Nonostante i progressi in campo tecnologico, la comunità scientifica continua a sostenere risolutamente la necessità della sperimentazione animale per lo studio e la comprensione di numerosi meccanismi fisiologici e patologici. Prima di somministrare una qualunque terapia sull’uomo, è necessario non solo accertarne la non tossicità, ma anche rispondere a una serie di domande di carattere tecnico.
- Qual è la probabilità che il paziente risponda alla terapia?
- E’ preferibile somministrare un solo tipo di farmaco o una combinazione di più?
- Con quali tempistiche?
In campo oncologico, ad esempio, la messa a punto di soluzioni terapeutiche sempre più mirate e interessanti è vincolata a una serie di parametri, incluse le caratteristiche molecolari del tumore e la sua interazione con il microambiente circostante, pressoché impossibili da riprodurre in vitro. Ecco perché attualmente la ricerca in vivo, principalmente sui topi, costituisce il sistema più “informativo” per testare la validità delle terapie oncologiche.
Se è vero che dalla sperimentazione animale si ottengono dati preziosi, altrettanto lo è che il passaggio alla clinica, e quindi all’uomo, è spesso piuttosto macchinoso. Nonostante le similitudini tra i due, infatti, un tumore murino non si comporta esattamente allo stesso modo di un tumore umano ed è praticamente impossibile ricreare nel topo lo stesso micro-ambiente, le stesse interazioni e complessità che caratterizzano l’uomo.
Allo scopo di curare i tumori dei pazienti, e non dei topi, si utilizzano da anni modelli murini geneticamente modificati in modo da silenziare il loro sistema immunitario. Le moderne tecnologie di manipolazione genetica permettono infatti di “spegnere” uno o più geni essenziali per la maturazione delle cellule immunitarie, generando topi parzialmente o completamente immunodeficienti e rendendo quindi possibile il trapianto di tumori umani; la presenza di un sistema immunitario funzionante, infatti, riconoscerebbe le cellule tumorali umane come estranee, causandone il rigetto. Questo metodo ha permesso di testare numerosi farmaci anticancro, principalmente chemioterapici e similari, direttamente sui tumori dei pazienti compiendo un grosso passo avanti verso la clinica.
I “vecchi” modelli rischiano però di non essere all’altezza delle terapie oncologiche di ultima generazione. Tra queste, i cosiddetti immunomodulatori hanno conquistato un posto di tutto rispetto nel mercato dei farmaci anti-cancro, con investimenti importanti da parte delle grandi case farmaceutiche.
Come suggerisce il nome, questi farmaci interagiscono con il sistema immunitario: è stato infatti dimostrato che sin dalle prime fasi della tumorigenesi, le cellule immunitarie si comportano come “guardiani”, distruggendo le cellule mutate e potenzialmente cancerose; una parte possono però sfuggire a queste zelanti sentinelle, secernendo fattori soppressori della risposta immunitaria. Gli immunomodulatori agiscono “risvegliando” le difese immunitarie contro le cellule tumorali.
Un meccanismo così complesso è impossibile da studiare in vitro, ma anche nei classici modelli immunodeficienti, per una ovvia ragione: mancando di un sistema immunitario funzionante, non ci permetterebbero di caratterizzare l’interazione tra quest’ultimo, il farmaco e il tumore. A prescindere dagli immunomodulatori, il ruolo del sistema immunitario anche solo nella patogenesi del tumore si sta confermando di un’importanza cruciale: pare proprio che non possiamo più permetterci di ignorare il suo contributo!
E’ in questo contesto che si inseriscono i modelli “immuno-avatar”. La domanda alla quale si vuole rispondere è se sia possibile generare un modello murino ottimale per testare l’azione di farmaci immunoterapici in vivo, su tumori umani. Con il crescente uso di internet il significato del termine “avatar” come rappresentazione virtuale di un personaggio reale è entrato nel bagaglio culturale di grandi e piccini, e ancora di più dopo il successo dell’omonimo film diretto da James Cameron. Ma prima di immaginare strani topolini blu che scorrazzano nei laboratori, chiariamo a cosa si riferisce questo termine in campo bio-medico.
Per immuno-avatar si intende un topo ripopolato con il sistema immunitario del paziente, ovviando così a quella grande mancanza che rende i modelli classici totalmente inadeguati allo studio delle immunoterapie. Il modello di partenza è sempre un topo immunodeficiente, nel quale vengono trapiantati non solo il tumore, ma anche le cellule immunitarie del paziente umano isolate dal suo sangue periferico, che vanno a sostituire quelle murine precedentemente silenziate: si ottiene così un topo “umanizzato”, una rappresentazione immunologica del paziente. Nell’immuno-avatar i due attori principali, il tumore e il sistema immunitario ricostituito, possono interagire tra loro e con i farmaci somministrati, riproducendo più o meno fedelmente quello che vedremmo nel paziente.
Gli studi sono ancora in corso ma hanno dimostrato la fattibilità di questa strategia. Un gruppo di ricercatori spagnoli è riuscito a contrastare la crescita del carcinoma gastrico di un paziente somministrando una combinazione di immunomodulatori in un topo immuno-avatar, ripopolato con il sistema immunitario dello stesso paziente. Le potenziali applicazioni sono molteplici, specialmente nel contesto di una medicina sempre più di precisione e personalizzata. Con la realizzazione di immuno-avatar paziente-specifici si potrebbe testare la validità e la sicurezza dei farmaci immunoterapici prima della somministrazione nell’uomo. Eseguire questi test, permetterebbe ai medici di predire la reazione del paziente al farmaco in una maniera più completa, che tenga conto di di-verse variabili e soprattutto del fondamentale contributo del sistema immunitario, limitando i danni collaterali e individuando per ciascuno una terapia “su misura”.
Ma gli ostacoli da superare nella realtà sono ancora molti. Ad esempio, dopo poche settimane gli immuno-avatar si ammalano della cosiddetta “malattia da trapianto contro l’ospite”, causata dalla non compatibilità tra le cellule immunitarie umane inoculate e quelle proprie del topo e dall’esito mortale. Si sta però già studiando una strategia per ridurre o quantomeno contrastare l’insorgenza di questa malattia, che potrebbe essere mediata da cellule specifiche del sistema immunitario, i linfociti T-helper.
A prescindere dalle applicazioni future, è innegabile che l’avvento delle immunoterapie ha richiesto un cambio di prospettiva importante nell’utilizzo dei modelli animali per la ricerca biomedica. Non è più solo il tumore, ma anche e soprattutto la sua interazione con l’organismo ospite, ed in particolare col suo sistema immunitario, ad essere presa in considerazione: questo ha gettato le basi per una migliore comprensione dell’oncogenesi e per trattamenti sempre più di precisione.
Fonti
- Sanmamed, M.F., Chester, C., Melero, I., and Kohrt, H. (2016). Defining the optimal murine models to investigate immune checkpoint blockers and their combination with other immnotherapies. Ann. Onc. 00, 1-9.
- Sanmaned, M.F. et al. (2015). Nivolumab and urelumab enhance antitumor activity of human T lymphocytes engrafted in Rag2-/-IL2Rγnull immunodeficient mice. Cancer Res. 75, 3466-78.