Come tutti gli altri organismi viventi, le piante hanno avuto una lunga storia nel corso della quale si sono evolute, cioè si sono adattate al mutare delle condizioni ambientali. Per far questo, hanno progressivamente abbandonato l’ambiente marino costiero nel quale sono nati la vita ed i primi organismi fotosintetici, fino a spingersi gradualmente fuori dalle acque aumentando la propria numerosità fino ad arrivare a rappresentare l’81,8% del peso della materia vivente sul pianeta a confronto dell’0,01% dell’uomo.
In questo articolo, primo di una serie di tre, parleremo della prima grande “migrazione delle piante”, ossia della conquista e della colonizzazione delle terre emerse grazie a particolari adattamenti biologici e fisiologici prodotti dall’evoluzione.
I cambiamenti strutturali ed organizzativi delle piante per la colonizzazione delle terre emerse
La comparsa dei primi organismi fotosintetici circa 3,5 miliardi di anni fa rivoluzionò completamente la storia biologica della Terra. Da 2,7 a 2,2 miliardi di anni fa l’ossigeno cominciò progressivamente ad aumentare e nel Cambriano (570- 510 milioni di anni fa) i suoi livelli cominciarono ad avvicinarsi a quelli attuali.
Questo incremento di ossigeno ha avuto due conseguenze molto importanti per il futuro sviluppo del mondo vegetale; primo, una parte delle molecole di ossigeno prodotte dalle alghe marine fotosintetizzanti comportò la saturazione delle acque e la liberazione di questo gas nell’atmosfera dove, nel suo strato più esterno, venne presto convertito in molecole di ozono (O3). Secondo, lo strato di ozono così formatosi consentì agli organismi viventi una sufficiente protezione dalla radiazione ultravioletta dei raggi solari (UV), molto dannosa sia per il DNA che per molti altri componenti cellulari.
L’anatomia della pianta può essere meglio compresa alla luce delle pressioni evolutive che hanno determinato il passaggio dall’acqua alle terre emerse. Ed è proprio l’acqua uno dei protagonisti indiscussi di questa lunga ed affascinante storia: in virtù dell’obbligato rifornimento idrico alla quale le piante dovevano far fronte per poter effettuare la fotosintesi, esse hanno evoluto una strategia in grado di consentirne un uso più efficiente e mirato, sviluppando strutture idonee a ridurne la perdita.
L’ambiente con il quale le prime piante fotosintetiche si trovarono ad interagire era un ambiente arido con scarse precipitazioni, mari poco profondi e continenti generalmente piatti. Gli studiosi fanno risalire la comparsa delle piante terrestri ad un periodo compreso tra i 480 ed i 360 milioni di anni fa, circa a metà dell’era Paleozoica.
Studi filogenetici favoriscono una origine singola delle piante terrestri che si sarebbero sviluppate dalle Charophyceae, una classe di alghe verdi pluricellulari, ramificate ed in grado di effettuare la fotosintesi. Le Charophyceae tuttora viventi posseggono diverse vie biosintetiche espresse appieno dalle piante terrestri, come la sintesi di cutina, una sostanza grassa che si deposita in molte pareti delle cellule vegetali e sulla superficie esterna delle pareti delle cellule epidermiche, nonché la biosintesi di molti composti fenolici coinvolti in importanti processi biochimici e fisiologici.
I capostipiti delle piante terrestri vivevano ancora parzialmente ricoperti dalle acque ed il progressivo spostamento verso l’interno e le zone limitrofe implicò sia la formazione di strutture ed organi deputati al sostegno e all’ancoraggio al suolo, quindi un fusto e un apparato radicale, sia la formazione di un sistema di tessuti specializzati nel trasporto di acqua, sali minerali e zuccheri alle varie parti della pianta, quindi vasi xilematici e floematici.
Ma non basta, per consentire una rapida ed efficiente diffusione su tutta la superficie terrestre, le piante non solo si dotarono di un sistema circolatorio e di tessuti di sostegno, ma anche di strutture deputate alla loro riproduzione sulla terraferma.
Le prime piante vascolari si riproducevano tramite spore e modificarono irreversibilmente l’ambiente terrestre
La transizione da un mezzo acquoso ad uno gassoso, espose le piante a nuove condizioni fisiche, che si tradussero in numerosi cambiamenti a livello strutturale e fisiologico.
La riproduzione nelle prime piante vascolari, cioè di piante composte di sistemi conduttori efficienti per il trasporto di acqua e di sostanze nutritive, si basava sul rilascio di spore da parte di strutture cave denominate sporangi, situate su di un rametto detto sporangioforo. La spora è una cellula riproduttiva, generalmente unicellulare, capace di svilupparsi in un individuo adulto senza fondersi con un’altra cellula.
I reperti fossili rinvenuti nel corso di numerose ricerche paleobotaniche, hanno offerto un’immagine verosimile di come doveva apparire il paesaggio tra i 408 ed i 374 milioni di anni fa durante il Devoniano: ad eccezione di qualche montagna, il mare ricopriva ancora la maggior parte delle terre emerse e le piccole piante afille, dalla struttura molto semplice, emergevano sporadicamente da qualche pozza di acqua vicino alla costa.
Durante il successivo periodo noto come Carbonifero (360-286 milioni di anni fa), comparvero piante vascolari con un’organizzazione sempre più complessa, tra le quali ricordiamo le prime foreste di Pteridofite, come gli equiseti e le felci, che vantavano un’altezza di ben oltre 10 metri. Accanto a queste, troviamo numerose altre specie, tra cui le licofite, piante scarsamente ramificate aventi un’altezza compresa tra i 10 e i 35 metri, e le Calamiti o equiseti giganti, anch’esse di proporzioni arboree, caratterizzate da una parte aerea ramificata e da un esteso sistema sotterraneo di rizomi.

La comparsa di questi nuovi ecosistemi comportò l’aumento nella concentrazione e nella complessità della biomassa terrestre, che si tradusse in un aumento progressivo della biodiversità in specie. L’avvento delle prime piante terrestri modificò irreversibilmente i flussi di energia e nutrienti attraverso gli ecosistemi terrestri e d’acqua dolce, influenzando conseguentemente anche la vita dei gruppi di animali che vivevano in questi habitat.
Il periodo del Carbonifero deve infatti il suo nome alla maggiore quantità di combustibile fossile prodotta; l’accumulo di materiale vegetale parzialmente decomposto è noto come torba, e la sua formazione è dovuta all’interramento di organismi nei sedimenti o nei fanghi in condizioni di anossia. Mano a mano che la torba viene riempita da rocce sedimentarie e sottoposta a pressioni elevate, essa può essere compressa e trasformata così in carbone. Le condizioni climatiche erano infatti favorevoli alla crescita delle piante durante tutto l’anno, in virtù di un clima tropicale o subtropicale, con l’Equatore allora all’altezza dei Monti Appalachi.
In particolare, gli studiosi hanno precisato che una delle principali conseguenze dello sviluppo delle piante terrestri è stata una profonda alterazione nella pedogenesi, ossia nell’origine e nella strutturazione del suolo. L’evoluzione e lo sviluppo delle radici portò ad un aumento della massa radicale, contribuendo ad una riduzione significativa nella concentrazione della CO2 atmosferica.
Il rilascio di essudati radicali dalle punte estreme delle radici ha così alterato gli equilibri chimici e la struttura del suolo, attraverso:
- un aumento della pCO2 per ossidazione della materia organica;
- l’estrazione di nutrienti e sali minerali;
- la disintegrazione dell’ambiente fisico attraverso la crescita delle radici;
- un’alterazione nel rapporto dei minerali silicati Ca-Mg per acidificazione del terreno
L’evoluzione del seme: nutrimento e protezione in un clima che cambia
Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, le prime capostipiti delle piante terrestri sono organismi ben adattati a climi caldo-umidi, con una struttura ed un’organizzazione interna tutto sommato semplice, e che si affidano al rilascio di spore per la loro riproduzione.
Ma quando si parla di clima la variabilità non è che la regola e la stabilità un’eccezione! La storia della Terra è stata, ed è tuttora caratterizzata, da molteplici e frequenti cambiamenti nelle condizioni climatiche prevalenti, e quella che interessò il nostro pianeta durante la transizione Carbonifero/Permiano fu fondamentale per lo sviluppo dell’altro grande protagonista della nostra storia, ossia il seme.
Per semplicità, definiamo qui il seme come l’organo contenente l’embrione derivante dalla divisione della cellula uovo fecondata, arricchito da tessuti contenenti sostanze di riserva necessarie durante le prime fasi della germinazione, e delimitato da uno o più tegumenti per una migliore protezione.
Il passaggio evolutivo da una riproduzione asessuata ad una sessuata affidata alla diffusione dei semi, comportò notevoli vantaggi per gli organismi vegetali, dal momento che la progenie si origina da due individui geneticamente differenti tramite la fusione dei loro gameti, generando così una progenie con un nuovo patrimonio genetico diverso da quello dei genitori.
Non solo, per potersi diffondere e germinare le spore richiedevano necessariamente un ambiente ricco di acqua, mentre nell’embrione sono presenti meccanismi capaci di percepire le condizioni favorevoli alla germinazione e di prevedere la futura situazione ambientale. Tutte queste caratteristiche risultarono fondamentali quando il clima cambiò bruscamente da caldo umido ad asciutto e variabile.
Nuovi fossili rinvenuti in un sito del Nuovo Messico, sintetizzano l’antica lotta tra spore e semi e la possibile origine di quest’ultimi. Secondo le teorie più recenti, sarebbero stati proprio gli ambienti palustri ad aver dato origine alle prime piante a semi.

Il numero dei semi antichi rinvenuti dai ricercatori aumentava progressivamente mano a mano che ci si spostava dalle pianure, ricche di carbon fossile, agli altopiani ed alle zone più elevate del versante. Resti di conifere e altre gimnosperme sono stati rinvenuti sulle montagne, dove un ambiente asciutto e diviso in stagioni si rivelò l’ideale per la colonizzazione di ampie porzioni di habitat libero. Secondo la ricostruzione degli studiosi, i semi fecero la loro comparsa verso la fine del Carbonifero, per poi dominare l’ambiente terrestre dal Permiano e per tutta l’era Mesozoica diffondendosi e moltiplicandosi in forme diverse.
I primi semi delle gimnosperme, come le conifere o le Cicadacee , sono anche detti “semi nudi”, dal momento che non sono racchiusi in un ovario; fu solo all’inizio del Cretaceo, e cioè dopo oltre 160 milioni di anni, che le piante cominciarono ad avvolgere i loro semi piegando le foglie sottostanti per racchiudere l’ovulo in via di sviluppo. Questo involucro è detto carpello, che darà poi origine al frutto, e tutte le piante che ne posseggono uno fanno parte delle angiosperme. Una volta comparse, esse si diffusero così velocemente da costituire oggi la stragrande maggioranza della vita vegetale.
Conclusioni
In questo primo articolo abbiamo approfondito quali sono stati i momenti ed i passaggi fondamentali che hanno caratterizzato la prima grande “migrazione” del mondo vegetale: la conquista delle terre emerse e la colonizzazione di nuovi habitat.
Se l’acqua è stato il primo mezzo di diffusione del quale le piante si sono servite per spostarsi e riprodursi, è vero anche che è stato il primo fattore limitante a condizionarne l’organizzazione corporea e le strategie riproduttive.
Nel prossimo articolo parleremo degli altri “mezzi di trasporto” prediletti dagli organismi vegetali, ossia vento, acqua ed animali, e di come l’evoluzione e l’espansione della vegetazione abbiano creato in parallelo le condizioni per la nascita e la speciazione di molti generi animali.
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