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Fossilizzazione: definizione e processi

Come nasce un fossile?

Tutti noi conosciamo i fossili e sicuramente, nella nostra vita, qualcuno lo abbiamo anche visto in un museo o semplicemente facendo un’escursione. I fossili sono probabilmente tra gli oggetti naturali più belli e affascinanti, perché raccontano non solo la storia e l’evoluzione di organismi (o di tracce di essi) ormai estinti ma anche tutti i fenomeni geologici e biologici che che si sono verificati dopo la morte dell’organismo. La fossilizzazione è il processo cardine della tafonomia e consiste nella trasformazione in roccia (o trasformazione diagenetica) delle componenti biologiche degli organismi[1, 2].

In quest’articolo ci concentreremo sui processi di fossilizzazione principali, divisibili in:

  • fossilizzazione della materia organica;
  • fossilizzazione delle parti mineralizzate[1].

Fossilizzazione della materia organica

Con fossilizzazione della materia organica si intende la fossilizzazione degli organi (come polmoni o cervello) e dei tessuti di un organismo, purché essi non siano parti dure e mineralizzate (come le ossa dei vertebrati e le valve di molti invertebrati)[1].

Questo tipo di fossilizzazione è molto rara ma ci permette di fare ricostruzioni anatomiche molto dettagliate di un organismo. L’esempio più vicino (geograficamente) a noi è il dinosauro Ciro (un esemplare di Scipionyx samniticus), un teropode del Cretaceo inferiore ritrovato in Italia e in cui è possibile osservare gran parte dei tessuti molli e degli organi, come fegato, occhi, trachea, fasci muscolari e addirittura parti di pelle.

La fossilizzazione della materia organica avviene quando i processi putrefattivi di un organismo morto vengono in qualche modo inibiti, o rallentati; ciò fornisce alle parti molli qualche possibilità di preservarsi e di fossilizzarsi.

Mummificazione

La mummificazione è un processo di fossilizzazione molto conosciuto che consiste nella conservazione quasi completa del corpo e dei tessuti molli di organismo, come organi e muscoli.

La mummificazione è fortemente favorita in ambienti aridi, sia caldi che freddi, e su substrati porosi (come le sabbie). Queste condizioni, infatti, impediscono o limitano la proliferazione batterica, grazie alle basse temperature e/o alla disidratazione dei tessuti[1].

Normalmente, quando si pensa alle mummie, vengono subito in mente le mummie degli antichi egizi. Eppure, esistono anche mummie di dinosauro! Un esempio è rappresentato da un esemplare di Edmontosaurus annectens, un adrosauride estinto di cui si sono conservate addirittura tracce di pelle. Gli antichi egizi utilizzavano di fatto gli stessi principi della mummificazione naturale, sebbene le loro mummie non siano affatto da considerarsi fossili, in quanto frutto di meticolosi metodi di preservazione dei defunto.

fossilizzazione mummificazione
Mummia di Edmontosaurus annectens. (di A.E. Anderson, Wikimedia Commons, CC0)

Carbonificazione

La carbonificazione è un processo di conservazione della materia organica che avviene ad opera della fermentazione di batteri anaerobi, ossia batteri in grado di crescere in assenza di ossigeno. Essi eliminano idrogeno e ossigeno dai resti dell’organismo e li arricchiscono di carbonio, il quale raggiungerà quindi elevati gradi di purezza. Affinché il processo avvenga, è importante che non vi sia ossigeno introdotto dall’esterno.

La carbonificazione ha portato alla formazione del famoso carbone fossile e degli idrocarburi fossili, come il petrolio. I carboni fossili rappresentano il risultato della carbonificazione di alberi giganti che, dopo la morte, non vennero degradati da batteri e funghi ma vennero al contrario ricoperti da spessi strati sedimentari. Gli idrocarburi fossili rappresentano invece il risultato della carbonificazioni di grassi organici. Sia il carbone fossile che gli idrocarburi hanno una conservazione pressoché illimitata, purché appunto non si introduca ossigeno nel giacimento, che porterebbe all’alterazione chimica del fossile[1].

Una volta carbonificato, il resto organico va incontro ad una riduzione di volume e ad uno schiacciamento ad opera dei sedimenti. La traccia originaria del resto che rimane viene chiamata antracoleimma ed è rappresentata da una pellicola carboniosa che conserva solo la struttura esterna del resto.

La carbonificazione dà tra l’altro il nome al famoso periodo geologico del Carbonifero (359-299 milioni di anni fa circa), in cui si formarono gran parte dei giacimenti di carbone fossile.

fossilizzazione carbonificazione
Reperto di un ittiosauro carbonificato del Giurassico inferiore appartenente alla specie Stenopterygius quadriscissus, conservato presso il Museo Geologico Capellini di Bologna e proveniente da Holzmaden (Baden-Württemberg, Germania). (di Mattia Papàro)

Permineralizzazione

La permineralizzazione è un particolare processo di fossilizzazione in cui le acque interstiziali impregnano i tessuti organici e vi depositano i propri sali (tra le cellule o all’interno delle cellule), in forma cristallina o amorfa. Questa trasformazione diagenetica dei tessuti è così straordinaria che permette addirittura la conservazione della struttura cellulare degli organismi[1]!

Un esempio di questo tipo di fossilizzazione è la cosiddetta concrezione nodulare, una sorta di blocco di roccia al cui interno è conservato un intero organismo fossile.

Alla permineralizzazione possono partecipare diversi tipi di sostanze minerali, come:

  • carbonati;
  • silicati;
  • piriti;
  • ghiaccio[1].

La permineralizzazione con carbonati forma le concrezioni calcaree fossilifere, in cui le argille marnose composte da calcite (o anche da siderite) racchiudono i fossili al loro interno. La permineralizzazione con silicati (silicizzazione) è poco frequente e permette di ammirare una conservazione straordinaria dei legni.

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La permineralizzazione con pirite (piritizzazione) produce parziali permineralizzazioni di tessuti organici e può riempire gli spazi tra le cellule con micro-cristalli ottaedrici o cubici di pirite (chiamati framboidi).

La permineralizzazione con ghiaccio (crioconservazione) porta a alla conservazione di organismi recenti, come le specie risalenti all’ultima glaciazione (ad esempio il mammut lanoso, Mammutus primigenius). La crioconservazione è un tipo di fossilizzazione atipica in quanto le componenti organiche si preservano dalla decomposizione. Il processo è molto simile alla mummificazione, la quale però non prevede la permineralizzazione dei tessuti.

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Fossilizzazione in ambra

La fossilizzazione in ambra è probabilmente il processo che produce alcuni dei fossili più spettacolari. Questo tipo di fossilizzazione è straordinario in quanto le resine vegetali inglobano un organismo, o parti di esso, preservandolo completamente. Esternamente, quindi, il resto si presenta intatto e con i vari dettagli anatomici visibili addirittura ad occhio nudo! La fossilizzazione in ambra, per queste sue caratteristiche, permette lo studio di elementi o di organismi che raramente si fossilizzano, come penne, piume e peli.

Contrariamente a quanto si vede sul film Jurassic Park, dai resti in ambra non è possibile prelevare sangue o alcun campioni organico, in quanto l’organismo è stato trasformato in roccia: quel che resta di esso è soltanto una sorta di riflesso di ciò che l’organismo era.

Il processo è molto semplice: gli organismi o parte di essi rimangono intrappolati e inglobati nelle resine vegetali; la successiva solidificazione di tali resini porta alla trasformazione diagenetica delle componenti organiche incluse.

fossilizzazione ambra
Reperto di una penna di dinosauro (a) e di un insetto (b) preservati in ambra fossile. Le barre nere in basso a destra indicano 1,0mm (a) e 0,1mm (b) di lunghezza. (da [3], CC BY 4.0)

Fossilizzazione delle parti mineralizzate

La fossilizzazione delle parti mineralizzate riguarda tutte le componenti dure di un organismo (come gusci e ossa), ossia quelle strutture che non vengono distrutte dai processi biostratinomici e che vengono quindi ricoperte e seppellite dal sedimento. In questo tipo di fossilizzazione giocano un ruolo fondamentale le acque interstiziali e le acque del sedimento, le quali si scambiano costantemente le sostanze in esse disciolte.

Dissoluzione diagenetica

La dissoluzione diagenetica è un fenomeno di fossilizzazione che può aggredire i resti di un organismo prima, dopo o durante la sua diagenesi. Essa consiste nella dissoluzione, appunto, di determinate sostanze e nella preservazione di altre.

In un ambiente acido (pH inferiore a 7), per esempio, le parti dure mineralizzate meglio solubili sono quelle composte da calcite ad alto contenuto di magnesio, da aragonite o da calcite a basso contenuto di magnesio. In un ambiente alcalino (pH superiore a 9), invece, sono meglio solubili le parti dure silicee mineralizzate[1].

Il classico esempio per spiegare la dissoluzione delle parti mineralizzate è il fenomeno della dissoluzione dei gusci carbonatici degli organismi marini odierni. Oltre ad una certa profondità delle acque oceaniche (chiamata profondità di compensazione dei carbonati, o carbonate compensation depth), infatti, a causa delle condizioni di temperatura e pressione, il carbonato di calcio tende a rimanere disciolto (o a disciogliersi) in acqua e non può quindi essere utilizzato per costruire parti dure.

Lo stesso processo è alla base della dissoluzione diagenetica, in cui però il fattore determinante è il pH dell’ambiente di seppellimento. La dissoluzione diagenetica è condizionata anche dalla natura della superficie della parte mineralizzata; ad esempio, molti gusci porosi e ornati di invertebrati sono, in genere, più solubili dei gusci compatti e lisci.

Mineralizzazione

La mineralizzazione è il principale processo di fossilizzazione delle parti mineralizzate.

Il processo può essere di varie tipologie:

  • impregnazione;
  • sostituzione, che a sua volta può essere distinta in:
    • calcitizzazione;
    • dolomitizzazione;
    • silicizzazione;
    • piritizzazione[1].

L’impregnazione si verifica quando la sostanza organica contenuta nelle parti dure e mineralizzate si ossida: questo processo determina la formazione di micro-cavità nel resto, le quali permetteranno la precipitazione dei sali contenuti nelle soluzioni circolanti dei sedimenti. I minerali più comuni che partecipano all’impregnazione sono la calcite, la barite e la silice. Un esempio di struttura mineralizzata che può andare incontro all’impregnazione è proprio l’osso dei vertebrati: con il passare del tempo, esso perde anidride carbonica, composti contenenti solfuri e ammoniaca, diventando così inconsistente; esso non perde però l’aspetto esteriore.

La sostituzione è un processo particolare in quanto consiste proprio nella sostituzione di un minerale con un altro; è molto comune nelle rocce sedimentarie. Anche in questo caso, nei resti si formano dei pori attraverso la dissoluzione delle parti interne, il che permette la precipitazione del nuovo minerale. In base al minerale che sostituisce le componenti originarie del resto, il processo di sostituzione può prendere diversi nomi.

La calcitizzazione avviene per riempimento con calcite degli spazi vuoti all’interno della struttura mineralizzata (come ad esempio nelle conchiglie dei molluschi).

La dolomitizzazione avviene quando il carbonato di calco di un resto si trasforma in dolomia attraverso un processo di dissoluzione e successiva precipitazione.

La silicizzazione avviene in ambienti acidi, nei quali la silice, che deriva dalla dissoluzione di conchiglie o di spicole di spugne, si deposita e impregna il resto.

La piritizzazione è una sorta di via di mezzo tra la sostituzione e l’incrostazione (un processo limitato ai fossili recenti, in cui una pellicola di carbonato di calcio avvolge i resti dell’organismo). I soggetti fossilizzati vengono infatti rivestiti da pirite e riempiti di calcite o di silice.

Dissoluzione e litificazione

La litificazione è un fenomeno che avviene quando una struttura mineralizzata si scioglie prima della sua trasformazione diagenetica da parte del sedimento; non rimangono dunque tracce dell’organismo, se non attraverso impronte esterne o modelli interni.

L’impronta esterna è l’impronta lasciata nel sedimento dai resti di un organismo (non si parla quindi dell’impronta lasciata dall’attività locomotoria); in parole povere, rimane solo la forma di ciò che è stato avvolto dal sedimento.

Il modello interno è comune invece nei molluschi e in altri invertebrati ed avviene quando una struttura (come un guscio) viene riempita dal sedimento, il quale produrrà un calco naturale della struttura. Il riempimento avviene ad opera di sali minerali (come solfato di calcio, silice o carbonato di calcio) che precipitano da acque interstiziali. Differisce dalla calcitizzazione in quanto, in questo caso, il reperto è costituito solo dal calco interno dell’organismo e non presenta più la parte esterna (ad esempio il guscio vero e proprio)[1].

Conclusioni

Un organismo deve avere molta fortuna per potersi fossilizzare, in quanto questo processo è estremamente raro. Certo, vedendo i fossili che sono esposti all’università o nei musei, o soltanto facendo un’escursione, ci verrebbe da pensare il contrario. Ma non è così, anzi. Come dice Gianni Morandi, uno su mille ce la fa, in quanto tra i miliardi di organismi che hanno popolato in passato il nostro Pianeta, solo in pochi hanno avuto il privilegio di poter sopravvivere sotto forma di fossili.

Referenze

  1. Raffi, S., Serpagli, E. (1993). Introduzione alla paleontologia. UTET, Torino;
  2. Rogers, R. R., Eberth, D. A., & Fiorillo, A. (2008), Bonebeds: genesis, analysis, and paleobiological significance. University of Chicago Press, Chicago;
  3. Gao, T., et al. (2019). New insects feeding on dinosaur feathers in mid-Cretaceous amber. Nature communications, 10(1), 1-7.

Immagine di copertina da pikist.com.

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