni fa) e la FAO predice che tale consumo arriverà a 21,5 kg nel 2030. Per soddisfare questa domanda, più del 55% degli oceani è nelle mani dell’industria della pesca. Tutto ciò si traduce nei seguenti dati riguardanti gli stock ittici[2]:

  • oltre il 30% è sovra-sfruttato;
  • il 60% è sfruttato al limite;
  • solo il 7% è entro i limiti di sostenibilità.

L’Unione Europea è la prima importatrice di prodotti ittici al mondo: la maggior parte di questi, più del 50%, proviene da Paesi in via di sviluppo, dove la legislazione e la regolamentazione della pesca sono ancora distanti dai principi di sostenibilità adottati invece dalle Nazioni Unite. Già nel 2011, un terzo del pescato mondiale risultava ottenuto da pesca illegale, non regolamentata o non dichiarata. Questo ha contribuito ad una diminuzione pari al 39% delle specie marine nei soli ultimi 40 anni[8].

Data la moltitudine di cause che concorrono alla sovrapesca, sono tante le specie che ne subiscono gli effetti (ovviamente negativi, sia diretti che indiretti). Tra le specie del Mediterraneo principalmente minacciate dalla pesca eccessiva si possono ricordare il tonno rosso (Thunnus thynnus), la cernia bruna (Epinephelus marginatus), la spigola (Dicentrarchus labrax) e il nasello (Merluccius merluccius). Per molte delle specie citate, negli ultimi decenni si è verificata una riduzione degli stock mediterranei di oltre il 40%[1].

Overfishing e pesca distruttiva

Le tecniche di pesca non regolamentate causano danni ecosistemici che, sommati ai già presenti disturbi come l’inquinamento, portano alla drastica diminuzione degli organismi marini: è proprio per questo motivo che tali tecniche vengono anche definite distruttive.

Una delle tecniche di pesca più distruttive è rappresentata dalla pesca a strascico. Questo è un metodo basato sull’utilizzo di enormi reti zavorrate che raschiano i fondali marini, rastrellando tutto ciò che incontrano. Questa tecnica di pesca non solo distrugge gli strati superficiali dei fondali e le specie che vi vivono, come coralli centenari, ma cambia anche la torbidità dell’acqua e la granulometria dei fondali. I solchi lasciati da queste reti possono essere visibili anche diverso tempo dopo la pratica e lunghi anche fino a 4 km.

Leggi anche: Sbiancamento dei coralli: cause e conseguenze

Effetto collaterale di questa e di altre tecniche di pesca è il bycatch, ovvero la pesca di specie diverse da quelle intenzionali che vengono poi rigettate in mare, spesso ferite o già morte. La cattura accidentale che avviene in questo modo causa la morte di specie che non devono essere oggetto di pesca, come molte specie protette perché in via di estinzione. Un recente rapporto WWF stima che i rigetti rappresentino il 40% del totale del pescato. In questa percentuale sono inclusi gli esemplari della specie target (da pescare) la cui taglia non è idonea, più altre specie che non sono importanti dal punto di vista commerciale, specie vietate o a rischio di estinzione. Alcuni pesci sono rigettati unicamente perché il peschereccio non ha la licenza per portarli a terra e potrebbe dunque incorrere in sanzioni[8].

Tra le tecniche di pesca più distruttive non possono essere dimenticate quelle attuate con veleni ed esplosivi. La pesca con il cianuro, per esempio, si pratica nelle Filippine, nell’Est dell’Indonesia e in altri Paesi del Pacifico occidentale. L’utilizzo dei veleni come il cianuro è finalizzato a stordire le prede, ma tale tecnica, oltre ad essere lesiva per il pescato, danneggia altri animali e anche l’ambiente entro il quale questi veleni circolano e si accumulano[6].

Da molto tempo è utilizzata anche la pesca con gli esplosivi, poiché facilmente reperibili. Questa tecnica danneggia i fondali marini, creando dei veri e propri crateri che possono raggiungere i 20 m2. I danni sono imponenti in ogni tipo di ecosistema, ma lo diventano ancora di più in ecosistemi come quelli di barriera, la cui velocità di distruzione non potrà mai essere bilanciata da quella di costruzione[6].

Overfishing e legalità nel Mediterraneo

In base al regolamento CE 1967/2006, la pesca viene considerata illegale non solo quando vengono pescate specie protette, ma anche quando le specie commerciali non vengono pescate nel periodo giusto o non hanno raggiunto la taglia definita legale (che di solito corrisponde alla taglia della prima maturità sessuale dell’animale).

Esistono dei periodi ben precisi in cui si può pescare e altri in cui vige il fermo biologico (o fermo pesca). Durante il fermo, determinate specie ittiche non possono essere pescate, così da garantire loro una fase di recupero che sia appropriata al ciclo biologico della specie. Pertanto, il periodo cambia da specie a specie, ma la durata è approssimativamente di 40 giorni.

Inoltre, è illegale pescare pesci che abbiano una taglia inferiore alla minima consentita: questa normativa permette di garantire la presenza di pesci in grado di riprodursi in mare per evitare la scomparsa dell’intero stock.

La pesca è considerata illegale, oltre che nei citati casi, anche quando[3, 4]:

  • danneggia il mare con l’utilizzo di esplosivi;
  • è praticata in zone di divieto;
  • utilizza reti o strumenti non autorizzati;
  • avviene in acque di altri Stati o in mancanza di licenza;
  • eccede la quota di pesca (ovvero la quota definita che ogni imbarcazione può trasportare a terra).

In Italia, in base alla legge n. 154 del 28 luglio 2016, chi pratica pesca illegale può andare incontro a diverse sanzioni che variano tra multe (da 2 a 12 mila euro), confisca del pescato e/o degli attrezzi di pesca, sospensione dell’esercizio commerciale e della licenza fino all’arresto[3].

Conclusioni

Nonostante le sanzioni applicate alla pesca illegale, va sottolineato che essa causa danni ecosistemici a cui tali sanzioni non potranno mai rimediare. La pesca illegale, così come tutte le pratiche di overfishing, rappresenta una delle cause di alterazione delle reti trofiche marine che porterà ad un impoverimento dell’intero ecosistema. Con una tale situazione, non sarà possibile alcun rapporto tra uomo e mare così come lo conosciamo (a meno che non ci si voglia convertire ad una dieta a base di meduse!).

Referenze

  1. Abdul Malak D. et al. (2011). Overview of the Conservation Status of the Marine Fishes of the Mediterranean Sea ;
  2. FAO (2014). The State of World Fisheries and Aquaculture 2014: Opportunities and Challenges. Roma;
  3. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – Legge n.154 del 28 luglio 2016;
  4. Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea – Regolamento (CE) n. 1967/2006 del Consiglio del 21 dicembre 2006;
  5. Goethel D., Cadrin S., Rothschild B. (2012). Reconsidering Historical Definitions of Overfishing and the Balance Between Sustainable Use and Overexploitation;
  6. Pet-Soede, L., & Erdmann, M. (1998). An overview and comparison of destructive fishing practices in Indonesia. SPC Live reef fish information bulletin, 4, 28-36;
  7. UN Report – Nature’s Dangerous Decline ‘Unprecedented’; Species Extinction Rates ‘Accelerating’;
  8. WWF – Living Planet, Report 2014: Species and spaces, people and places.

Immagine di copertina da pikist.com.

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