Correva l’anno 2010 quando a Yukagir, un piccolo villaggio nella Repubblica di Sakha, nell’estremo Nord-Est della Russia, rinvennero un giovane mammut lanoso congelato nel permafrost. Battezzarono l’esemplare, una femmina, con il nome di Yuka, lo stesso dell’amena località dove era rimasta congelata per millenni. Giunta a noi in un buono stadio di conservazione ha subito acceso le fantasie degli scienziati di tutto il mondo, pronti forse a rivivere le emozioni provate al cinema quasi una ventina d’anni prima, con l’iconico film di Steven Spielberg, Jurassic Park.
Per quasi due anni Yuka continuò a riposare nel suo letto di ghiaccio, finché il continuo scioglimento del permafrost non rischiò di metterne in pericolo la conservazione. Fu allora che la trasportarono prima presso l’Accademia delle Scienze di Sakha, a Yakutsk, e poi a Mosca dove è tutt’oggi possibile vederla. Il quarto d’ora di celebrità di Yuka è però ben lontano dalla sua conclusione: un team di scienziati giapponesi ha provato ad effettuare vari esperimenti sui suoi tessuti così ben preservati e certo così promettenti. Potevano forse resistere alla tentazione di sondare il terreno per capire se sarà mai possibile clonare un mammut? Ovviamente no.
Dai Mammut agli elefanti africani
La datazione al carbonio-14 ha riportato che i tessuti hanno oltre 28.000 anni (per essere precisi 28.140 +- 230 anni). Le analisi genetiche sono state particolarmente soddisfacenti, con un tasso medio di mappatura (e quindi di preservazione del materiale genetico) del 51,7 %. Gli scienziati hanno comparato questa parte di genoma trovato nelle cellule di Yuka con la mappa genetica dell’elefante africano (Loxodonta africana). Il confronto ha svelato una corrispondenza dell’83,0%. Anche le analisi proteomiche hanno suggerito una considerevole vicinanza evolutiva con l’elefante africano, anche maggiore rispetto a quella con altri pachidermi. Questo indizio è da prendere con cautela perché la letteratura è finora concorde nell’assegnare all’elefante indiano la qualifica di parente più prossimo del mammut.
Nuclei congelati dei mammut
Ma andiamo oltre. Dopo le verifiche relative alla conservazione del patrimonio genetico, il team si è concentrato sulla ricerca di nuclei cellulari ben conservati. Nel nucleo della cellula si svolgono tutte le funzioni che ne permettono non solo il mantenimento in vita, ma anche e soprattutto la divisione. Se gli scienziati avessero trovato dei nuclei ben conservati, avrebbero dunque potuto provare ad impiantarli in cellule uovo vitali usando la tecnica del trasferimento nucleico. Si tratta della stessa tecnica che permise agli scienziati del Roslin Institute di clonare, nel 1996, la famosa pecora Dolly. All’epoca impiantarono il nucleo di una cellula somatica, cioè una cellula non germinale, all’interno di un oocita privato del suo nucleo. Opportunamente stimolato con delle micro scariche elettriche, il nucleo iniziò a dividersi e l’oocita si comportò come se fosse stato fecondato naturalmente e lo sviluppo embrionale si completò con successo.
Gli scienziati sono dunque riusciti ad isolare 88 strutture simili a dei nuclei cellulari, all’interno delle cellule muscolari di Yuka. Perché proprio le cellule muscolari? Al di là dello stato di conservazione, era statisticamente più probabile trovare nuclei cellulari nelle cellule muscolari rispetto ad altri tipi di cellule perché le prime, nei mammiferi, sono polinucleate, ovvero dotate ciascuna di più nuclei.
Tentativi di de-estinzione
Veniamo dunque alla parte interessante: gli scienziati hanno provato finalmente ad iniettare questi nuclei all’interno di oociti di topo. Per studiarne il comportamento all’interno delle cellule hanno usato una tecnica di live-imaging non invasiva, che sfrutta il tracciamento di un particolare tipo di istone. Nei nuclei delle cellule eucariote il DNA è avvolto su gruppi di proteine chiamate istoni, a formare la cromatina. Gli istoni vengono esposti solo quando la cromatina si svolge, cosa che avviene durante la replicazione cellulare. Perciò, trovare tracce di proteine istoniche all’interno dell’oocita indicherebbe che la cellula sta replicando il proprio materiale genetico, per prepararsi alla divisione cellulare. I risultati ottenuti sono stati paragonati con oociti al cui interno sono stati inseriti nuclei da cellule di elefante, prelevate post mortem e congelate.
Una scoperta promettente
Gli scienziati hanno trovato tracce di proteine istoniche sia negli oociti con i nuclei di cellule di mammut sia in quelli utilizzati come paragone, che contengono nuclei di cellule di elefante. I nuclei di cellule di mammut sono quindi stati in grado di rispondere agli stimoli dati dagli oociti di topo. Studi successivi hanno mostrato inoltre che i nuclei di mammut potrebbero essere in grado di attivare specifiche funzioni dei nuclei delle cellule di topo, per riparare le proprie parti danneggiate.
Tutti gli oociti sono degenerati in fasi molto precoci dello sviluppo e questo ci fa capire che siamo ancora molto lontani dalla possibilità di clonare un mammut, per quanto ben preservato. Ciò nonostante, il lavoro di questo team pone le basi per futuri sviluppi: con questo studio hanno dimostrato che, per quanto vecchi di 28.000 anni ed estremamente danneggiati, questi nuclei sono stati in grado di comunicare con cellule uovo di una specie diversa e indurre meccanismi di autoriparazione per promuovere lo sviluppo embrionale. Tutto questo ci mostra le incredibili potenzialità cellulari, ancora tutte da scoprire.
Forse non arriveremo mai a creare un Jurassic Park o a popolare di veri mammut il Pleistocenic Park, ma tante altre meraviglie ci aspettano dietro l’angolo. Dobbiamo solo continuare a cercarle.
Referenze
Yamagata K. et al. Signs of biological activities of 28,000-year-old mammoth nuclei in mouse oocytes visualized by live-cell imaging. Sci Rep 9, 4050 (2019).