Bentornati nella rubrica che viaggia tra le tante opportunità di carriera disponibili per i laureati in Scienze della Vita, Biologi, Biotecnologi, Naturalisti! Quest’oggi il lavoro da Biologo di cui vi parlo è l’Associato di ricerca clinica (Clinical Research Associate), o CRA.
Questa figura professionale opera nell’ambito delle sperimentazioni cliniche. Lo fa per conto delle aziende farmaceutiche oppure per quelle cui le prime appaltano alcune fasi delle sperimentazioni (Contract Research Organizations, o CRO).
Molti di voi hanno sicuramente già sentito parlare di questa professione. Basta fare un giro su siti come LinkedIn o Monster, infatti, per imbattersi in numerose offerte di lavoro in questo ambito. Assieme al controllo qualità, infatti, il CRA è una delle professioni più gettonate per i laureati in Scienze della Vita.
Ci parlano della loro esperienza nel ruolo Barbara Compagno e Stefano Lagravinese, che nel tempo ha affiancato all’attività come CRA una serie di corsi mirati a formare nuovi professionisti da introdurre al mondo della ricerca clinica.
In che ambito è inserita questa figura
Lo sviluppo di un farmaco è un processo molto lungo e dispendioso, che dura all’incirca tra i sette e i dodici anni dalla iniziale scoperta di un nuovo principio attivo.
Questo processo si articola in molti passaggi e comincia solitamente nelle università o in altri centri di ricerca. Dapprima con studi in vitro, cioè sperimentazioni della sostanza su colture cellulari isolate, e poi con studi in vivo su modelli animali, tipicamente topi o ratti.
Solo se questi due passaggi danno luce verde può iniziare la sperimentazione sull’uomo, passando dai laboratori ai centri di cura e agli ospedali. Anche la sperimentazione umana si articola in tre fasi e il loro ordine serve a tutelare il più possibile la salute delle persone coinvolte.
La Fase 1 coinvolge infatti solo poche decine di volontari sani e senza predisposizioni a malattie. Chi disegna lo studio, li divide in piccoli gruppi e a ciascuno di essi somministra il principio attivo a un diverso dosaggio. Questo permette di studiare le risposte dell’organismo sano all’assunzione della molecola, principalmente per individuare i principali effetti collaterali.
Nella Fase 2 la sperimentazione coinvolge un numero maggiore di volontari, stavolta malati della malattia che il nuovo farmaco dovrebbe curare.
Come nella fase precedente, a gruppi di volontari vengono somministrate diverse concentrazioni di principio attivo oppure di un preparato senza attività farmacologica, cioè un placebo.
I protocolli di studio in questo caso prevedono la tecnica del “cieco” o del “doppio cieco”. Si tratta della pratica di nascondere la natura della cura somministrata – principio attivo oppure placebo – rispettivamente solo al paziente oppure sia al paziente sia allo sperimentatore.
Questo accorgimento permette di tenere conto del famoso effetto placebo, cioè dell’influenza dell’aspettativa del paziente sulla sua percezione del proprio stato di salute, e di eliminare il suo effetto disturbante sui risultati ottenuti dal principio attivo, valutati registrando le variazionidi parametri fisiologici correlati con la salute del paziente.
Queste metodiche vengono riprese negli studi clinici di Fase 3.
In questa fase i volontari malati sono arruolati in gran numero e da ogni parte del mondo per dare consistenza statistica ai risultati registrati e possono venire somministrati loro il nuovo principio attivo, il placebo oppure un farmaco di controllo, cioè un eventuale trattamento già disponibile sul mercato e del quale il nuovo farmaco vuole proporsi come un migliore sostituto.
Questi studi sono detti randomizzati perché a ogni partecipante assegnano in modo assolutamente casuale il principio attivo, il placebo oppure il farmaco di controllo.
I pazienti inclusi nella sperimentazione devono essere eterogenei in quanto a influenze ricevute dall’ambiente, stili di vita o costituzione genetica e bisogna quindi fare in modo da non somministrare il trattamento in maniera preferenziale a qualche sottogruppo di pazienti (ad esempio più alle persone dalla vita attiva che ai sedentari) per effetto di un disegno sperimentale meno previdente. La randomizzazione dello studio aumenta la probabilità che le variazioni dei parametri fisiologici controllati dipendono dal trattamento somministrato piuttosto che da questi altri parametri.
In questa fase si pone estrema attenzione al quantificare l’insorgenza degli effetti indesiderati per cercare collegamenti con eventuali stati fisici o con la dose somministrata del principio attivo.
Il risultato di questi sforzi è accumulare abbastanza dati per supportare l’innoquità del nuovo principio attivo e la sua reale efficacia terapeutica.
Questi dati potranno poi essere trasmessi alle autorità regolatorie responsabili di rilasciare i permessi alla commercializzazione (in Italia l’AIFA, negli USA la famosa FDA), resi disponibili a chi deve effettuare farmacovigilanza post-rilascio e utilizzati per redarre i bugiardini che si possono trovare nelle confezioni dei medicinali, che riportano ad esempio effetti collaterali, posologia e controindicazioni.
La figura del Clinical Research Associate, anche detto Clinical Monitor, entra in gioco in tutte le fasi cliniche e fa da raccordo tra l’azienda farmaceutica, o la CRO preposta a monitorare gli studi, e le cliniche che portano avanti la sperimentazione.
Il Clinical Research Associate
La vita di un CRA è certamente movimentata. A differenza di altre professioni non è, infatti, imperniata su infinite ripetizioni di una giornata tipo. Le attività che svolge sono varie quanto i luoghi dove opera: il suo ufficio e i centri dove vengono condotti gli studi clinici.
Un Associato di Ricerca Clinica viaggia davvero molto. Basti pensare che un CRA alle prime armi può seguire contemporaneamente tre o quattro studi clinici, distribuiti su circa una ventina di centri. Un CRA con più esperienza può invece arrivare a seguire anche sei o sette studi, svolti in circa quaranta centri.
Nelle giornate “sul campo”il CRA viaggia verso ciascuno di questi numerosi ospedali, che spesso possono essere ben distribuiti sul territorio nazionale e quindi lontani dalla sede della CRO, e prende contatto con i responsabili della sperimentazione (i Principal Investigator) per controllare le cartelle mediche dei pazienti coinvolti e la documentazione relativa allo studio clinico.
Lo scopo è quello di assicurarsi che il protocollo dello studio sia stato seguito scrupolosamente dalla visita precedente del CRA (ogni specifico centro viene visitato circa una volta ogni tre mesi), che vengano rispettatele linee guida di Buona Pratica Clinica (Good Clinical Practice) e le normative vigenti e che i dati clinici dei pazienti siano stati inseriti correttamente nel portale informatico ad accesso personale che ha lo scopo di raccoglierli per le elaborazioni statistiche.
Inoltre il CRA controlla la disponibilità per l’ospedale delle confezioni di trattamento.
Queste contengono il nuovo farmaco oppure un placebo e non hanno etichetta distintiva. Questo non permette ai clinici di risalire al loro contenuto e mantiene il protocollo sperimentale del doppio cieco. Spetta dunque al CRA vigilare sulla corretta assegnazione di ogni loro codice a uno specifico paziente per evitare errori potenzialmente nocivi per la loro salute.
Nelle giornate in ufficio invece il CRA deve prima di tutto registrare i dati raccolti nelle visite ai centri clinici. Al ritorno da ogni missione stila un apposito report rispondendo il più esaustivamente possibile a dei questionari con domande a risposta aperta.
Avrà poi il compito di discutere dell’andamento dello studio clinico nell’area che gli hanno assegnato in periodiche riunioni con il team di studio. Questo è l’insieme delle persone che collettivamente gestiscono l’intero processo della sperimentazione clinica di quel farmaco. I ruoli nel team di studio sono incarnati da differenti figure professionali, alcune delle quali possono essere viste come evoluzioni gerarchiche del CRA, altre come differenti declinazioni, quali ad esempio il Project Manager, il Clinical Trial Manager e i Monitor di Sede (SM, Site Monitor).
Per via della lontananza fisica dei vari colleghi molto spesso le riunioni del team di studio prevedono la presenza virtuale.
Anche se si trova nel suo studio – può essere la sede del suo datore di lavoro ma anche casa sua, dal momento che non è raro che un CRA sia home based – il CRA non rischia mai di perdere il contatto con i centri di ricerca. È lui che chiamano, infatti, i medici responsabili della sperimentazione in caso di problemi da risolvere. Questi possono andare dalla logistica (come del materiale studio-specifico mai arrivato al centro) alla richiesta di chiarimenti sulle procedure specifiche di quel particolare trial clinico.
Completano le mansioni di ufficio del CRA la gestione della documentazione, che viene man mano prodotta, e la preparazione delle visite successive. Questo, sia dal punto di vista del lavoro da fare in ogni sede, sia della logistica delle trasferte; cioè decidere come calendarizzarle, come spostarsi, dove alloggiare e prenotare di conseguenza.
Chi lo può fare
Per ricoprire la posizione di CRA occorre avere un solido background scientifico, dimostrato da una laurea in Biologia, Biotecnologie, Farmacia o Chimica e Tecnologie Farmaceutiche.
Per esercitare la professione occorre per legge (Decreto Ministeriale del 15 novembre 2011, articolo 4) una certificazione. La si può ottenere seguendo un apposito corso della durata di 40 ore e affiancando un CRA già certificato nelle sue attività.
Esistono corsi che è possibile seguire per prepararsi sugli argomenti previsti dal DM 15/11/11 (Stefano ad esempio propone l’arcinoto “Missione CRA”) oppure ci si può affidare alle CRO che, talvolta, offrono al momento del primo contratto la possibilità di seguire un iter di formazione finalizzata all’ottenimento del “patentino”.
Un’altra alternativa è seguire un master in Ricerca Clinica. Oltre alla formazione, prevedono spesso anche un periodo di tirocinio adatto a soddisfare i requisiti del Decreto Ministeriale.
Cosa aspettarsi
Quella del CRA è una di quelle professioni che richiedono una formazione costante, uno stimolo forte a intraprendere questa carriera. È una figura molto dinamica che viaggia molto; un aspirante CRA deve essere automunito e felice di vivere tra aeroporti, scambi ferroviari e traffico delle tangenziali. Varie sono le sfide che deve affrontare e i suoi orari lavorativi possono essere abbastanza flessibili.
Da un lato viò permette di non annoiarsi mai; per contro, lavorare più del dovuto sotto scadenza è una possibilità concreta. Servono doti di multitasking e capacità di lavorare sotto pressione.
L’ambiente della ricerca clinica è tendenzialmente giovanile e spesso permette di entrare in contatto con persone provenienti da diversi paesi esteri. È, quindi, fondamentale conoscere l’inglese ed essere dotati di buone capacità sociali.
Un’ultima dote che, tiene a sottolineare Stefano, è assolutamente necessaria per la professione al contempo è avere sempre a mente cos’è al centro della missione del CRA: il paziente e la sua salute e sicurezza.