Nei primi anni del XX secolo, furono intraprese una serie di grandiose spedizioni ai poli, scatenando delle vere e proprie gare tra gli esploratori. Era un periodo di ferventi nazionalismi e ogni governo aveva interesse a porre per primo la sua bandiera nei territori inesplorati, in modo da accrescere il proprio prestigio agli occhi del mondo ed eventualmente, di accedere a nuove risorse. In questo campo, l’Impero Britannico era decisamente in prima linea. Ernest Shackleton era già un veterano dell’Antartide: aveva infatti già preso parte nel 1901 alla spedizione Discovery come terzo ufficiale (il comando della spedizione era affidato al celebre capitano Scott) e poi ancora, nel 1907 alla spedizione Nimrod, questa volta sotto il suo comando.
Così in quella che sarebbe stata la sua terza volta in Antartide, Shackleton si pose un obiettivo decisamente ambizioso: la traversata a piedi dell’intero continente. L’annuncio che comparve a Londra nella primavera del 1914 in effetti, non lasciava certo presagire che sarebbe stata una passeggiata, diceva infatti:
“Cercasi equipaggio per un viaggio pericoloso. Paga: misera, ritorno: non garantito. In caso di successo: fama e onore”.
La partenza
La spedizione, con il patrocinio della Royal Geographical Society, si poneva anche importanti obiettivi scientifici: si sarebbero imbarcati anche vari studiosi per compiere rilevamenti meteo, analisi geologiche, studiare flora e fauna presenti, il tutto per migliorare le conoscenze di un continente di cui si sapeva pochissimo. La ricerca dei finanziamenti portò Shackleton a rivolgersi a numerosi quanto facoltosi mecenati, nel tentativo raccogliere i fondi per una sfida che sembrava davvero impossibile.
Riuscire quindi a mettere insieme le circa 60000 sterline necessarie fu tutt’altro che cosa facile, ma grazie alla sua caparbietà e al suo carisma, Shackleton riuscì a raccogliere il denaro necessario e acquistò un veliero a tre alberi, varato in Norvegia due anni prima, chiamato Endurance. Iniziarono quindi i meticolosi preparativi per la spedizione, quando nell’estate di quel 1914, gli eventi geopolitici rischiarono di mandare tutto all’aria.
Il 28 giugno, a Sarajevo, l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austro-ungarico e sua moglie, vengono assassinati da un nazionalista serbo: è l’evento che scatenerà la Prima Guerra Mondiale.
Quando per l’Impero Britannico si prospettava l’entrata in guerra, Shackleton mise a disposizione la sua nave per la Corona, ma il Primo Lord dell’Ammiragliato, il Ministro della Marina, gli ordinò di partire lo stesso. Secondo lui infatti, il valore di questa missione era tale che avrebbe recato un grande prestigio a livello internazionale all’Impero e, in definitiva, si può dire che è soprattutto grazie alla grande lungimiranza di quest’uomo che la spedizione Endurance è potuta avvenire: si chiamava Winston Churchill.
Nell’epoca delle grandi esplorazioni, questa missione è di una tale importanza che persino il re Giorgio V, incontrò Shackleton per consegnargli la bandiera nazionale. Fu così che il 9 agosto del 1914, dal porto di Plymouth nel sud-ovest dell’Inghilterra, l’Endurance salpò con Shackleton e 28 uomini di equipaggio, per dirigersi dall’altra parte del mondo. Dopo solo tre giorni dalla loro partenza, il Regno Unito entrerà in guerra.
L’equipaggio dell’Endurance comprendeva un biologo, un geologo, un fisico e un meteorologo, che si sarebbero occupati dell’aspetto scientifico della spedizione.
Dopo aver effettuato alcune soste a Buenos Aires e nella Georgia del Sud, dopo circa cinque mesi di navigazione, la spedizione raggiunse il mare di Weddell, proprio a ridosso del continente antartico. L’obiettivo era di sbarcare sulle costa e proseguire a piedi, con slitte trainate dai cani appositamente imbarcati, e quindi di addentrarsi nel continente. Il periodo dell’anno era stato scelto accuratamente, in modo da farlo coincidere con la stagione estiva, altrimenti il pack non avrebbe permesso alla nave di avvicinarsi abbastanza. Le cose però, prenderanno una piega ben diversa da quella prevista.
Temperature e correnti non prevedibili possono far ghiacciare il mare in un qualunque momento e l’Endurance si trovò davanti alla banchisa ben prima del previsto. Trovare un altro passaggio avrebbe richiesto il consumo di troppo carburante, per questo Shackleton ordinò di spegnere i motori e di ancorarsi alla banchisa, in attesa che quest’ultima si fosse aperta. Per un po’, lo stratagemma sembrò funzionare, ma proseguire verso sud diventò via via sempre più difficile, così come liberare la nave dalla morsa del ghiaccio.
A volte, gli uomini dovettero scendere e mettere mano ai picconi per aprirsi un varco.
Verso la fine di gennaio del 1915, l’Endurance riuscì a muoversi un’ultima volta, prima di essere definitivamente bloccata tra i ghiacci. Per circa un mese furono tentati tutti i sistemi possibili pur di liberare la nave, ma infine fu chiaro che ogni sforzo sarebbe stato inutile. Vista la situazione, Shackleton disse ai suoi uomini di prepararsi a passare il gelido inverno antartico su quel campo di ghiaccio e di fare della nave la loro base.
Bloccati tra i ghiacci
Sarebbero dovuti passare più di sei mesi prima che il Sole, tornato finalmente a sorgere e a indebolire il pack, avrebbe permesso all’Endurance di svincolarsi. Nei giorni meno proibitivi, gli uomini scendevano dalla nave per andare in cerca di cibo fresco, in modo da non dover intaccare le riserve in scatola. Si cominciò con le foche poi, seppur a malincuore, con i pinguini imperatore, che tanto socievoli si erano mostrati all’inizio.
Quando possibile, si effettuavano anche le esercitazioni con i cani, per addestrarli a trainare le slitte. Il problema dell’acqua fu risolto ricavandola dal ghiaccio, in base a un procedimento atto ad escludere le impurità e rendendola così, potabile.
Furono anche estratti dei campioni di plancton dalle acque marine, per permettere agli studiosi di analizzarle. Anche se in una situazione difficile, la missione rimaneva in corso e gli uomini attesero l’arrivo della primavera, quando la nave sarebbe stata finalmente liberata dal gelo che la intrappolava. Non immaginavano che proprio con l’arrivo della primavera sarebbe avvenuto il disastro.
Passarono i mesi e finalmente le temperature cominciarono ad aumentare.
Ma nel momento in cui il ghiaccio iniziò a muoversi, la pressione che questi esercitava, strinse la nave in una terribile morsa: le falle si aprivano sempre più spesso e sempre più ampie lungo tutto lo scafo. Tapparle e cercare di creare compartimenti stagni per isolarle, servì solo per poco. Nonostante gli sforzi, la stretta si fece insostenibile, l’acqua continuava a salire sempre più e presto fu chiaro che non era più possibile rimanere a bordo.
Sia il comandante che i suoi uomini, iniziarono ad accettare l’idea di dover abbandonare la nave e di creare un campo sulla banchisa. Solo un sottile strato di ghiaccio li avrebbe separati dalle gelide acque sottostanti, uno strato destinato a sciogliersi. Fu così che il 27 ottobre, Shackleton diede l’ordine di abbandonare la nave.
La situazione era ad un punto di svolta e lo stesso esito della spedizione sembrava essere in bilico. Ognuno di quei 28 uomini si diede da fare per salvare il salvabile. Dalla stiva, che ormai imbarcava sempre più acqua, furono tirate fuori tutte le provviste, i cani, le scialuppe, e tutti gli strumenti utili, compresi i diari di ognuno degli uomini, furono messi in salvo. Il fotografo della spedizione Frank Hurley, si rese conto che il suo materiale, seppur conservato in modo da non far penetrare acqua all’interno, si trovava nella parte sommersa della nave. La storia di più di un anno di quella spedizione era racchiusa in quelle lastre fotografiche, per questo Hurley, facendosi tenere per le gambe da due uomini, si immerse in quell’acqua gelida per poterle recuperare. Per poco non gli costò la vita.
La marcia attraverso il gelo
Abbandonata l’Endurance al suo inevitabile destino, Shackleton e i suoi uomini si accamparono sulla banchisa antistante. Dopo alcuni giorni di terribile agonia, il 15 novembre l’Endurance cedette all’implacabile stretta del ghiaccio e si inabissò definitivamente sotto gli sguardi attoniti degli uomini.
Fu uno dei momenti più difficili dell’intera spedizione: le speranze di fare ritorno a casa sembravano essere svanite. Anche sperare nell’invio di soccorsi sembrava essere totalmente inutile, in quanto sarebbe stato estremamente difficile localizzare quel gruppo di uomini, sperduti in un minuscolo puntino di un immenso e inesplorato continente.
Come se non bastasse, dopo pochi giorni la banchisa iniziò a fratturarsi e a suddividersi in grossi zatteroni, proprio sotto l’accampamento, in un momento in cui quasi tutti gli uomini stavano riposando. Uno di questi, mentre dormiva, cadde nell’acqua gelida attraverso una delle crepe che si era aperta sotto di lui: fu decisamente un brutto risveglio. Shackleton stesso, aiutato dagli altri, riuscirono faticosamente a tirarlo su, prima che morisse per ipotermia. Ancora una volta, dopo aver cercato di salvare il più possibile dall’accampamento, gli uomini si radunarono attorno a Shackleton.
Quest’ultimo comunicò all’equipaggio la sua decisione: fare ritorno nel Regno Unito.
Per farlo, decise di puntare verso l’isola Paulet, a oltre 400 km di distanza, una zona dove potevano sperare nel passaggio di qualche baleniera, procedendo a piedi e caricando tutto il necessario sulle slitte che avrebbero poi trascinato lungo tutto il percorso. Ogni uomo poteva portare solo quello che gli occorreva per sopravvivere (circa un Kg di materiale a testa), tutto il resto doveva necessariamente essere abbandonato. Anche Mrs Chippy, il gatto soriano di Harry McNish, il carpentiere di bordo, dovette essere sacrificato. McNish non perdonò mai Shackleton per questo.
La marcia fu fin da subito durissima e ben presto fu chiaro che l’obiettivo di avanzare al ritmo di 5-6 km al giorno, come auspicato da Shackleton, era una previsione fin troppo ottimistica. Sperduti nella bufera, gli uomini e i cani procedevano con esasperante lentezza, non sapendo se e quando sarebbero riusciti ad arrivare, e se sarebbero bastate le provviste. Con un freddo talmente intenso da arrivare anche fino ai -50° , non si crea sul ghiaccio quel sottilissimo strato acquoso che permette di scivolarci su, come fanno i pattinatori: il risultato è che l’attrito del ghiaccio è talmente forte, che trascinarvi sopra le slitte e le scialuppe equivale come a farlo sull’asfalto.
I giorni passavano e gli uomini proseguivano, sempre più logorati. Le foche e i pinguini, prima abbondanti, iniziarono a diventare sempre più radi, fino a scomparire del tutto. Decidere di intaccare le scorte di cibo in scatola avrebbe significato che, terminate anche quelle, non ci sarebbe stato più niente da mangiare, né per gli uomini né per i cani. Fu proprio a quel punto che Shackleton dovette prendere una straziante decisione.
L’isola Elephant
La stagione estiva si avvicinava e il ghiaccio si sarebbe sciolto da un momento all’altro. Una volta aperto un varco, gli uomini avrebbero potuto mettere in acqua le scialuppe e raggiungere l’isola Paulet via mare. Ma sulle scialuppe non ci sarebbe stato spazio anche per i cani. Dall’inizio del viaggio era nata anche una cucciolata e gli uomini si erano affezionati a quelli che vedevano ormai come fedeli compagni. Tuttavia le provviste andavano esaurendosi e bisognava fare una scelta spietata quanto impopolare, che avrebbe però risolto la situazione.
Tra lo sgomento di quasi tutti i suoi uomini, Shackleton sparò ad ognuno dei circa 70 cani da slitta che avevano accompagnato la spedizione fino a quel momento, risolvendo in un colpo solo il problema delle scorte di carne fresca e quello dello spazio sulle scialuppe, per non parlare di quello di doversi trovare prima o poi a fare i conti con una muta di cani affamati.
Il 9 aprile 1916, il ghiaccio si aprì e gli uomini ebbero così modo di sfruttare l’accesso ad un braccio di mare e mettere in acqua le scialuppe.
Trascinati dalle correnti e illusi dal pack che sembrava non allontanarsi, fu difficile capire dove si stava andando con esattezza. Riuscire a cucinare, dormire e a mantenersi al riparo dai venti polari era estremamente difficile e più che mai l’intero equipaggio si sentiva vulnerabile e in balìa degli elementi. Presto iniziarono a sopraggiungere per alcuni problemi di congelamento, ma Shackleton, continuava incessantemente a incoraggiare i suoi uomini, cercando in tutti i modi di tenere alto il morale.
Egli si preoccupava sinceramente per ognuno di loro: un episodio eloquente fu quando offrì ad uno di questi i suoi guanti, in quanto non riusciva più a remare perché gli si stavano congelando le mani. Al rifiuto dell’uomo di privare dei guanti il suo comandante, Shackleton gli ordinò di indossarli immediatamente, altrimenti li avrebbe buttati in mare. Dopo sette interminabili giorni di navigazione, venne finalmente avvistata la terraferma, così il 14 aprile, le tre scialuppe approdarono sull’isola Elephant, tra l’entusiasmo generale dell’equipaggio.
Ben presto però, l’euforia lasciò il posto a uno sconforto quasi totale.
L’isola era inospitale, coperta solo da ghiaccio e da rocce; le foche e i pinguini erano abbondanti, ma per quanto? Si sarebbero spostati anche loro come hanno fatto gli altri sul continente? Tanto più, quella era una zona dove non si spingevano nemmeno le baleniere e nessuno aveva idea che loro fossero là.
Quando ormai sembrava non esserci altro da fare che rassegnarsi al proprio destino, Shackleton decise di giocarsi il tutto per tutto: modificare una delle scialuppe, rendendola il più stabile e resistente possibile, dopodiché, con pochi compagni, attraversare circa 1500 km di mare tempestoso per tentare di raggiungere la Georgia del Sud, dove avrebbero trovato una stazione di balenieri e infine, tornare con dei soccorsi all’isola Elephant, per salvare gli altri. La scialuppa fu ribattezzata James Caird, in onore di uno dei facoltosi finanziatori della spedizione, e il carpentiere si mise subito al lavoro.
Furono recuperati materiali per dotarla di vele, i bordi furono rialzati di circa 30 cm e fu impermeabilizzata utilizzando una mistura a base di grasso e sangue di foca, inoltre furono imbarcate anche una tonnellata di pietre per aumentare la stabilità. Shackleton scelse i cinque uomini che lo avrebbero accompagnato in questa impresa disperata, dove su un’imbarcazione lunga poco meno di sette metri, avrebbero dovuto affrontare uno dei tratti di mare più tempestosi del mondo, dove non erano rare onde alte anche più di 20 metri.
Questi erano il capitano Frank Worsely, il secondo ufficiale e soldato pluridecorato Thomas Crean, il carpentiere di bordo McNish e due marinai. Per i 22 uomini che sarebbero rimasti, Shackleton disse loro che avrebbero avuto il compito più difficile: sopravvivere. Lasciò quindi il comando al suo secondo Frank Wilde, con l’ordine di provvedere a elaborare un nuovo piano, nel caso in cui non avessero più fatto ritorno.
Contro il mare e le tempeste
Il 24 aprile 1916, la James Caird lasciò l’isola Elephant sotto lo sguardo dei 22 uomini rimasti, quasi tutti convinti che non avrebbero più rivisto i loro compagni. La traversata si rivelò fin da subito un’impresa titanica: venti gelidi e onde non lasciavano un attimo di tregua, anche riuscire ad orientarsi era una sfida. Infatti, il capitano Worsley aveva a disposizione solo un sestante e un cronometro e, per utilizzarli nelle triangolazioni, doveva stare in piedi con due uomini che lo reggevano per le gambe, in quelle condizioni terribili, consapevole che un suo errore avrebbe segnato la condanna di tutti.
Sull’isola intanto, gli uomini avevano attrezzato le scialuppe rimaste alla meglio, facendone dei ripari, e si nutrivano come potevano, quasi esclusivamente di pinguini cotti nel grasso di foca. Alcuni di loro iniziarono, con il passare dei giorni, a soffrire di problemi legati al congelamento e i chirurghi dovettero anche effettuare delle amputazioni. Nonostante il morale stesse calando di giorno in giorno, Frank Wilde ogni mattina, incoraggiava gli uomini a mettere tutto quanto in ordine perché “ oggi arriva il capo “.
Dopo 15 interminabili giorni, l’8 maggio, l’equipaggio della James Caird avvistò finalmente alcune isole della Georgia del Sud.
Per evitare i rischi dovuti ad approdare di notte su coste che non si conoscevano e di cui non si avevano delle carte, Shackleton decise di attendere al largo l’arrivo dell’alba. Dopo poche ore si scatenò una terribile tempesta, con venti tanto forti da essere paragonabili ad un uragano. A lungo gli uomini lottarono, con la forza della disperazione, per non finire fracassati contro gli scogli e buttando fuori con dei secchi, l’acqua che veniva imbarcata copiosamente. Dopo nove interminabili ore, la tempesta cessò e la James Caird poté toccare terra il 10 maggio 1916. Anche se sfiniti, Shackleton e i suoi cinque compagni, erano entusiasti nell’aver trovato finalmente la salvezza, ma un destino crudele gli riserverà un’ultima atroce sorpresa.
L’insenatura conosciuta con il nome di Baia di re Haakon, si estende per poco più di una decina di km lungo la costa meridionale della Georgia del Sud.
Purtroppo però, la stazione di baleniere che tanto speravano di trovare Shackleton e i suoi uomini, si trovava esattamente dalla parte opposta dell’isola, in mezzo, montagne perennemente innevate che nessuno aveva ancora mai esplorato. Quella sera, gli uomini si riunirono attorno al fuoco per decidere il da farsi. La James Caird, provata oltre ogni limite, non era più in grado di riprendere il mare, quindi rimaneva solo un ultimo, ennesimo azzardo da tentare.
Per effettuare quella che sarebbe stata anche la prima traversata della Georgia del Sud, Shackleton decise che avrebbe lasciato lì due uomini, insieme ad un altro non in grado di camminare. Avrebbe poi affrontato le montagne con il capitano Worsely e il secondo ufficiale Crean e, raggiunti i soccorsi, sarebbero poi tornati a riprendere gli altri tre.
Attraverso le montagne
Gli uomini che avrebbero dovuto affrontare quell’ennesima sfida, non erano certo degli alpinisti, infatti nessuno di loro aveva mai scalato una montagna, né tanto meno disponevano di attrezzature adatte. Portarono con loro una corda per tenersi legati, un’ascia e si ricavarono dei ramponi staccando dei chiodi dalla barca e conficcandoli nelle scarpe. Così Shackleton e i suoi due compagni, presero la via attraverso le montagne che, dopo un percorso di circa 30 km, non certo rettilineo, li avrebbe finalmente portati alla stazione Stromness. Il cammino fu estenuante e più volte i tre si trovarono nell’impossibilità di poter proseguire, di conseguenza dovettero più volte tornare indietro sui propri passi e cercare un’altra via.
Enormi e profondi crepacci apparivano all’improvviso in mezzo alla bufera e il pericolo di essere seppelliti da una valanga era sempre dietro l’angolo.
Dopo un giorno e mezzo, quando ormai le forze stavano per abbandonarli, i tre uomini giunsero in vista della stazione Stromness. Era il 21 maggio 1916. Considerate le condizioni precarie, la mancanza di attrezzatura e di mappe della zona, il tempo impiegato per attraversare le montagne della Georgia del Sud risultò eccezionale, tanto che anche oggi, alpinisti esperti e perfettamente equipaggiati, con non poca difficoltà riescono a fare altrettanto.
Entrati all’interno, l’amministratore della stazione, che più di un anno e mezzo prima li aveva visti salpare per l’Antartide, si fece incontro a questi uomini, resi quasi irriconoscibili dalle mille avversità. In un momento memorabile e commovente, Shackleton si rivelò a quell’uomo che subito si diede da fare per offrire aiuto a lui e ai suoi compagni. Quella sera stessa, si tenne un banchetto in loro onore e i balenieri della stazione ascoltarono, con incredibile meraviglia, le vicende di quella spedizione.
Il giorno seguente, i tre uomini lasciati alla Baia di re Haakon, furono recuperati da alcuni marinai guidati da un uomo pulito e ben rasato che, solo successivamente, riconobbero essere il capitano Worsely. Riuscire a raggiungere gli altri 22 rimasti sull’isola Elephant sarà ben più difficile e richiederà tempo e più di un tentativo.
Sull’isola intanto, sono passati più di quattro mesi dalla partenza della James Caird.
Gli uomini sono sempre più malconci per il freddo e la malnutrizione e inoltre, sono quasi tutti convinti che Shackleton non sia riuscito nella sua traversata verso la Georgia del Sud. E come se tutto ciò non bastasse, un nuovo inverno era ormai alle porte.
Trovare una nave per andare a prendere quegli uomini non fu cosa facile, tanto per cambiare.
Il Regno Unito era in guerra e prima di sei mesi non sarebbe stato possibile riuscire a inviare dei soccorsi, perciò Shackleton cercò aiuto in Sud America. Trovate delle navi, furono effettuati tre tentativi, purtroppo andati a vuoto, perché il ghiaccio non aveva permesso di avvicinarsi all’isola. Infine, il 30 agosto 1916, la nave militare cilena Yelcho, riuscì a trovare un passaggio tra il pack e ad arrivare sufficientemente vicino all’isola Elephant, tanto da poter mettere in acqua delle scialuppe e portare in salvo gli uomini.
La vista di una nave e poi di una scialuppa, con il loro comandante in piedi a prua che li salutava commosso, fu un’emozione indescrivibile per quegli uomini, che avevano ormai perso ogni speranza. Il loro recupero fu rapido e Shackleton non mise nemmeno piede sull’isola: infatti, da un momento all’altro c’era il pericolo che il ghiaccio potesse richiudersi. Portati tutti in salvo a bordo dalla Yelcho, si allontanarono definitivamente da quell’isola inospitale.
Epilogo
La notizia del salvataggio della spedizione Endurance e della straordinaria avventura del suo equipaggio, fece rapidamente il giro del mondo. L’arrivo della nave in Sud America fu trionfale, tutti accorrevano per vedere Shackleton e i suoi uomini, che hanno resistito per così tanto tempo e in condizioni così estreme, nel continente antartico.
Il 30 maggio 1917, finalmente la spedizione fece il suo ritorno a Londra. La loro impresa ormai era diventata una leggenda e Shackleton viene accolto come un eroe: con la sua incrollabile determinazione e la rigida disciplina, riuscì infatti a riportare a casa tutti i suoi uomini. Tempo dopo, Raymond Priestley, un cartografo ed esploratore britannico che partecipò con Shackleton alla spedizione Nimrod nel 1907, arrivò a scrivere:
“ Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete alcuna via d’uscita, allora inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton ”.
Bibliografia
- Alfred Lansing – 1999 – Endurance: l’incredibile viaggio di Shackleton al Polo Sud (Endurance: Shackleton’s Incredible Voyage, 1959) – Milano – Corbaccio.
- Caroline Alexander – 1999 – Endurance. La leggendaria spedizione di Shackleton al Polo Sud (1998) – Milano – Sperling & Kupfer.
- Mirella Tenderini – 2004 – La lunga notte di Shackleton – Torino – CDA & Vivalda.
Videografia
- Speciale Superquark: Ernest Shackleton, l’eroe dell’Antartide – Piero Angela – RAI – 2010
- Survival! The Story