Per via della vicenda di Dj Fabo, se ne è sentito tanto parlare ‒ e non per la prima volta ‒ di eutanasia. C’è chi si è mostrato favorevole alla pratica del suicidio assistito e chi no, in due prospettive di opinione differenti che, spesso, prevedono posizioni morali ben radicate. Cos’è che ci induce a credere che l’eutanasia sia una scelta eticamente corretta? Al di là della trattazione filosofica e di diatribe bioetiche, è un argomento che non possiamo lasciar trascendere e delegare ad un supposto potere superiore, poiché è proprio l’uomo comune a dover fronteggiare la questione quotidianamente. La legge, si sa, nasce proprio dalle esigenze degli individui, e se una tale regola deve essere imposta e rispettata senza remore, è giusto che vi sia un giudizio unanime nei suoi confronti proprio da chi della legge deve usufruire.
Perché l’idea che qualcuno possa decidere la morte dell’altro ci terrorizza?
Non basta utilizzare, tra le varie opzioni, quella religiosa, dal momento che anche in quel caso si tratta di un dogma interiorizzato che bene si integra con le inclinazioni personali del singolo modificandone la struttura di pensiero, ma consentendogli, per l’appunto, di rappresentare perfettamente lo stato d’animo cui è sottoposto. In altre parole, la motivazione spirituale non è una condizione sufficiente ad innescare un certo atteggiamento finché ad essa non è sottesa una carica emotiva investita che è tutta individuale.
Guardarsi nel riflesso
Il primo meccanismo più naturale che avviene è quello legato all’empatia: è risaputa, ormai, l’azione dei neuroni specchio localizzati perlopiù nella corteccia premotoria (Rizzolatti et al., 1996) , nel lobo frontale del cervello. Si tratta di cellule nervose che si attivano più efficacemente nel momento in cui si osserva una persona compiere un’azione, come se, in qualche modo, mentalmente si riproducesse quello stesso movimento ancor prima di metterlo in atto direttamente.
È una sorta di prefigurazione dell’agito, tant’è che sarebbe rilevabile anche solo nell’immaginare di compiere tale azione. Questo stesso operato trova riscontro anche nelle emozioni, permettendoci di immedesimarci, di simulare propriamente quello che proverebbero gli altri, e, come per l’aspetto fisico, anche per quanto riguarda gli affetti l’esecuzione è tanto migliore quanto più ci si è esercitati nell’imitarla.
Una discreta performance aiuta a comprendere nuovi elementi che i neuroni specchio integrano, i quali, a loro volta, daranno input più precisi su una successiva performance, così che, alla fine, entrambi i sistemi si influenzeranno a vicenda al fine di ottenere la performance migliore. Lo stesso vale per i sentimenti.
Esporci in modo particolare ad un certo comportamento e ricevere una richiesta dall’ambiente che ci induca a perseguire lo stesso comportamento ci immette di più in quel sistema d’azione nel quale ci sentiremo sempre più idonei. Ecco perché è così facile dire «non puoi capire quello che sto provando finché non ti ci ritroverai dentro anche tu».
Di fatto, la stragrande maggioranza di chi ha parenti o amici in stadi di malattia terminali o condizioni patologiche irreversibili tende ad essere a favore della pratica, tanto più quanto sono vicini alla persona che risentirà del suicidio assistito.
Sono proprio le persone più lontane, meno “esposte”, a subire in modo minore l’effetto dell’empatia, quelle che non hanno la possibilità impellente di confrontarsi con un sistema di pensiero diverso dal proprio e che, anzi, non sentono neppure il bisogno di “immedesimarsi” in altro, poiché già in confronto con situazioni e persone più vicine con un sistema di pensiero differente.
Non provare empatia per una persona che dovrà assistere un parente od un amico terminale non è sinonimo di ignoranza o peggio: è una questione adattativa, per la quale un certo ambiente non richiede la “imitazione dell’altro” laddove non sia necessario poiché non direttamente utile.
Bisogna, però, andare oltre l’immediatezza e la focalizzazione dell’immediata circostanza. La crescente globalizzazione preme sempre di più sulla nostra responsività, obbligandoci, in un modo o nell’altro, a reagire adeguatamente e ponderatamente anche agli stimoli più lontani, materialmente ed emotivamente.
Eppure, l’empatia può essere una lama a doppio taglio. Laddove posso provare compassione per il paziente vivo solo grazie a macchine mediche, posso alienarmi dalle sue personalissime sensazioni (vissuto emotivo, posizione morale, comportamento) ed identificarmi solamente nella sua condizione manifesta. Immedesimarmi nella malattia mi rende fenomenologicamente quella stessa persona malata, ma con una mente tutta mia: completamente avulso dal disagio tipico di quell’individuo, mi ritrovo dunque a non sentire nient’altro che la difficoltà fisica; e non è detto che la mia empatia non mi porti a sottostimare il dolore fisico o, più pregnante, quello emotivo.
In questo modo, non ci si può rendere conto di diverse cose. Ci si identifica nel concetto di malattia, o, meglio ancora, nella concezione per la quale la morte sta per giungere, ma senza integrare davvero in sé l’immagine della sofferenza che si trova sia in se stessi che negli altri che ne hanno cura. L’empatia diventa egoistica, si prende dell’altro solo quello che è necessario per il confronto meno dispendioso, per poter chiedersi «che cosa farei io al posto suo?», decontestualizzando e, quindi, snaturando la situazione catturandola completamente per soggiogarla al sé.
Di conseguenza, non c’è stata una vera alienazione, non ci si è davvero messi nei panni dell’altro, bensì si è soltanto presa, dal malato, l’idea di stare per morire. Si tratta, pertanto, di un’empatia distorta, un’empatia in senso lato, un’empatia lontana ed ignara che non ha un reale confronto, che non conosce e non vuole conoscere l’altro, che si approfitta ed agisce unicamente nei limiti del proprio vissuto.
Paura di sparire
Ed è proprio in questo punto che agisce la Terror Management Theory. La TMT, o Teoria della Gestione del Terrore, è stata formulata da Greenberg e collaboratori nel 1986, che è indicata per designare quelle persone che sanno di dover morire in un momento prossimo (originalmente, infatti, la teoria era fondamentalmente dedicata agli anziani) e che, per ovviare a tale spiacevole sensazione, reagiscono in modi tipici. In buona sostanza, si può affermare che l’autostima sia una sorta di buffer per il terrore della morte, in un rapporto inversamente proporzionale.
Quando una persona si identifica in un malato terminale subisce istantaneamente l’obbligo mentale di dover fare i conti con la morte: come gestisce, perciò, il terrore? Tutto dipende, a quanto sostengono gli studi, da quanto sia stabile la cultural view.
La regola aurea è che più ci si sente appartenenti ad un gruppo (la famiglia, gli amici, il lavoro od un’intera cultura), maggiore sarà il senso di trascendenza dell’individuo. “Trascendenza” è solo una visione aleatoria della propria sopravvivenza, che verrà rappresentata in un lascito sociale. Si tratti del proprio patrimonio economico, delle proprie memorie, dell’educazione impartita ai figli, degli insegnamenti dati, dei valori e dei principi instillati; quanto più si è diffuso di sé, tanto più ci sarà un vero e proprio senso del sé che, illusoriamente, continua a vivere negli altri e nella propria società, si trattasse anche solo di una piccola parte di essa.
Avere scarsa stima di sé comporta, in senso lato, non sentirsi un ingranaggio funzionale dell’ambiente in cui ci si trova, a non sentirsi integrati propriamente nel gruppo ove si è immessi, così da causare un’esclusione totale.
La mancata speranza in un futuro per via della prospettiva di morte rende ancor più difficile questo compito, in un sempiterno circolo vizioso. Questa è la ragione per la quale, spesso, sentiamo dire di vecchi signori che, al crepuscolo della loro vita, donano averi a chi gli sta intorno, fanno beneficenza, compiono azioni caritatevoli, diventano buoni se prima non lo erano, generosi e gentili dove prima non lo erano. Tutto nella speranza di sentirsi nuovamente parte di qualcosa attraverso cui sopravvivranno.
Chi si identifica nel malato terminale non è pronto a morire nel momento in cui egli non è in grado di gestire il terrore, cioè qualora non si sentisse ancora capace di andarsene senza aver lasciato nulla al mondo.
Stare bene con se stessi e con gli altri
In questa interpretazione, la psicologia sociale affermerebbe che chi non si trova favorevole all’ eutanasia avrebbe una scarsa autostima, mentre le neuroscienze e la psicologia comportamentale affermerebbero che avrebbe alterate capacità di empatia.
In un recente articolo pubblicato su Gerontologist (Lamers et al., 2016), gli scienziati hanno voluto indagare le opinioni di persone anziane circa l’eutanasia con un questionario strutturato. I soggetti sperimentali si sono mostrati favorevoli alla pratica, adducendo fattori come l’insopportabilità nel vedere un altro familiare vivere la propria condizione, ma anche il desiderio di “lasciare agli altri un buon ricordo”. Si potrebbero tradurre questi elementi in altri termini: i soggetti si sono mostrati sia empatici nei confronti delle persone più prossime, sia soddisfatte del proprio lascito sociale, quindi con una buona autostima.
Oltre la natura morale dell’eutanasia, sulla quale deciderà arbitrariamente ognuno di noi, la discrezione della scienza porta a pensare che sarebbero due le variabili che porterebbero a dare una scelta decisiva sulla questione:
○ Autostima
○ Empatia
Studi successivi ci aiuteranno a determinare la correlazione tra l’opinione sull’ eutanasia e l’autostima e l’empatia con adeguati test. Nel frattempo, l’eutanasia continuerà ad essere un affare del popolo in attesa di unanimità di criterio.
Bibliografia
- Greenberg J., Pyszczynski T. and Solomon S. (1986). “The causes and consequences of a need for self-esteem: A terror management theory”. In R.F. Baumeister (ed.), Public Self and Private Self, pp. 189-212.
- Lamers Carolien P. T., CPsychol, AFBPsS, and Williams Rebecca R., CPsychol (2016). “Older People’s Discourses About Euthanasia and Assisted Suicide: A Foucauldian Exploration”. Gerontologist, Vol. 56, No. 6, 1072–1081.
- Rizzolatti G. et al. (1996). Premotor cortex and the recognition of motor actions. Cognitive Brain Research, Vol.3 n. 2, pag. 131-141.