La biologia evoluzionistica dello sviluppo (nota anche come Evo-Devo) è una disciplina che si occupa di studiare le relazioni tra i processi evolutivi e quelli di sviluppo. Questa prospettiva nasce dall’idea di ridefinire il concetto di evoluzione, la quale andrebbe intesa non solo come il cambiamento nel tempo di genotipi e fenotipi, ma anche, e soprattutto, come una modificazione dei processi ontogenetici (ossia di sviluppo embrionale).
Nascita dell’Evo-Devo
In natura, esistono alcuni organismi che mostrano come non tutte le caratteristiche dei viventi possano essere spiegate come adattamenti vagliati dalla selezione naturale (un approccio di questo tipo prende il nome di adattazionismo). Pertanto, è sconsigliabile, oltre che sbagliato, arrovellarsi nel tentativo di trovare una spiegazione ad hoc per ognuna di queste situazioni.
In quest’ottica, nella seconda metà del XX secolo, nacque una nuova prospettiva nella teoria dell’evoluzione, vista la necessità di ampliare le vedute circa il cambiamento evolutivo: questa prende il nome di biologia evoluzionistica dello sviluppo, o Evo-Devo (da evolutionary developmental biology).
L’Evo-Devo si pone all’interfaccia tra la biologia evoluzionistica, che si occupa delle modificazioni delle specie attraverso le generazioni, e la biologia dello sviluppo, che si occupa delle modificazioni degli organismi lungo il loro ciclo vitale. La biologia dello sviluppo, in particolare, passa così dall’essere una materia storicamente legata alla biologia strutturale (ossia la biologia che studia le architetture e le morfologie nel mondo biologico) ad una nuova concezione in senso evoluzionistico. La biologia dello sviluppo si viene così a trovare sotto una nuova luce, accesa per la prima volta con decisione da Stephen Jay Gould che, in Ontogenesi e filogenesi (1977), getta le basi per questa “innovazione” della teoria dell’evoluzione[1].
Cosa studia l’Evo-Devo?
Secondo l’Evo-Devo, il cambiamento evolutivo non deve essere letto limitatamente alla modificazione di genotipi e fenotipi, ma soprattutto anche come un mutamento degli sviluppi ontogenetici. L’Evo-Devo pone quindi il focus sulla trasformazione dei processi, piuttosto che sulle funzioni e sulla forma delle strutture e degli organismi.
Nella fattispecie, gli organismi iniziano ad essere osservati come temporanee espressioni di una traiettoria ontogenetica, in rotta con la tradizionale concezione adultocentrica dell’evoluzione, che spesso e volentieri riduceva le fasi giovanili (e con esse i loro fenotipi) a stadi preparatori del fenotipo finale, poi passato al setaccio della selezione naturale.
Di primo acchito, potrebbe sembrare ovvio che un biologo si preoccupi di indagare i processi di sviluppo, visto che, tutto sommato, sono alla base della formazione dei viventi, almeno negli organismi pluricellulari. Tuttavia, per molto (troppo) tempo, si è pensato che non servisse soffermarsi su tutti quei processi che collegano l’informazione ereditaria e le forme di vita che popolano il pianeta. Infatti, secondo un’idea genecentrica e adattazionista, in cui i geni permettono la trasmissione delle caratteristiche fenotipiche e generano la variabilità su cui agisce la selezione naturale attraverso mutazioni e ricombinazioni, non si riteneva necessaria una lettura dell’ontogenesi in chiave evolutiva.
Evo-Devo e centopiedi
Riallacciandoci a quanto detto pocanzi, prendiamo come esempio quelle forme biologiche (come alcuni fenotipi o alcuni stadi di diversi cicli vitali) che sarebbe lecito aspettarsi di incontrare in natura, ma che, di fatto, non vediamo.
A prima vista, interrogarsi sul perché queste forme non vengano trovate potrebbe sembrare une perdita di tempo. D’altronde, le risposte possibili sono molteplici: le forme mancanti potrebbero non essere ancora state trovate e documentate, potrebbero essere esistite e poi essersi estinte o, più semplicemente, potrebbero non essersi mai prodotte. In aggiunta, la nostra fantasia è pressoché senza limiti: si potrebbe quindi asserire che ciò che vediamo nel mondo reale sia soltanto una parte di quello che possiamo immaginare.
Esistono però delle forme mancanti così vicine a quelle reali che domandarsi quale sia il motivo per cui non si realizzano non è solo sensato, ma potrebbe essere anche costruttivo.
Un esempio viene dal misterioso mondo dei chilopodi, i cosiddetti centopiedi, e, in particolare, dalle numerose zampette di alcuni rappresentanti di questa classe.
Prima però, una piccola precisazione: i chilopodi sono una classe di artropodi del subphylum dei miriapodi; sono quindi animali metamerici, cioè caratterizzati dalla ripetizione, lungo l’asse longitudinale del corpo (o delle sue parti), di elementi seriali (chiamati metameri o segmenti) in cui si ripetono strutture e apparati.
I chilopodi sono suddivisi in vari ordini e tra questi troviamo quello dei geofilomorfi. I geofilomorfi sono animali fossori, specializzati a vivere e cacciare negli interstizi del terreno e contano su per giù un migliaio di specie; gli individui presentano un numero variabile di segmenti dotati di un paio di zampe compreso tra un minimo di 27 e un massimo di 191[2].
Fin qui nulla di particolarmente sorprendente, se non il fatto che un animale pesante solo qualche grammo riesca a coordinare il movimento di una quantità così esagerata di appendici articolate. Già più strano è il fatto che il numero di segmenti con zampe sia variabile anche tra individui della stessa specie e, addirittura, tra maschi e femmine, con queste che di solito hanno una coppia di zampe in più. La vera sorpresa però risiede nel fatto che esistono solamente geofilomorfi con un numero dispari di paia di zampe
Prendiamo come riferimento una specie europea, Strigamia acuminata: i maschi di questo centopiedi possono avere 37 o 39 segmenti con zampe; le femmine 39 o 41; ma non si trovano mai individui con 38 o 40 coppie di zampe! Né di sesso maschile, né di sesso femminile[2].
Questa stranezza ci porta a riflettere su quale sia il significato di questa discontinuità, ed è obiettivamente difficile supporre che alla base di tutto questo possa esserci la selezione naturale. In termini adattativi, quale vantaggio potrebbe dare avere 37 paia di zampe anziché 38? O ancora peggio 189 anziché 188 o 190?
La soluzione più plausibile è che gli individui con un numero pari di segmenti con zampe non possano esistere per un qualche motivo insito nei meccanismi di riproduzione e sviluppo.
Tuttavia, l’eccezione in biologia è la regola ed ecco che, nel 2007, viene trovato un maschio di Stigmatogaster subterranea (un’altra specie di geofilomorfi) con 80 paia di zampe (una curiosità interessante è che nella popolazione d’origine di questo individuo ci sia un alto numero di fenotipi aberranti di vario genere)[3]. Questo ritrovamento aumenta ulteriormente lo scetticismo circa il possibile significato adattativo dell’esclusività di numeri dispari di segmenti con zampe, poiché mostra come un geofilomorfo con un numero pari di coppie di zampe possa almeno sopravvivere fino all’età adulta.
Conclusioni
Il caso dei geofilomorfi è una dimostrazione di quanto sia importante conoscere i meccanismi di sviluppo per comprendere al meglio la diversità delle forme di vita che ci circondano. In questo senso, l’Evo-Devo è un grimaldello che sta lentamente aprendo nuovi orizzonti alla biologia evoluzionistica, scardinando vecchie concezioni e integrando informazioni provenienti da campi di studio una volta considerati separati. Ci si avvicina insomma a nuove e più complete spiegazioni di quello che vediamo (e anche di quello che non vediamo) nell’affascinante mondo della vita.
Referenze
- Gould, S. J. (1977). Ontogenesi e filogenesi. Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2013;
- Ferraguti, M., & Catellacci, C. (2011). Evoluzione Modelli e Processi. Pearson Italia, Milano-Torino;
- Leśniewska, M., Bonato, L., Minelli, A., & Fusco, G. (2009). Trunk anomalies in the centipede Stigmatogaster subterranea provide insight into late-embryonic segmentation. Arthropod Structure & Development, 38(5), 417-426;
- Roberts, R. G. (2014). What Goes “99-Thump?”. PLoS Biology 12(11): e1002006.
Immagine di copertina di Starlarvae, Wikimedia Commons (CC BY-SA 3.0).