La scienza necessita di costante formazione, metodi e formule ma arriva un momento in cui i geni vanno oltre. Sgretolano le basi, ne costruiscono di nuove e, se tutto va bene, toccano l’apice del successo, ricevendo anche un prestigioso riconoscimento. Questa è la storia del Ph.D. e Dr. Kary Mullis, uno scienziato americano di fama internazionale, un uomo figlio dei suoi tempi (forse anomalo per alcune sue posizioni) e padre della PCR (“Polymerase Chain Reaction”, in italiano “reazione a catena della polimerasi”), per la quale nel 1993 ha vinto il premio Nobel. Classe ’44, già da piccolo aveva mostrato spiccato interesse per la chimica e da adulto gli risultò abbastanza naturale scegliere gli studi scientifici. Si iscrisse al Georgia Institute of Technology, conseguì un Ph.D in biochimica all’Università della California, a Berkeley, e ricoprì due posizioni da Post Doc. Dal 1979 (per circa sette anni), però, iniziò a lavorare in un’azienda biotecnologica, la Cetus Corporation in Emeryville, California, in qualità di “DNA chemist”.
La scoperta
Era la primavera del 1983. Fino a quel momento, erano impiegati enzimi di restrizione e sonde oligonucleotidiche, corte catene di basi nucleotidiche leganti una specifica sequenza del DNA, riconoscendola di conseguenza. Mullis era il chimico responsabile per la sintesi di quest’ultime. Avendo molto tempo libero in laboratorio (le macchine producevano più del previsto), si trovò a pasticciare con questi elementi per escogitare qualcosa che aiutasse a identificare quel nucleotide in una determinata posizione sul doppio filamento della vita.
Aveva finito di lavorare e il weekend era alle porte. “Una sera in auto, al chiaro di luna, tra le montagne della California”, ebbe l’idea geniale: creare numerosissime copie a partire da una molecola di DNA mediante l’impiego di sonde, “in un modo sorprendentemente semplice”. Il materiale per realizzarlo era già disponibile all’epoca, compresa la polimerasi: sembrava tutto perfetto. Lui stesso confessò in un articolo: «Talvolta le buone idee vengono proprio quando non le si cerca. […] Non riuscii quasi a dormire quella notte, con le bombe «desossiribonucleari» che mi esplodevano nel cervello.»
Quando tornò in azienda, fece le sue ricerche. Mai fu documentata nella letteratura scientifica una tecnica simile. Parlò con moltissime persone fra medici e biologi che lo scoraggiavano: «Nessuno vuole che un chimico arrivi e inizi a cambiare le cose» (“Kary Mullis, su quello che fanno gli scienziati” TED talk). Ma lui era convinto e non voleva abbandonare quest’idea per niente al mondo. Contro tutti e tutto, sfidò scienziati autorevoli e divenne per se stesso “l’autorità”. Nacque così la PCR, Polymerase Chain Reaction, quel procedimento che rivoluzionò il futuro della biologia molecolare.
La reazione
Nonostante la tecnica sia migliorata negli anni, l’obiettivo è rimasto sempre quello di riconoscere quel tratto di DNA, seppur complesso, e averne migliaia di copie. Nel gergo scientifico, il meccanismo è noto come “amplificazione esponenziale del DNA” e i prodotti (le numerose copie di prima) sono gli ampliconi.
In realtà, la miscela di reazione è data da molti elementi. Oltre al DNA target, il tratto da “copiare”, devono esserci: la Taq polimerasi, enzima isolato dal batterio termofilo Thermus aquaticus, i quattro deossinucleotidi trifosfato (dATP, dTTP, dCTP, dGTP ovvero “l’alfabeto del DNA”), due primer (gli “inneschi” dai quali la polimerasi inizia la reazione di polimerizzazione), KCl, MgCl2 e il TrisHCl (soluzione tampone), a concentrazioni note. Gli ultimi aiutano l’attività enzimatica.
L’esperimento è suddiviso in tre fasi:
- Denaturazione (1): consiste nella separazione dei due filamenti del DNA (struttura a doppia
elica) ad una temperatura di 94°-95°C per 30 secondi.
- Appaiamento/Annealing (2): i primer sono sequenze oligonucleotidiche di lunghezza definita (non creano strutture secondarie tra loro). Hanno la funzione di riconoscere il sito specifico del DNA originale per la quale sono stati costruiti, appaiandosi (DNA:DNA). In questo caso, la temperatura può variare tra i 40° e 60°C poiché dipende dalla quantità di guanine (G) e citosine (C) – siccome serve più energia per rompere i loro legami idrogeno – presenti nella doppia elica (temperatura di melting) e dalla lunghezza.
- Allungamento (3): Entra in gioco la Taq polimerasi, il “playmaker” della reazione. Si tratta di un catalizzatore resistente, capace di lavorare ad alte e oscillanti temperature, e quindi termostabile. In questo ultimo step, infatti, è innalzata a 72°C. L’enzima sintetizzerà un neofilamento, complementare a quello usato come stampo, dal primer in poi, aggiungendo i deossinucleotidi trifosfato. Inizia così la reazione a catena della polimerasi.
Finito il primo ciclo, avremo due ampliconi, cioè due molecole composte ciascuna da un filamento dello stampo originario e da un nuovo filamento. L’aumento della temperatura a 94°C innesca la reazione per una seconda volta ripartendo dalla denaturazione.
Quando invece termina l’intero processo, otterremo molti frammenti piccoli e pochi di grandi dimensioni. In formula, possiamo rappresentare come 2n, dove “2” sta per il numero dei filamenti di partenza ed “n”, invece, il numero dei cicli eseguiti. Il risultato dell’espressione matematica è la quantità di ampliconi finale. Ad ogni modo, per evitare errori di replicazione, si eseguono massimo 25-30 cicli di PCR.
30 Anni dopo: applicazioni
Oggi, trova numerosi impieghi: dalle scienze forensi alla genetica medica, dalla microbiologia medica alle biotecnologie agrarie, abbracciando differenti campi di lavoro. Allo stesso modo, sono state sviluppati diversi tipi di PCR, come la real time PCR, adoperata sia nella diagnostica e sia nella ricerca.
È innegabile che Mullis, grazie alla sua tenacia, abbia rivoluzionato la biologia molecolare. Nonostante siano passati 35 anni, infatti, resta una tecnica “sempreverde” e di fondamentale importanza nei laboratori di tutto il mondo.
“Audentes fortuna iuvat”, tradotto “la fortuna aiuta gli audaci”!
Bibliografia
- Kary Mullis – Biography
- “La scoperta della reazione a catena della polimerasi”, Le scienze, n°262, giugno 1990