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Immunoterapia

Il Premio Nobel per la Medicina 2018 è stato assegnato a James Allison (capo del dipartimento di immunologia dell’Anderson Cancer Center di Houston) e a Tasuku Honjo (responsabile del dipartimento di immunologia e medicina genomica all’Università di Kyoto) «per la loro scoperta della terapia del cancro mediante l’inibizione della regolazione immunitaria negativa». Il prestigioso riconoscimento è più che meritato: le loro ricerche hanno spianato la strada all’immunoterapia contro il cancro che sta rivoluzionando la pratica clinica grazie ai cosiddetti “inibitori dei checkpoint immunitari”. Ma come funziona esattamente?

Cenni storici

Il legame tra sistema immunitario e cancro esiste ed è noto da tempo. Nei pazienti immunodepressi, con un sistema immunitario compromesso, il rischio di ammalarsi di tumore è maggiore che nei soggetti sani. Da qui l’intuizione che un sistema immunitario in salute rappresenti un prezioso baluardo contro il cancro. Esistono poi casi documentati che risalgono fino all’antico Egitto di tumori maligni regrediti o scomparsi spontaneamente dopo un’infezione con febbre. Un sistema immunitario opportunamente stimolato fa esattamente quello per cui è stato programmato: difendere l’organismo da qualunque minaccia, sia esterna che…interna. Insomma, per gli scienziati è stato facile fare due più due.

Nel 1891 un chirurgo americano di nome William Coley, sulla base di osservazioni precedenti,  infettò pazienti affetti da tumori inoperabili con il batterio Streptococcus pyogenes, l’agente eziologico dell’eripisela (un’infezione acuta della pelle), e riportò una percentuale significativa di regressioni o guarigioni. Coley è considerato il “padre” dell’immunoterapia, ma il suo metodo, dopo l’iniziale successo, non fu mai veramente utilizzato. Benché il batterio fosse reso innocuo con il calore, la procedura non era esattamente ortodossa ed i risultati non del tutto riproducibili. Si preferì quindi puntare sulle emergenti e più sicure chemioterapia e radioterapia. Ma il principio di Coley non era sbagliato e fu ripreso nel 1976 stabilendo l’uso del bacillo di Calmette-Guerìn per la cura del cancro alla vescica. In entrambi i casi, la terapia aveva stimolato il sistema immunitario dei pazienti che poi aveva annientato il cancro.

Guardiani dell’organismo

Ma era solo l’inizio. Nei confronti dell’immunoterapia la comunità scientifica ha cambiato spesso atteggiamento. Inizialmente, a dominare era lo scetticismo: era ritenuto poco probabile che il sistema immunitario potesse distinguere le cellule tumorali da quelle sane. Mentre i batteri o i virus si riconoscono a colpo d’occhio, le cellule tumorali sono praticamente identiche a quelle sane se non per “minuscoli” particolari. È un nemico che viene dall’interno: le nostre più piccole componenti casualmente iniziano a ribellarsi contro l’ordine imposto dall’organismo. Ma di fronte alle crescenti dimostrazioni sperimentali, sia in animali da laboratorio che nell’uomo, verso la metà degli anni ’80 anche i più scettici sono stati costretti a ricredersi.

Le cellule immunitarie operano la cosiddetta “immuno-sorveglianza”. Riconoscono e distruggono le cellule maligne negli stadi più precoci, prima ancora che la malattia si manifesti clinicamente. Il sistema immunitario ci difende quotidianamente dal rischio di cancro, connaturato nella nostra natura di esseri multicellulari: presiede alle corrette funzioni cellulari ed elimina anomalie insorgenti di natura neoplastica.

immunoterapia linfocita T
Fig.1 Linfocita T che attacca una cellula tumorale

Togliere i “freni” al sistema immunitario

Meno facile è stato capire perché questo sistema di difesa non funziona nel 100% dei casi. Le persone immunocompetenti si ammalano comunque di tumore: cosa succede al loro sistema immunitario? Chiaramente, da solo non riesce a contrastare la malattia: e se gli dessimo una “spinta”?

Per prosperare nell’organismo, il tumore ha bisogno di nascondersi dal sistema immunitario. Tra le sue strategie, forse la più subdola è quella di ingaggiare meccanismi di regolazione intrinsechi della risposta immunitaria. Il nostro corpo possiede interruttori naturali per spegnerla, quando necessario: come noi installiamo i freni sulle nostre automobili per ragioni di sicurezza, così anche il sistema immunitario ha bisogno spesso di “frenarsi”, perché una risposta smisurata e fuori controllo potrebbe danneggiare anche i tessuti sani. Il tumore si insinua in questo meccanismo, spingendo i freni delle cellule immunitarie al posto nostro, che quindi rimangono bloccate e non possono più contrastare la malattia. Il compito di medici e ricercatori è stato quindi quello di studiare come “togliere” questi freni.

I bersagli dell’immunoterapia: PD1 e CTLA4

Tra i freni conosciuti, chiamati anche checkpoint immunitari, quelli più famosi si chiamano PD1 (programmed death 1) e CTLA4 (cytotoxic T-lymphocyte–associated antigen 4). PD1 è presente sulle cellule immunitarie chiamate linfociti: quando si lega a una molecola chiamata PDL1, espressa di frequente sulla superficie delle cellule tumorali, la proliferazione dei linfociti e la produzione di citochine si riducono. CTLA4 funziona in modo simile, ma i suoi ligandi si chiamano CD80 e CD86. CTLA4 blocca le cellule T nei primi stadi di attivazione, quando ancora sono nei linfonodi. PD1, al contrario, regola i linfociti T precedentemente attivati nelle fasi finali della risposta immunitaria, nei tessuti periferici.

Oggi, contro i checkpoint immunitari, grazie anche gli studi dei due scienziati vincitori del Nobel, esistono proiettili specializzati, in grado di riconoscerli tra milioni di altre molecole. Sono gli anticorpi monoclonali, commercializzati con il nome di Nivolumab e Pembrolizumab (entrambi iniitori di PD1) e Ipilimumab (inibitore di CTLA4). La loro funzione è quella di legarsi alle molecole bersaglio, impedendo la loro interazione con i ligandi naturali. Così riusciamo a togliere i freni alle cellule immunitarie che ritornano attive contro il tumore.

immunoterapia anti-pd1
Fig.2 L’anticorpo anti-PD-1 (o anti-PD-L1) blocca l’interazione inibitoria tra linfocita T e cellule tumorali

Non solo inibitori dei checkpoint…

Gli inibitori dei checkpoint immunitari sono gli immunoterapici più famosi e già utilizzati in clinica, con buoni risultati su melanoma, tumore al polmone e al rene. Ma ogni giorno scopriamo qualcosa di più sull’interazione tra tumore e sistema immunitario. Le moderne tecnologie ci consentono di identificare le proteine specifiche del tumore per realizzare vaccini personalizzati; siamo in grado di isolare le cellule immunitarie del paziente, modificarle con le tecniche di ingegneria genetica per renderle ancora più forti e capaci di riconoscere il tumore; e ancora, possiamo somministrare citochine, i messaggeri chimici del sistema immunitario, per potenziare la risposta.

Le linee di ricerca e le possibilità di azione in questo campo sono veramente moltissime. Non è facile e la maggior parte delle terapie è ancora in una fase preliminare o efficaci solo su una minoranza dei pazienti. Ma a soli pochi anni dalla sua scoperta, l’immunoterapia è stata capace di rivoluzionare il nostro modo di affrontare il cancro e di apportare benefici concreti a molti pazienti. Questo non può che renderci ottimisti per il prossimo futuro.

Bibliografia

  • Elizabeth I. Buchbinder  and Anupam DesaiCTLA-4 and PD-1 Pathways. Similarities, Differences, and Implications of Their Inhibition. Am J Clin Oncol. 2016 Feb; 39(1): 98–106.
  • Cancer immunotherapy: a brief review of the history, possibilities, and challenges ahead. J Cancer Metastasis Treat 2017;3:250-61.
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