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Memoria a breve termine: come funziona?

Il punto di vista della psicologia cognitiva

La memoria umana funziona su più livelli. Possediamo una memoria a lungo termine all’interno della quale immagazziniamo le informazioni che vanno a costituire la nostra storia di vita; una memoria e breve termine che ci permette di raccogliere dati temporanei per svolgere compiti nel breve periodo; una working memory, inclusa nella memoria a breve termine, che ci consente di vivere quotidianamente nel mondo e di eseguire i task comportamentali con cui ci evolviamo giorno dopo giorno.

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Working memory e memoria a breve termine

Cosa ci consente di eseguire calcoli, brevi compiti o interagire nelle situazioni sociali?
La cosiddetta «memoria di lavoro» (WM o working memory), una partizione della memoria a breve termine (STM) che raccoglie, immagazzina, utilizza e ricambia le informazioni in tempo reale per rispondere alle richieste ambientali nell’immediato.
Nel momento in cui è necessario ricordare le informazioni per un tempo superiore all’«attimo», allora entra in gioco la memoria a breve termine vera e propria, ovvero quella sezione della memoria che ci consente di ricordare una quantità limitata di dati per un tempo altrettanto limitato[1].

Quando è necessario immagazzinare l’informazione per lunghi periodi, questa deve necessariamente transitare dagli ippocampi per poi essere codificata e indirizzata ad altre aree del cervello, dove successivamente viene consolidata e conservata. Si parla in questo caso di memoria a lungo termine (LTM), ma questa è un’altra storia.

Come funziona la memoria a breve termine?

Nel 1956, Miller condusse una serie di esperimenti sulla memoria a breve termine arrivando a parlare del «magico numero 7 ± 2». Lo scienziato notò che la quantità di informazioni immagazzinabili temporaneamente nella memoria a breve termine era uguale a sette, più o meno due a seconda delle differenze individuali di ciascuno.

Presso la pagina di Human Benchmark è possibile testare rapidamente questa ipotesi, comodamente dal proprio computer. C’è chi tra noi probabilmente riuscirà a trovare strategie per ovviare il problema del magico numero 7, tentando ad esempio di ricordare più numeri raggruppandone alcuni tra loro (568 vale come una sola informazione su sette, ma in realtà ne include tre: 5, 6, 8).

Lo stesso Miller notò che il chunking (l’organizzazione) era di grande aiuto alla memorizzazione (1 8 0 6 7 5 9 ¹ 180 675 9), dunque concluse affermando che le capacità di memorizzazione dipendono dalla natura dello stimolo (1 8 0 6 7 5 9 = 7 cifre e 7 elementi / 180 675 9 = 7 cifre ma 3 elementi, se ne possono aggiungere almeno altri 4)[7].

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Esperimento di Brown e Peterson

Brown e Peterson condussero un esperimento, in stile Ebbinghaus per chi mastica la materia, dove ai soggetti veniva chiesto di memorizzare sequenze di 3 consonanti (XJV), successivamente di osservare il numero presentato (347), poi contare indietro a salti di 3 ogni 2 secondi (344, 341, 338,…). Questo compito distraeva il soggetto dal task principale, ovvero memorizzare le sequenze. Dopo un certo intervallo di tempo veniva chiesto di ricordare le consonanti: i ricercatori notarono che man mano che il tempo passava, la traccia decadeva. Questo perché la memoria a breve termine è volatile, se inizialmente permette di ricordare l’intera informazione originale, con l’avanzare del tempo perde efficacia[8].

Memoria a breve termine e working memory
Quando iniziarono a diffondersi le scienze computazionali, la memoria a breve termine venne paragonata a un sistema informatico (Credit foto: Pixabay – geralt).

Esperimento di Sternberg

Segue la descrizione di un altro esperimento. Per comprendere la natura della memoria a breve termine, Sternberg e colleghi presentarono al soggetto una serie di numeri e di conseguenza un numero test: c’era nella sequenza? Se il processo mnestico fosse seriale, aumentando i numeri, dovrebbero aumentare i tempi di reazione perché andrebbero scannerizzati più item uno dopo l’altro. Se il processo fosse in parallelo, invece, il tempo non dovrebbe cambiare perché gli item verrebbero analizzati tutti contemporaneamente.

Gli sperimentatori si posero anche un’altra domanda: il processo è esaustivo o auto-terminato (si arresta dopo aver trovato il numero di interesse oppure li passa comunque tutti in rassegna)? Dalla ricerca emerse che la memoria a breve termine funziona per processi seriali ed esaustivi, come alcuni computer. Erano gli anni delle prime scienze computazionali, l’idea comune era quella secondo cui il cervello non fosse altro che un calcolatore biologico e che quindi funzionasse come tale[9].

Alcuni modelli della memoria

Uno dei primi modelli della memoria fu quello di Atkinson e Shiffrin datato 1971 che cercò di dare un’iniziale strutturazione cognitiva della memoria a breve termine. Secondo questo modello, per immagazzinare i dati nella LTM era indispensabile innanzitutto passare dalla memoria a breve termine[2].

Shallice e Warrington (1970), studiando i pazienti con lesioni cerebrali, dimostrarono che la sequenzialità STM-LTM non è sempre verificata [3]. Bakerian e Baddeley evidenziarono che, qualora il passaggio dalla STM precedesse quello dalla LTM, non era sufficiente il rehearsal (le ripetizioni) per garantire il passaggio nella LTM. Pochi anni dopo, Baddeley e Hitch (1974) cercarono di comprendere una volta per tutte il reale funzionamento della STM: non è un’unica scatola, ma è organizzata in sezioni che permettono di processare diverse informazioni contemporaneamente (non O numeri O lettere, ma lettere E numeri insieme). L’elaborazione dei primi modelli permise alla ricerca di comprendere come facesse la nostra WM a essere così rapida ed efficace nelle situazioni sociali e non[4].

Il taccuino visuo-spaziale

Insieme al circuito fonologico e all’esecutivo centrale va a strutturare la WM per come la conosciamo. Dobbiamo immaginare il circuito fonologico come un magazzino dove:

  1. l’informazione verbale viene depositata e mantenuta;
  2. avviene il ripristino attivo dell’informazione.

Contemporaneamente nel taccuino visuo-spaziale avviene la stessa cosa per le informazioni visive (ad esempio quelle presenti qui), successivamente come nel caso di un computer, le informazioni raccolte da entrambi i compartimenti vengono mandate all’esecutivo centrale che si preoccupa di elaborare una risposta.
[6].

Alcuni esperimenti

Gli esperimenti che ci permisero di trarre queste conclusioni furono quelli che Brooks (1968) condusse sull’esistenza di magazzini diversi per aspetti visuo-spaziali e fonologici:

  • esperimento 1: lo sperimentatore mostra una F al soggetto e gli chiede di ripercorrerla a mente dicendo o crocettando IN su un foglio nel caso in cui si imbatta in un angolo interno, OUT per un angolo esterno. La risposta manuale (che coinvolge un solo sistema: quello visuo-spaziale) è più lenta rispetto a quella vocale (che coinvolge due sistemi diversi: quello fonologico per la risposta e quello visuo-spaziale per lo stimolo). Nella risposta manuale il tempo è maggiore perché input e output sono elaborati dallo stesso sistema (per uscire dalla stessa bottiglia, dovendo passare dal collo stretto, impiegano più tempo rispetto all’uscita rapida e facilitata da due bottiglie diverse);
  • esperimento 2: viene chiesto al soggetto di ripetere una frase partendo dall’inizio, segnando SI quando la parola viene riconosciuta come nome, NO in caso contrario. Si ottengono risultati opposti ma coerenti con l’esperimento precedente. La risposta vocale (che in questo caso coinvolge lo stesso sistema fonologico) impiega più tempo rispetto a quella manuale (che coinvolge i due sistemi separati).

Il taccuino, a sua volta, presenta una partizione perché vi sono due sotto-componenti del sistema (come per il loop fonologico):

  1. la componente spaziale;
  2. la componente visiva;

Queste interagiscono tra loro ma sono comunque specializzate. Difatti vi sono pazienti che presentano notevoli difficoltà nel ricordare l’organizzazione degli spazi ma ricordano perfettamente le immagini, e ci sono altri pazienti che invece ricordano perfettamente gli spazi, ma hanno problemi nel ricordare le immagini, questo perché spazi ed immagini vengono processate contemporaneamente, ma separatamente.

L’esecutivo centrale

  • stabilisce per quanto tempo le informazioni restano immagazzinate;
  • determina quale sistema è attivo per il deposito;
  • integra e coordina le informazioni tra il circuito fonologico e il taccuino visuo-spaziale;
  • permette di esplorare e manipolare le informazioni immagazzinate;
  • è fondamentale per tutte le attività cognitive complesse (leggere un testo, risolvere un’operazione, eseguire due compiti,…);
  • è costituito da vari processi esecutivi collegati tra loro, ma distinti (inibizione, coordinazione, trasferimento di informazioni).

Solo nel 2000 Baddeley aggiunse un’altra componente al suo modello: il buffer episodico, responsabile, ad esempio, del chunking (quello che ci permette di ricordare meglio). È grazie al buffer se siamo in grado di ricordare frasi complesse come la seguente:
«Stasera in televisione c’è un film che devo assolutamente guardare perché è la biografia di Baddeley» piuttosto che «Film assolutamente un in Baddeley c’è un che televisione perché è devo biografia guardare stasera la di»[5].

L’insieme di queste caratteristiche ci permette ogni giorno di socializzare, di rapportarci con gli altri e con il mondo, e per estensione, di formare noi stessi grazie all’apprendimento, nonostante alcuni ricordi non richiedano il passaggio obbligato dalla memoria a breve termine per entrare nel circuito della LTM. Se siamo ciò che siamo è anche perché la nostra memoria a breve termine ci ha consentito di diventarlo, elaborando le informazioni e trasferendole gradualmente alla LTM.

Possiamo vedere il sistema mnestico come l’apparato digerente: gli alimenti ingeriti (i ricordi) vengono inizialmente masticati per renderne più facile l’assimilazione (memoria a breve termine), successivamente vengono decomposti in parti ancor più piccole transitando dagli appositi organi come lo stomaco (gli ippocampi), infine vengono digeriti e assimilati (LTM).

Referenze

  1. Postle, B. R., & Pasternak, T. (2009). Short term and working memory. Encyclopedia of Neuroscience. San Diego, CA: Elsevier, 783-9.
  2. Atkinson, R. C., & Shiffrin, R. M. (1971). The control of short-term memory. Scientific american, 225(2), 82-91.
  3. Shallice, T., & Warrington, E. K. (1970). Independent functioning of verbal memory stores: A neuropsychological study. The Quarterly journal of experimental psychology, 22(2), 261-273.
  4. Baddeley, A. D., & Hitch, G. (1974). Working memory. In Psychology of learning and motivation (Vol. 8, pp. 47-89). Academic press.
  5. Baddeley, A. (2000). The episodic buffer: a new component of working memory?. Trends in cognitive sciences, 4(11), 417-423.
  6. Brooks, L. R. (1968). Spatial and verbal components of the act of recall. Canadian Journal of Psychology/Revue canadienne de psychologie, 22(5), 349.
  7. Miller, G. A. (1956). The magical number seven, plus or minus two: Some limits on our capacity for processing information. Psychological review, 63(2), 81.
  8. Peterson, L., & Peterson, M. J. (1959). Short-term retention of individual verbal items. Journal of experimental psychology, 58(3), 193.
  9. Sternberg, S. (1966). High-speed scanning in human memory. Science, 153(3736), 652-654.

Crediti immagine in evidenza: Brian D’Cruz Hypno Plus

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