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La vita social delle piante – Intervista a Paola Bonfante

Nell’ultimo rapporto FAO su “Lo stato delle conoscenze sulla biodiversità del suolo” si dice che le comunità microbiche delle terreno svolgono un ruolo determinante nel promuovere la produzione alimentare, nel contrastare i fenomeni legati al cambiamento climatico e nell’aumentare la resilienza delle produzioni agrarie.

Lo studio e la conoscenza delle relazioni simbiotiche pianta-microrganismi nel contesto dell’ecosistema agrario, rappresentano un’opportunità importante per la promozione di un’agricoltura sostenibile con ridotto impatto ambientale. Per far questo è prima necessario capire il ruolo ecologico di queste relazioni e quali fattori, ambientali e genetici, entrino i gioco.

Parleremo di questo e molto altro con Paola Bonfante, Professoressa Emerita presso l’Università degli Studi di Torino. Ha insegnato Biologia Vegetale presso il medesimo Ateneo, è stata Direttrice del Centro di Studio sulla Micologia del Terreno del CNR, e poi Direttrice del Dipartimento di Biologia Vegetale. È considerata una pioniera degli studi sulle relazioni tra piante e microrganismi, in particolar modo delle simbiosi tra funghi micorrizici e piante.

Grazie all’avvento delle Next Generation Sequencing, ha inoltre fatto luce sulla natura dei meccanismi molecolari alla base della comunicazione pianta-fungo. È attualmente nella lista dei top scientist italiani, nonchè una delle ricercatrici più citate al mondo (Highly Cited Researchers 2017, 2018, 2020, Clarivate Analitics). Fa parte di numerose prestigiose Accademie, tra cui l’Accademia dei Lincei, e nel 2019 è stata nominata Commendatrice della Repubblica Italiana per meriti scientifici.

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“Una pianta non è un’isola”: non esistono piante “sole”, perché interagiscono a vari livelli con molteplici microorganismi. Qual è la natura di queste relazioni?

Il titolo del mio libro “Una pianta non è un’isola” è una citazione tratta dalla “Meditazione XVII” di John Donne, poeta e religioso della Chiesa d’Inghilterra che visse durante i primi anni del Seicento. Con il verso “Nessun uomo è un’isola”, Donne ribadisce il concetto che nessun uomo è solo, bensì fa parte di una collettività.

Questo concetto è ancora attuale. Pensiamo alla guerra: nessuna azione del singolo è isolata ma ha sempre ricadute nel mondo esterno. Donne dice: “E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”.

Passando dalla filosofia alla biologia, a me è sempre sembrato che questa frase descrivesse perfettamente le piante, che vivono in relazione con moltissimi microrganismi diversi, influenzandosi reciprocamente. Quando vediamo una pianta isolata in cima ad una collina, essa non è sola ma interagisce con un mondo microscopico a noi invisibile. Microorganismi presenti sulla superficie delle sue radici e in tanti altri suoi organi e tessuti come fiori, foglie e frutti.

L’idea alla base del libro è stata proprio comunicare la rilevanza di questo mondo invisibile. Invisibile perchè quello che studio si trova sotto i nostri piedi, in una posizione non facilmente accessibili a noi esseri umani. Invisibile, inoltre, perché i microrganismi stanno per definizione sotto al nostro limite di risoluzione.

Parlando di relazioni pianta-microrganismi ci riferiamo in realtà a un numero molto diversificato di relazioni e usiamo il termine generico di microbiota delle piante. Questo termine indica le comunità di microrganismi che vivono in associazione con la pianta, che possono avere caratteristiche e funzioni diverse.

Ci sono microrganismi patogeni, che danneggiano la pianta in termini di sopravvivenza e di minor crescita. Altri ancora sono estremamente utili al benessere e allo sviluppo della pianta. Queste caratteristiche, a ben pensarci, sono analoghe a quelle dei microrganismi del nostro microbiota intestinale.

Le interazioni tra piante e microrganismi avvengono nel suolo. Qual è il suo ruolo nel plasmare la comunità microbica delle piante? E anche le piante svolgono un qualche ruolo attivo?

Grazie all’avvento del Next Generation Sequencing, dal 2012 in poi abbiamo potuto sequenziare il microbiota di piante provenienti da molti ambienti diversi. Eravamo interessati a capire anche quali organismi fossero associati a ciascuna di esse, come anche quali fattori influenzino la presenza di alcune comunità microbiche rispetto ad altre.

Tra questi fattori troviamo proprio il suolo, l’ambiente in cui piante e microrganismi interagiscono tra loro.

È molto difficile dare regole generali, sono stati studiati e analizzati suoli molto differenti in composizione e ricchezza in nutrienti. C’è però chi afferma che i suoli di ambienti naturali siano più biodiversi ripetto a quelli degli agroecosistemi. I dati sperimentali, tuttavia, non permettono ancora di affermarlo definitivamente.

Dobbiamo inoltre considerare che è possibile distinguere aree e porzioni di suolo differenti, tra le quali c’è la rizosfera. Questa porzione di suolo a stretto contatto con l’apparato radicale delle piante è molto ricca in microrganismi, ospitando la maggior biodiversità microbica, grazie anche agli essudati radicali rilasciati dalla pianta.

Quindi anche la genetica della pianta è fondamentale nel selezionare i microorganismi con cui instaurare una relazione: in un certo senso fa da filtro tra tutti quelli presenti nel suolo.

Il genotipo del vegetale ha anche un ruolo fondamentale nell’influenzare le dinamiche della comunità microbica del terreno. Queste relazioni sono effettivamente molto complesse, sistemi estremamente difficili da decifrare.

Ho particolarmente apprezzato, dunque, che il Premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi abbia citato il Plant Microbiota come esempio di sistema complesso. Un sistema in cui ogni componente tende a trovare un equilibrio, la cui natura a noi scienziati è ancora in parte sconosciuta.

E se consideriamo che in questo sistema interagiscono non solo batteri, ma anche virus, funghi e nematodi, capiamo bene quanto sia difficile per la ricerca decifrare questo intricato mondo di relazioni sotterranee.

Cosa sono le relazioni pianta-funghi micorrizici e quanto tempo fa sono comparse sulla Terra?

Iniziamo con due cifre impressionanti. Secondo i report dei “Kew Gardens”, punto di riferimento sulla biodiversità vegetale, attualmente conosciamo circa 390.000 specie di piante. Di queste, circa il 90% vive in associazione con funghi micorrizici. Le interazioni pianta-fungo si dimostrano uno degli eventi ecologici più pervasivi del pianeta.

Qual è, quindi, il loro ruolo ecologico? Il loro successo dipende solo dallo scambio di nutrienti? Ora sappiamo che biodiversità e struttura delle comunità vegetali dipendono moltissimo dalle comunità fungine che colonizzano le radici.

La parola micorriza, poi, è un “termine ombrello” che raccoglie, oltre alle specie vegetali, anche un altissimo numero di funghi dei gruppi più svariati. Ognuno di loro si associa di preferenza con un dato gruppo di piante, originando un’associazione pianta-fungo abbastanza specifica.

Sappiamo che il 70% delle specie vegetali, dalle felci alle Gimnosperme e alle Angiosperme, si associa con i funghi Micorrizici Arbuscolari (AM), che appartengono a un gruppo molto antico, i Glomeromycotinia.

Le piante ad alto fusto, conifere e latifoglie, si associano soprattutto con i Basidiomiceti per formare le Ectomicorrize. Ancora le Ericales, come le Eriche e le Calluna, formano una Simbiosi Ericoide, prevalentementecon gli Ascomiceti.

Nelle orchidee, invece, è la fase germinativa che dipende strettamente da una particolare simbiosi con i funghi. Nelle primissime fasi di sviluppo, infatti, sono i funghi simbionti a nutrire l’orchidea, apportandole zuccheri.

La storia evolutiva delle simbiosi pianta-fungo parte dalla prima comparsa delle piante terrestri nel Devoniano, circa 450 milioni di anni fa. I fossili raccontano che le piante non avevano ancora un vero apparato radicale ma erano dotate di organi sotterranei chiamati rizomi.

Ebbene, proprio nei rizomi sono state rinvenute strutture molto simili ai funghi arbuscolari di oggi. Per cui l’idea centrale è che questi funghi siano stati effettivamente degli alleati delle piante nella loro conquista delle terre emerse.

Quali benefici traggono la pianta e il fungo che si impegnano in una relazione micorrizica?

Vorrei iniziare da qualcosa di molto generale ma che abbiamo imparato a conoscere solo adesso. Quando parliamo del nostro Gut Microbiota (microbiota intestinale), ci riferiamo molto spesso al Gut-Brain Axis, ossia all’asse intestinoi-cervello. Quando ci riferiamo al microbiota vegetale parliamo invece di Root – Shoot Axis. 

Il dato interessante è che quando prendiamo in considerazione il Plant Microbiota, possiamo identificare delle somiglianze con le funzioni legate al nostro Gut Brain Axis. Tra queste, vi sono la nutrizione e lo sviluppo della pianta, nonché la sua immunità.

Nel caso delle micorrize, questi tre aspetti sono perfettamente corrispondenti alle funzioni benefiche che i funghi hanno nei confronti della pianta. Per quanto riguarda le funzioni nutrizionali, a me piace dire che i funghi micorrizici aiutano le piante nella loro dieta. Le piante, infatti, non hanno bisogno solo di acqua e di anidride carbonica per svolgere la fotosintesi.

Esse necessitano anche di elementi minerali (azoto, fosforo e potassio) senza i quali il processo fotosintetico non sarebbe possibile. Si dice che i funghi svolgono il ruolo di biofertilizzatori, in quanti aiutano la pianta ad assorbire meglio proprio questi elementi nutrizionali.

Le micorrize hanno inoltre un forte impatto sullo sviluppo della biomassa vegetale, grazie a una stimolazione sistemica di molti processi metabolici. Infine, è noto che l’interazione con i funghi micorrizici stimola ed innalza il sistema immunitario della pianta, rendendola più responsiva e pronta ad agire a seguito di eventuali attacchi da parte dei patogeni.

Il principale vantaggio che trae il fungo è rappresentato dal carbonio ridotto (spesso sotto forma di lipidi) e dai prodotti della fotosintesi che esso riceve direttamente dal suo ospite vegetale.

Qual è il contributo della biologia molecolare e dell’analisi del DNA allo studio delle micorrize?

Le tecnologie di analisi del DNA si sono rivelate estremamente efficaci nello studio della comunicazione tra pianta e microrganismi. In particolare, abbiamo imparato molto dall’analisi delle relazioni molecolari che intercorrono tra pianta e organismi patogeni.

L’utilizzo della biologia molecolare ha permesso così agli scienziati di scoprire quali siano alcune delle molecole principali coinvolte nell’interazione pianta- funghi micorrizici. È stato scoperto che le piante rilasciano nell’ambiente una particolare classe di molecole di natura ormonale che prende il nome di strigolattoni. Queste molecole hanno il compito di attirare e selezionare le comunità fungina presente nel suolo.

In parallelo a queste ricerche, si è visto come le molecole simili alla chitina, la componente principale della parete cellulare fungina, siano rilasciate dai funghi nell’ambiente extracellulare. Qui vengono poi percepite e legate dalla pianta attraverso specifici recettori presenti sulla superficie delle cellule vegetali.

Questo legame iniziale fa sì che vengano attivate a cascata tutta una serie di geni specifici, e quindi proteine, responsabili per l’instaurarsi della simbiosi. Si tratta di una catena di interazioni molecolari molto interessante, ma che solo adesso cominciamo a decifrare. Personalmente ritengo che, avendo individuato due classi di molecole segnale per la simbiosi AM (strigolattoni e chitooligosaccaridi), non dobbiamo pensare di aver compreso come effettivamente funziona il dialogo molecolare tra pianta e funghi micorrizici.

L’utilizzo della biologa molecolare sarà comunque fondamentale per rendere sempre più di successo la simbiosi micorrizica anche in condizioni di campo: solo così l’interazione pianta-fungo benefico potrà essere impiegata appieno. Uno strumento quindi rilevante per spostarci da un’agricoltura intensiva a una più sostenibile con minor uso di fertilizzanti e prodotti di sintesi.

Oltre alle micorrize, le piante ospitano ed interagiscono con una comunità microbica ad alto grado di biodiversità. Lo studio del microbiota vegetale può aiutarci ad affrontare le sfide ambientali? E su quali aspetti c’è ancora da far luce?

Sicuramente quello che sappiamo è che le interazioni pianta-microrganismi sono molto plastiche, pronte cioè a rispondere a tutta una serie di stimoli e variazioni ambientali. Questo dinamismo è dato dal fatto che le piante interagiscono con i microrganismi a più livelli, dall’apparato radicale fino alle parti aeree.

Ci sono studi che si sono occupati proprio di analizzare come variano le comunità microbiche del suolo e della pianta al variare delle condizioni e degli stimoli ambientali. Nel riso, ad esempio, il passaggio da una condizione di sommersione ad una parzialmente asciutta, comporta un cambiamento piuttosto repentino del microbiota della pianta. Microbiota che di fatto può esser utilizzato come marker ambientale per quanto riguarda l’analisi della variazione di alcuni fattori, ad esempio la disponibilità o meno di acqua.

Ma come è possibile fare uso di tutte queste informazioni? Una delle cose che possiamo fare è produrre le cosiddette comunità microbiche sintetiche, consorzi microbici sviluppati ad hoc per dar un miglior sostegno alla pianta. Chiaramente si tratta di un processo graduale , dove la progettazione de lo studio di questi consorzi inizia sempre in condizioni controllate di laboratorio.

Questo aspetto, da un lato, è di fondamentale importanza perché ci permette di ottenere un dato che sia sperimentalmente significativo. Dall’altro, invece, la creazione di questi consorzi sintetici può annullare quelle che sono le attività e le potenzialità dei singoli microrganismi. Gli effetti benefici di un singolo microrganismo, infatti, possono essere annullati o ridimensionati quando questo viene posto in un ambiente ricco di altri microrganismi con i quali entra in competizione.

Dal laboratorio al campo: quali le applicazioni pratiche di questi microrganismi per un’agricoltura sempre più sostenibile?

Una delle sfide ambientali alle quali dobbiamo far fronte è proprio il degrado dei suoli a causa delle pratiche di agricoltura intensiva. In tale contesto, l’utilizzo dei microrganismi è sicuramente una prospettiva molto interessante ed è già realtà in molti Paesi del mondo.

Si parla infatti della cosiddetta “Microbial Revolution” che vede, tra gli altri, anche l’impiego dei microrganismi per un’agricoltura sostenibile a basso impatto ambientale. Una pratica in uso da molto tempo anche nei paesi in via di sviluppo è l’applicazione degli inoculi microbici. In particolare, questi inoculi possono essere misti, formati cioè da un insieme di funghi micorrizici e batteri della Rizosfera.

Questi batteri promuovono la crescita delle piante in varie modalità e vengono identificati con il nome di “Plant Growth Promoting Rhizobacteria” (PGPR). I PGPR più comunemente usati appartengono ai generi Bacillus e Pseudomonas. Possiamo trovare anche batteri cruciali dal punto di vista ecologico, come i Rizobi, in grado di fissare l’azoto atmosferico (N2).

Quali sono, secondo lei, le prospettive di queste tecnologie?

Sono applicazioni molto interessanti che però rispondono sempre a specifiche esigenze di mercato. Molto spesso, purtroppo, la loro commercializzazione si basa su evidenze sperimentali deboli. Il controllo e la verifica dei risultati sul campo possono portare a dati discordanti dalle evidenze di laboratorio.

Ad esempio, l’inoculo non si è rivelato efficace in campo per via di una formulazione non corretta, oppure esso è stato applicato secondo procedure di impiego sbagliate. Può inoltre accadere che alcuni tra i microrganismi impiegati con la formulazione siano alieni, ossia provengano da ambienti molto diversi da quelli in cui sono effettivamente applicati. È chiaro che questo porta a tutta una serie di problematiche dal punto di vista della biodiversità locale, che oggi più che mai deve essere tutelata e rispettata.

Un’ulteriore via potrebbe essere quella di utilizzare le molecole segnale alle quali abbiamo fatto accenno in precedenza. Studi condotti dal mio collega presso l’Università di Torino, il Prof. Andrea Genre, hanno dimostrato la stimolazione della crescita delle piante a seguito della sola percezione delle molecole segnale rilasciate dai funghi micorrizici.

Detto ciò, sarebbe auspicabile per il futuro un maggior allineamento tra la ricerca scientifica condotta in laboratorio e l’effettiva applicazione sul campo da parte degli agricoltori. La strada è ancora lunga, ma data l’attuale sensibilità della politica ai temi del green e dell’ambiente, possiamo essere moderatamente ottimisti.

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