Circa 900. È questo il numero di specie animali e vegetali scomparse per sempre dalla superficie del nostro pianeta dal 1500 a oggi. Attualmente, il 26% dei mammiferi e il 14% degli uccelli è considerato a rischio di estinzione. La continua espansione delle attività umane non fa che peggiorare la situazione, portando un numero crescente di specie sull’orlo della scomparsa. Come se non bastasse, parliamo di un quadro piuttosto ottimistico, che potrebbe nascondere una situazione reale anche peggiore. Per molte specie mancano i dati di popolazione che permettano di valutare il loro stato di conservazione e il rischio di estinzione nei prossimi decenni. Una di queste è il Gatto di Pallas (Otocolobus manul), un piccolo felino divenuto famoso nel mondo dei social grazie alle sue buffe espressioni. Abbiamo intervistato Claudio Augugliaro, che guida un team di ricercatori italiani impegnati nel monitoraggio della specie nelle steppe asiatiche.
Claudio Augugliaro, laureato in ecologia e biogeografia all’università di Palermo, ha conseguito un master sulle convenzioni internazionali che regolano il commercio di specie selvatiche e attualmente sta ultimando il proprio dottorato sul leopardo delle nevi (Panthera uncia). Vive in Mongolia, dove si occupa di ricerca e conservazione coordinando diversi progetti sia sul leopardo delle nevi, sia sul gatto di Pallas. È il fondatore di Wildlife Initiative, organizzazione no profit dedicata alla ricerca e alla conservazione della fauna selvatica in diverse aree del mondo.
Cosa ha portato dei ricercatori italiani in Mongolia e qual è lo stato delle popolazioni di gatto di Pallas nella zona?
Vivo in Mongolia ormai da diversi anni e sono affascinato dalla bellezza della natura di questo paese. Per il gatto di Pallas, tutto iniziò quando piazzai alcune fototrappole nella steppa per osservare gli animali, più per divertimento che a fini di ricerca. Solo in seguito decisi di impegnarmi in un monitoraggio serio della specie, vista la totale carenza di dati di popolazione sul gatto di Pallas. Il problema era però la mancanza di fondi, e decisi di tentare di autofinanziarmi attraverso l’ecoturismo.
Iniziai a organizzare tour per portare piccoli gruppi di studenti e appassionati alla scoperta della steppa mongola ma anche per insegnare loro come si conduce un progetto simile in un’area remota e priva di comfort. Grazie all’ecoturismo sono riuscito a raccogliere i fondi necessari a uno studio ben strutturato. Ho contattato altri ricercatori che avevano partecipato alle nostre spedizioni ecoturistiche e alcuni dei maggiori esperti di fototrappolaggio, di piccoli felini e di gatto di Pallas. Ne è nato un gruppo di ricerca internazionale, ma a guida italiana. Dopo diversi mesi di campionamenti tramite fototrappole siamo riusciti a stimare per la prima volta la numerosità di una popolazione del gatto di Pallas in Mongolia.
Abbiamo stimato una densità di circa 15 gatti per 100 km2, un valore abbastanza buono per la popolazione oggetto del nostro studio. Come è ovvio, però, un solo studio non basta a definire lo stato della specie nel paese né tantomeno a livello globale. A oggi, infatti, non si hanno altre stime e per organizzare delle azioni di conservazione fondate su evidenze solide abbiamo bisogno di numerosi altri studi come il nostro. Solo realizzando campionamenti anche in altre aree e ripetendoli su più anni potremmo avere un’idea dello stato delle popolazioni del gatto di Pallas e verificare quali azioni mettere in atto per tutelare la specie da eventuali minacce. Ad esempio, stiamo studiando anche l’interazione tra il gatto di Pallas, gli altri carnivori e le varie prede.
Quali sono le principali minacce per il gatto di Pallas?
In generale la situazione non è preoccupante in Mongolia. L’habitat è infatti piuttosto integro, essendo il paese quasi totalmente privo di infrastrutture. Al di fuori della capitale Ulan Bataar e di pochi altri centri non esistono strade asfaltate e nei villaggi mancano reti fognarie, acqua corrente ed energia elettrica. Anche la persecuzione diretta da parte dell’uomo incide solo marginalmente. Non si tratta di una specie cacciata regolarmente, fatta eccezione per alcuni abbattimenti legati all’utilizzo del grasso dell’animale nella medicina tradizionale. Esiste anche una caccia finalizzata alla produzione di cappelli di pelliccia, limitata però soltanto ad alcune aree del paese.
Il quadro è più complesso se si considerano effetti indiretti delle attività antropiche, come ad esempio il fenomeno del sovrasfruttamento dei pascoli. In Mongolia il mercato del cashmere è un settore economico centrale, e negli ultimi anni si è avuto un enorme incremento nei capi allevati. Questo ha causato un importante sfruttamento di alcune aree di pascolo, che può causare un generale impoverimento dell’ambiente. Ciò scatena a sua volta delle dinamiche ecologiche difficili da prevedere, con effetti negativi su diverse specie animali.
Tuttavia, l’attività più impattante è probabilmente l’ecoturismo, spesso effettuato in mancanza del rispetto per il benessere animale. Capita infatti che alcuni locali, stimolati dal possibile guadagno, organizzino spedizioni turistiche che non tengono in considerazione le esigenze della specie. Quando questo capita, diventano una fonte di disturbo importante: in una zona nel centro della Mongolia il turismo fotografico è arrivato a causare l’estinzione locale di una popolazione di gatto di Pallas.
Come si rende l’ecoturismo una risorsa per la conservazione e non una fonte di disturbo per gli animali?
L’ecoturismo è essenzialmente una forma di turismo incentrata sulla visita di aree naturali e sull’osservazione delle specie che le abitano. Nasce quindi come attività sostenibile, volta ad incentivare la tutela del patrimonio naturale. Se organizzato con criterio, può essere una risorsa importante per la conservazione che non arreca disturbo agli animali. Purtroppo, però, assisto spesso a esempi di ecoturismo finalizzato solo al guadagno economico e che non tiene conto delle esigenze della specie. In alcune zone si permette ai turisti di fotografare le femmine di Manul con i piccoli nei pressi delle loro tane, con i gruppi di turisti che si susseguono senza tregua per tutto il periodo di cura della prole, fino allo svezzamento. Un’attività di questo tipo ha un impatto importante sia sulla madre che sui piccoli e può causare un abbandono della zona da parte degli animali con conseguente frammentazione della popolazione su più ampia scala.
L’ecoturismo che noi organizziamo è invece un turismo molto più di nicchia, fondato sul rispetto per la specie e che permette di contribuire attivamente alle attività di ricerca. Ospitiamo soltanto gruppi di 4 o 6 persone e solo in determinati periodi dell’anno. Chi partecipa alle nostre spedizioni è immerso nel lavoro di campo e fa il ricercatore partecipando attivamente alle attività di monitoraggio al nostro fianco. Coinvolgiamo il “turista” nel controllo delle fototrappole e nella vita della steppa in compagnia dei pastori nomadi. È un modo di procedere totalmente diverso dal turismo in altre zone, in cui gli animali sono seguiti e disturbati costantemente.
Ecoturismo, ricerca e conservazione vengono meglio se fatti assieme alle comunità locali?
Un buon rapporto con le popolazioni locali e il loro coinvolgimento nei progetti, quando possibile, sono fondamentali per l’efficacia delle azioni di conservazione. Non solo, coinvolgere le comunità del posto può aiutare nella fase di ricerca e di monitoraggio. Occorre, però, sapersi rapportare in modo giusto con le persone con cui si viene a contatto. La steppa è abitata principalmente da pastori, che inizialmente si mostravano piuttosto diffidenti, non comprendendo la ragione dei nostri studi. Nella loro visione un animale selvatico è semplicemente una risorsa da cui possono essere ottenute della carne e delle pelli. Queste piccole comunità di allevatori considerano le specie selvatiche e domestiche al pari della propria. Tutte hanno diritto di sfruttare le risorse ambientali. Il problema sorge quando tale sfruttamento diventa insostenibile ed è qui che con la nostra consapevolezza di ricercatori e conservazionisti bisogna intervenire.
Senza far nulla per favorire una comunicazione e un coinvolgimento, rischiamo di essere visti come invasori e di non ottenere nessun tipo di collaborazione. Se, invece, cerchiamo il dialogo, ci sediamo nelle loro tende (ger) e spieghiamo loro il nostro scopo, possiamo divenire dei loro ospiti. Quando riusciamo anche a coinvolgerli attivamente, veniamo visti come dei benefattori.
Per il monitoraggio del gatto di Pallas abbiamo coinvolto nelle operazioni di raccolta dati tutte le nove famiglie di pastori che vivono nell’area di studio. In cambio abbiamo fornito loro un compenso in denaro; un milione e mezzo di tugrik all’anno (circa 440 euro), equivale al guadagno minimo che si può ottenere annualmente dal commercio del cashmere. Per noi può essere una cifra tutto sommato limitata, ma per loro può fare la differenza. Se si coinvolgono i locali in iniziative come questa, loro collaboreranno anche nelle azioni di tutela vere e proprie, come limitare il pascolo a certe ore della giornata o a determinate zone.
La minor popolarità di alcune specie rispetto ai felini più grandi e conosciuti influisce in qualche modo sull’impegno per la loro conservazione?
Sì, sicuramente un’influenza è presente. Si stanziano molti più fondi per la conservazione dei grandi felini più carismatici, ma è anche giusto considerando il loro stato attuale. Essendo predatori più grandi hanno territori di caccia più ampi, quindi questi animali subiscono maggiormente gli effetti della frammentazione e degradazione dei loro habitat, e spesso i progetti di tutela sono molto dispendiosi.
Per i piccoli felini sono stanziati in genere meno fondi, tuttavia il problema più che la quantità di risorse è la loro gestione. Spesso vengono finanziati progetti che non portano nè ad azioni concrete sul campo, né a pubblicazioni scientifiche che possano attestare i risultati di una ricerca nell’ambito del monitoraggio e delle stime di popolazione. Ciò avviene perché di solito chi assegna i fondi e revisiona i progetti da sostenere non è un esperto del settore e non ha quindi la capacità critica per valutarne correttamente la validità.
In Mongolia esistono diversi progetti di conservazione che si rivelano purtroppo fittizi. Alcune organizzazioni ottengono fondi per azioni di monitoraggio o di tutela, ma poi non portano avanti alcuna ricerca concreta e non implementano azioni per salvaguardare la specie. Spesso si tratta di locali, ben visti dal panorama internazionale che ne favorisce il finanziamento, ma solitamente privi di competenze adatte. Il risultato è la presenza di diverse organizzazioni nel paese finanziate da fondi esteri, ma dedite più allo sfruttamento turistico spesso poco sostenibile che alla conservazione vera e propria.
Noi di Wildilife Initiative riceviamo fondi da alcuni sponsor che ci permettono di coprire a stento le spese. Non ne otteniamo, però, dagli zoo italiani, che generalmente sostengono altri progetti internazionali. Lo trovo frustrante, considerato che i colleghi e le ONG americane e del resto d’Europa vengono ben supportate dagli zoo dei propri paesi di origine. Come membro del comitato direttivo del Manul Working Group mi sto impegnando nel tentare di favorire una distribuzione dei fondi concentrata sulle organizzazioni che implementano progetti seri basati su evidenze scientifiche e documentati da pubblicazioni ufficiali.
Referenze