Un gatto che fa le fusa “è felice”, una preda che fugge “ha paura”. O almeno, questa è l’impressione che abbiamo, ma le emozioni animali sono difficili da indagare e oggetto di discussioni da secoli. Che tipo di emozioni provano gli animali? Qual è la loro funzione, e come cambiano da specie a specie?[1]
Rispondere a queste domande è importante non solo a fini scientifici, per meglio comprendere il mondo che ci circonda e il modo in cui le emozioni possono guidare il comportamento, ma anche perché può influire molto sul modo in cui consideriamo il benessere animale e quindi il modo in cui ci rapportiamo con le altre specie, dagli allevamenti alla dieta[2].
Cosa sono le emozioni?
Esistono diverse definizioni di “emozione”. La definizione più completa considera le emozioni come reazioni:
- che si manifestano a causa di eventi (sia esterni sia interni, come dei ricordi);
- soggettive;
- difficilmente controllabili;
- multicomponenti (neurali, cognitive e fisiologiche), in cui gli stati emotivi costituiscono la componente principale;
- di durata e intensità variabili;
- che alterano la coscienza, l’attenzione e/o il comportamento dell’individuo[3].
Tuttavia, questa definizione è ritagliata sugli esseri umani: è difficile che si trovino fenomeni identici in altre specie, anche perché ci è impossibile capire quanto le nostre emozioni siano influenzate da norme culturali e dalla nostra percezione. Ma è improbabile che le emozioni siano comparse nell’essere umano dal nulla: verosimilmente, si sono evolute attraverso le specie per selezione naturale. Quindi, alcuni autori propongono di indagare le capacità emozionali degli altri animali considerando che le caratteristiche delle emozioni di una specie possono variare sulla base della sua ecologia e della storia evolutiva, così come avviene, ad esempio, per la cognizione e la locomozione[3, 4].
Quante emozioni esistono?
Dal momento che le emozioni si manifestano secondo un gradiente, i diversi autori considerano l’esistenza di diverse categorie di emozioni principali, da quattro a quindici. Si tratta della teoria delle emozioni di base, che poi si mescolerebbero tra loro a dare tutte le possibilità emozionali esistenti, che noi esseri umani traduciamo con migliaia di diverse espressioni con altrettante sfumature (imbarazzo, vergogna, invidia, curiosità …)[3, 5].
La maggioranza degli autori e degli studi si è concentrata su sei emozioni di base, teorizzate negli anni Settanta dallo psicologo Paul Ekman come emozioni universalmente presenti e manifestate in modo simile nella specie umana[3, 5]:
- disgusto;
- paura;
- rabbia;
- sorpresa;
- gioia;
- tristezza.
Ognuna di queste emozioni sarebbe caratterizzata da peculiari reazioni fisiologiche, ma studi con risonanza magnetica funzionale (fMRI, una tecnica che consente di vedere l’attivazione delle aree cerebrali in tempo reale) non hanno rilevato specifiche basi neurali per le diverse emozioni di base [Gu]. Tuttavia, studi che sfruttano l’EEG (elettroencefalogramma, tecnologia che studia le onde cerebrali) mostrano che ci sono differenze nel tipo di attività cerebrale in base alla situazione in cui si trovano alcuni animali, come i cavalli[6].
Vi è poi la teoria dimensionale delle emozioni, un’ipotesi che può essere alternativa o complementare a quella delle emozioni di base. Secondo questa teoria, tutte le emozioni si ottengono dalla combinazione di due (per alcuni autori tre) dimensioni: quella della valenza (positiva o negativa) e l’intensità di attivazione. Queste si possono rappresentare come due assi su un grafico: ogni punto rifletterà un’emozione diversa, caratterizzata da un certo livello di valenza e di attivazione. Questa ipotesi descrive meglio la continuità delle emozioni, ma è meno utilizzata[5].
Gli animali provano emozioni?
Le emozioni non possono essere osservate o misurate direttamente, e non abbiamo accesso alle esperienze mentali di altri individui. Dal momento che non conosciamo metodi per indagare cosa provino gli altri, ci affidiamo ai nostri schemi mentali, basati sull’esperienza e sulle emozioni che proviamo. Principalmente, gli esseri umani indagano le emozioni altrui mediante l’analisi del linguaggio verbale, paraverbale e non verbale: tutte le parole e le manifestazioni vocali, gestuali, cutanee, odorose da cui traspaiono gioia, rabbia e così via. Questi linguaggi sono codificati, e quindi compresi, a livello specie-specifico: per gli esseri umani, guardarsi negli occhi è un segnale sociale positivo, per cui siamo istintivamente portati a interpretarlo come tale (a seconda del contesto). Ma lo stesso gesto può avere un significato diverso in altre specie: ad esempio, nei cani indica minaccia[1].
A causa di questa variabilità specie-dipendente, capire cosa provino specie diverse dalla nostra è quasi impossibile. Basti considerare che a volte non riusciamo a decifrare altri esseri umani, o persino noi stessi. Per questo il campo di studio delle emozioni animali è spesso considerato confuso. Infatti, alcuni autori lo rifiutano, in particolare i comportamentisti (o behavioristi, dal nome della corrente, behaviorism), secondo i quali se un comportamento non è osservabile non bisogna fare deduzioni[1, 6].
Per molto tempo la maggioranza degli scienziati ha ritenuto che gli animali non umani fossero incapaci di provare emozioni. Nei secoli, sono spesso stati considerati guidati dagli stimoli, come macchine. Questa concezione è ancora diffusa, soprattutto tra filosofi, psicologi e altri studiosi focalizzati su Homo sapiens. Tuttavia, gli studi etologici che indagano le emozioni animali stanno aprendo la prospettiva in modo sempre più ampio: si è riscontrata la capacità di provare emozioni tra insetti, molluschi, mammiferi e uccelli[1, 5].
“Ovviamente, quello che provavo quando ero scimmia ora lo posso riportare solo in termini umani, e quindi lo riporto in modo errato.”
– Franz Kafka (1917)
Funzione delle emozioni
Elliott aveva subito un’operazione a livello del lobo frontale ventromediale, una zona del cervello coinvolta nelle emozioni. La chirurgia lo rese incapace di provare emozioni: non sentiva più amore, rabbia, tristezza, frustrazione. Le sue capacità di ragionamento erano rimaste eccellenti come prima, ma ora impiegava persino giorni a prendere decisioni, anche le più semplici, come sul colore della penna con cui scrivere. Sembra che la sua incapacità decisionale fosse legata alla sua incapacità emozionale. Questo portò gli scienziati a ritenere che le emozioni abbiano un ruolo anche nella razionalità [1].
In particolare, si ritiene che il ruolo evolutivo delle emozioni sia quello di guidare il comportamento e le decisioni: secondo alcuni autori, le emozioni di base sarebbero segnali neurali che collegano la percezione di alcuni stimoli con la coscienza, rendendo noti all’individuo i suoi bisogni e portandolo a soddisfarli. Dal momento che soddisferebbero i bisogni primari, come la necessità di nutrirsi e riprodursi, si ritiene che si siano comparsi precocemente nella storia evolutiva degli animali, accomunandoli[1, 5].
In effetti, sembra che le emozioni scatenino comportamenti istintivi e stereotipati (ovvero sempre uguali a sé stessi quando conseguono a uno stesso stimolo) evolutivamente adattativi. Le reazioni al pericolo, la spinta ad accoppiarsi, la competizione all’interno di una gerarchia, la formazione di reti sociali sembrano derivare dalla possibilità di provare emozioni. Sono emozioni anche quelle che guidano i genitori che si prendono cura dei piccoli ad accudirli; lo si è potuto osservare, ad esempio, in una femmina di scimpanzé (Pan troglodytes) sorda, che non riusciva a occuparsi adeguatamente dei propri piccoli perché non ne udiva i lamenti che tradivano le loro necessità [1, 5].
Come nascono le emozioni?
I meccanismi fisiologici alla base delle emozioni coinvolgono principalmente il sistema nervoso e quello endocrino. Sappiamo che esistono percorsi di attivazione differenti per le diverse emozioni, ma questi aspetti sono ancora in fase di indagine.
Ad esempio, il disgusto nasce nell’insula (o corteccia insulare), una zona della corteccia, e la sorpresa principalmente nell’area ippocampale. Nella nostra specie, la rabbia emerge quando si attiva una regione vicino alla parte inferiore dell’ipotalamo, sopra l’ipofisi. Nei topi (Mus musculus), la stimolazione di quest’area provoca aggressività , che s’interrompe quando la zona non è più attivata[7, 10].
Qualcosa di analogo si osserva per la paura, che negli umani e nei topi si manifesta con l’attivazione di cellule cerebrali specializzate (soprattutto in ippocampo e amigdala), che si disattivano gradualmente quando la minaccia scompare. Quando il pericolo è costante o molto frequente, come in caso di uno shock elettrico che perdura per ore, una volta che lo stimolo scompare la ripresa del topo è molto più lenta: all’individuo risulta difficile imparare che l’ambiente è sicuro. Questo meccanismo potrebbe essere lo stesso alla base del PTSD (disturbo post-traumatico da stress) negli esseri umani[8, 10].
È più difficile capire i meccanismi delle emozioni in animali che presentano strutture neurali molto diverse dalle nostre. Tuttavia, possono presentare strutture omologhe, ovvero di origine diversa ma con stessa funzione. Ad esempio, il sistema nervoso del moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) presenta strutture complesse simili per funzioni e struttura ai circuiti dove risiedono le emozioni dei mammiferi[5].
Inoltre, i neurotrasmettitori (le sostanze che veicolano le informazioni tra i neuroni) e i neuromodulatori (molecole prodotte a livello neurale che regolano i meccanismi dei neurotrasmettitori) possono accomunare specie differenti. Dal momento che alcuni di essi (come la dopamina e la noreprinefrina) sono coinvolti nella regolazione dell’umore e delle emozioni, le specie che le presentano potrebbero presentare processi emozionali simili a Homo sapiens. Ne sono esempi molti insetti e altre specie che hanno circuiti attivati da monoamine, correlate allo stress[5].
Come si manifestano le emozioni?
Ogni animale presenta diversi sensi, sviluppati in modo differente in base alla sua storia evolutiva e all’ambiente in cui vive. Questo fa sì che comunichi in modo diverso. Tuttavia, i movimenti (in particolare, del corpo e del volto) e le vocalizzazioni sembrano essere indizi utili per indagare le emozioni. Alcuni hanno caratteristiche comuni, al punto che un gruppo di volontari è stato capace di indicare lo stato di eccitazione emotiva di alcuni rettili, solo sentendo i loro richiami, in modo abbastanza simile a quanto riscontrato dagli scienziati. In altri, si possono individuare dei pattern: ad esempio, grazie a un esperimento con un sistema di intelligenza artificiale è emerso che le espressioni facciali dei topi potrebbero essere associate alle loro emozioni. In effetti, sembra che i ricercatori allenati riuscissero a collegare le loro espressioni a potenziali emozioni[1, 6].
“Una delle caratteristiche più distintive di un’emozione è che in genere non è nascosta: ne sentiamo e vediamo i segni nell’espressione.”
– Paul Ekman
Qualcosa di analogo si può vedere nella nostra tendenza a legare molto più facilmente con i gatti o i cani piuttosto che con invertebrati o anfibi. Dal momento che sono mammiferi come noi, ci è più semplice empatizzare con loro (anche se talvolta ci capita di proiettare su di loro le nostre emozioni in modo errato). Non a caso gli studi delle emozioni animali si focalizzano sui mammiferi, nonostante rappresentino una piccola minoranza tra le specie animali[1].
Occorre considerare che a volte, e in particolare in alcune specie, le emozioni sono celate o mescolate. Possiamo sorridere o persino ridere quando siamo infelici, urlare quando proviamo gioia, e così via. Inoltre, le emozioni possono influenzarsi a vicenda. Per esempio, sembra che i maschi di moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) siano meno aggressivi della media dopo aver copulato[1, 5].
Come indagare le emozioni animali?
Per indagare le emozioni nelle altre specie animali, gli etologi hanno sfruttato diversi metodi, che fondamentalmente effettuano inferenze sulla base di osservazioni, soprattutto nel loro ambiente. Per una maggiore obiettività , gli etologi non studiano le interazioni degli altri animali con gli umani, ma solo tra loro[1, 6].
- L’osservazione e la sistematizzazione delle reazioni di una specie a certi stimoli. Ad esempio, lo studio delle espressioni facciali dei topi e in altri animali sociali, come alcuni equini (cavalli, asini e zebre), potrebbe fornire indizi sulle emozioni in questi animali.
- La misurazione dell’intensità di un comportamento probabilmente spinto da un’emozione. Ad esempio, la forza con cui una gallina è motivata a spingere una porta pur di appollaiarsi la notte.
- La comparazione tra diverse specie, alla ricerca di reazioni simili di fronte a stimoli analoghi. In generale, la spiegazione più parsimoniosa, e quindi più probabilmente realistica, è che due specie simili che in una situazione analoga si comportano in modo simile hanno motivazioni sovrapponibili.
- L’individuazione dei meccanismi fisiologici che portano noi a provare emozioni, come l’attività cerebrale o il rilascio di ormoni. Ad esempio, l’innalzamento dei livelli di cortisolo nel sangue risulta associato allo stress nei mammiferi[1, 6].
Un gruppo di ricerca ha pensato che, siccome un individuo normale tende a esplorare solo oggetti con connotazione positiva, la noia si potesse individuare nell’interesse nei confronti di stimoli sia positivi sia negativi. Quindi, hanno mostrato che i visoni americani (Neogale vison) maschi poco stimolati possono dedicare molto tempo sia all’odore delle femmine, sia a stimoli neutri come bottiglie di plastica o minacciosi come i guanti di pelle usati dagli agricoltori per catturare i visoni. L’interesse per gli stimoli neutri o negativi non si manifestava quando i ricercatori davano loro tempo extra per giocare. Questo ha mostrato che i visoni potrebbero provare noia[6]. Foto di Tim Hite, condivisa secondo la licenza CC BY 4.0.
Emozioni di base nel mondo animale
Specifici cambiamenti biologici preparano l’organismo a rispondere in modo diverso a diverse emozioni. Le più importanti da indagare sono considerate le emozioni di base perché rispondono a bisogni primari per la sopravvivenza e si sviluppano precocemente sia a livello filogenetico (anticamente nella storia della vita sulla Terra) sia a livello ontogenetico (ovvero nel corso dello sviluppo dell’individuo). Spesso si manifestano in modo stereotipato, quindi sempre uguale a sé stesso, ma almeno in alcune specie (come i primati antropomorfi) emergono con gradazioni o miste[1, 5].
Disgusto
Il disgusto è una reazione negativa alla percezione di oggetti che hanno caratteristiche sgradevoli (come odore, sapore o aspetto) che comporta reazioni di allontanamento e pulizia. Secondo alcuni autori è stata la prima emozione a emergere ed essere promossa dalla selezione naturale, in quanto avrebbe la funzione di proteggere l’individuo da alimenti nocivi o infezioni. Questi elementi comportano una grande pressione selettiva sui viventi, soprattutto tra gli animali sociali, perché vivendo a stretto contatto sono particolarmente facili alla trasmissione di malattie contagiose[1, 8].
Molti aspetti del disgusto sono pressoché universali. Sembra che elementi come le feci e le malattie provochino disgusto negli esseri umani e siano parimenti evitati da molte altre specie. Poi, in moltissimi animali diversi si osservano comportamenti igienici simili di fronte a potenziali rischi di contatto con patogeni. Ad esempio, molti animali dedicano una parte rilevante delle proprie giornate a pulirsi; i crostacei evitano gli individui malati; alcune specie, dagli uccelli agli insetti eusociali, gestiscono i rifiuti organici[8].
I comportamenti che deriverebbero dal disgusto costituiscono il sistema immunitario comportamentale e sono plastici. Sia nella nostra che in altre specie osserviamo che le reazioni al disgusto differiscono da individuo a individuo, in base allo stimolo; ad esempio, il pesce sole (Lepomis gibbosus) presenta diversi gradi di tolleranza nei confronti dei parassiti, forse perché gli individui hanno diversi livelli di rischio parassitario. Inoltre, sappiamo che possono cambiare in base al periodo della vita (come nelle donne in gravidanza, in cui il disgusto è più frequente), alle esperienze individuali e alla cultura[8].
Disgusto e cultura
Apprendere quando applicare le regole di igiene è evolutivamente vantaggioso e, in effetti, è una capacità presente in molte specie diverse. Accade in alcuni primati: se imparano ad associare un sapore sgradito (come l’aloe) a cubetti di un certo colore, lo eviteranno anche quando gli sperimentatori lo avranno sostituito con sapori più apprezzati. Anche le azioni del gruppo di appartenenza influiscono: gli altri membri imitano questi comportamenti, anche se non hanno mai assaggiato i cubetti che avevano un sapore disgustoso. Vediamo un’influenza sociale anche nei ratti (Rattus norvegicus), che sono più stimolati a mangiare un alimento nuovo se un loro compagno ne ha l’odore addosso[1, 8].
In effetti, sembra che il disgusto potrebbe avere un ruolo sociale. Una comunità umana con abitudini simili può essere disgustata dai comportamenti, considerati “meno igienici”, di un gruppo di persone diverso, contro il quale potrebbe “fare squadra” cementando il proprio legame. Nella nostra specie esiste anche il disgusto sociale, ovvero repulsione nei confronti di azioni poco etiche. Potrebbe essere presente anche in alcune scimmie, come suggerito da esperimenti in cui individui di cebo cappuccino (Cebus capucinus) smettevano di cooperare con sperimentatori che, di fronte a loro, avevano trattato male altre persone[1, 8].
Paura
La paura è considerata l’emozione più importante per la sopravvivenza, perché protegge da situazioni pericolose scatenando risposte di difesa. Dal momento che tutti gli animali presentano comportamenti specifici per difendersi dai predatori, la paura sarebbe molto diffusa nel mondo animale, per cui si ritiene che sia stata conservata nel corso dell’evoluzione[5].
Di fronte al pericolo, la gran parte degli animali ha tremori, tensione muscolare, erezione dei peli o delle penne, aumento nel battito cardiaco: sono gli effetti dell’adrenalina, che rendono il corpo pronto a reagire. Tipici comportamenti di difesa che ne conseguono sono il freezing, la fuga, la tanatosi (simulazione di morte), o l’attacco in alcune specie, in particolare tra i predatori. Alcuni animali presentano comportamenti specifici. Ad esempio, nelle specie sociali che presentano gerarchie, quando i subordinati sono affrontati dai dominanti) attuano comportamenti di sottomissione. Un altro esempio riguarda gli scimpanzé, che mostrano gran parte dei denti in un ghigno quando ricevono punizioni o sono minacciate da un dominante: si ritiene che si tratti di un segno di paura[1].
Negli animali che hanno subito traumi, come in vitelli o bonobo che hanno subito l’allontanamento delle madri, i comportamenti legati alla paura si manifestano più frequentemente e durano più a lungo che nei conspecifici. Presentano anche una più grande amigdala, area cerebrale deputata al controllo delle emozioni. Sembra che questo li renda meno capaci di empatizzare con gli individui sofferenti[1].
Rabbia
La rabbia è un’emozione che comporta irritazione o furia. In una situazione di pericolo, spesso segue la paura e si manifesta con comportamenti di avvertimento o di lotta. Quindi, è fondamentale per la difesa della vita dell’individuo, ma è anche utile all’acquisizione o alla preservazione di risorse (cibo, accesso ai partner, nido). I comportamenti aggressivi e di lotta sono spesso più fissi e stereotipati di altri[5, 7].
Alcuni autori ritengono che sia la rabbia a portare gli animali a esibire comportamenti aggressivi come, secondo la specie, sibilare, mordere, graffiare, inarcare la schiena, scoprire le gengive e i denti. I dominanti, nelle specie che presentano gerarchie, sembrano manifestare rabbia nei confronti dei subordinati. I macachi (genere Macaca) tremano e diventano violenti quando gli sperimentatori sostituiscono del cibo gustoso con altri alimenti che non apprezzano[1].
Si pensa che la rabbia possa essere diffusa anche tra gli invertebrati: ragni, formiche, api e scorpioni pungerebbero in seguito a questa emozione, ma è difficile determinare se percepiscano davvero rabbia[Gu]. Tra i comportamenti specie-specifici vediamo un esempio nei bonobo (Pan paniscus), i quali, come negli esseri umani, corrugano la fronte quando minacciano altri individui[1].
Sorpresa
La sorpresa è l’emozione che nasce dalla violazione di un’aspettativa. La sua funzione è quella di motivare a esplorare, per esempio portando ad ambienti nuovi da colonizzare, o a evitare qualcosa di insolito e quindi potenzialmente pericoloso. È importante da studiare perché affinché un animale possa provare sorpresa deve essere capace di una serie di funzioni cognitive importanti: la memoria, la creazione di aspettative e la percezione della loro violazione, l’individuazione delle novità . Inoltre, sembra che potrebbe potenziare l’apprendimento (qualcosa di inatteso “resta più impresso”)[1, 9].
Primati e cani reagiscono in modo simile agli umani di fronte a eventi inattesi: di fronte a trucchi di magia, fissano la mano vuota, cercano ciò che pensano sia scomparso, assumono espressioni contratte (o inclinano la testa nel caso dei cani)[1, 9].
Gioia
La gioia è associata a sensazioni piacevoli come pace ed estasi, per cui il suo significato evolutivo sarebbe quello di rafforzare comportamenti vantaggiosi. Alcuni autori suggeriscono che avrebbe anche un’altra funzione: quella di migliorare la capacità di fronteggiare le situazioni stressanti[5, 7].
Alla base dell’emozione di gioia vi è la dopamina, neuromodulatore che media le risposte di piacere che derivano dalle attività piacevoli (come mangiare e copulare). Le api sembrano essere di umore migliore dopo aver ricevuto un po’ di zucchero: infatti, risultano più reattive. Sappiamo che questo non deriva dalla maggiore energia ma dall’umore perché l’effetto non si verifica quando in loro vengono bloccati i recettori della dopamina[5, 6].
Sembra che il moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) manifesti gioia con attività locomotoria, come si osserva dopo l’atto copulatorio[Gu]. Un’altra manifestazione di gioia si potrebbe osservare negli scimpanzé, nei topi e forse in altre specie che sarebbero in grado di ridere[1].
Tristezza
La tristezza è un’emozione caratterizzata da sensazioni negative che consegue soprattutto alla perdita, alla separazione, alla solitudine o al fallimento. In genere porta a una reazione di allontanamento o isolamento. Si ritiene che faciliti l’apprendimento delle situazioni da evitare e la risoluzione di problemi; potrebbe avere anche un ruolo sociale, perché può stimolare comportamenti di consolazione da parte di altri individui, rafforzando legami[7].
Negli altri animali, la tristezza potrebbe essere individuata nella sua versione patologica, la depressione, che sarebbe possibile osservare in caso di lutto. Ad esempio, alcuni animali monogami che perdono i compagni divengono non reattivi di fronte al pericolo o si lasciano morire: può accadere nelle arvicole della prateria (Microtus ochrogaster) o nelle taccole (Coloeus monedula). Alcuni elefanti ritornano per anni sul luogo in cui un familiare è venuto a mancare[1].
Leggi anche: Tanatologia animale: gli animali percepiscono la morte?
Si pensa che anche i pesci possano cadere in depressione. Pesci zebra (Danio rerio) che divengono dipendenti dall’etanolo, quando sono in astinenza divengono non reattivi e si lasciano cadere sul fondo delle vasche. Se si forniscono loro degli antidepressivi, si riprendono[1].
Dolore nel mondo animale
Il dolore, insieme alla tristezza, è uno degli aspetti più importanti da indagare perché ha un impatto morale che potrebbe influire sulle società . Le specie che sono riconosciute come capaci di provare sofferenza sono molto più tutelate a livello legislativo: ad esempio, la ricerca scientifica su molti mammiferi richiede molti controlli; in alcuni paesi, è ancora consentito cuocere vive le aragoste, ritenute incapaci di provare dolore[2].
Il dolore ha due componenti: una meccanica (la percezione dello stimolo doloroso) e una emozionale, che influisce a livello più complesso sul comportamento. Fino agli anni Ottanta si riteneva che i neonati umani non fossero consci del dolore, per cui non si utilizzavano gli antidolorifici dove necessario. Allo stesso modo, oggi ancora molte specie animali sono ritenute capaci di provare solo dolore fisico, inconscio[2, 6].
Eppure, è stato dimostrato che molti animali evitano i luoghi in cui è stato provocato loro del dolore in passato. Tra questi ci sono mammiferi, polpi, alcuni crostacei e pesci. Quando uno sperimentatore inietta sostanze chimiche irritanti, come l’aceto, sotto le scaglie di un pesce, questo si disinteressa di cibo e altre attività e inizia a strofinare la parte irritata contro degli oggetti. Un comportamento che scompare quando ricevono antidolorifici. Inoltre, come noi, altri animali possono reagire negativamente quando un altro individuo sta soffrendo. Questo si osserva, ad esempio, nella vacca (Bos taurus) che vede il proprio vitello che si agita in preda al dolore[1, 2].
Autocontrollo negli animali non umani
Ma se gli animali provano emozioni, forse non sono in grado di controllarle. Alcuni autori ritengono che gli animali non umani siano incapaci di regolare i propri impulsi. Tuttavia, questo sarebbe spesso anti-adattativo[1].
Ad esempio:
- animali sociali incapaci di anteporre l’importanza di una gerarchia al cibo potrebbero essere esclusi dal proprio gruppo;
- prede che non anteponessero la sicurezza alla fame si estinguerebbero presto;
- predatori incapaci di attendere prima di attaccare le prede fallirebbero gli agguati e morirebbero di fame.
D’altronde, la possibilità di allenare cani, cavalli e delfini mostra la capacità di questi animali di controllare i propri impulsi. Un altro esempio si osserva negli animali che evitano di attuare comportamenti che potrebbero provocare problemi quando sono osservati, ma trovano alternative. Un caso è quello degli scimpanzé, che spesso non copulano quando sono osservati da co-specifici dominanti nel loro gruppo sociale, ma lo fanno di nascosto[1].
Praticamente tutto sembra meno importante della sicurezza,
talvolta anche i bisogni fisiologici.
– Abraham H. Marlow, 1948
Coscienza delle proprie emozioni
La capacità di un animale di limitare i propri comportamenti potrebbe far pensare che sia in grado di capire cosa stia provando. Studiare la consapevolezza non è facile, ma il fenomeno è in fase di indagine[1].
Un gruppo di ricercatori ha mostrato a degli scimpanzé un tablet che raffigurava scene piacevoli (come un umano che portava frutta) o spiacevoli (come un veterinario con una pistola a dardi) per poi mostrare due opzioni fra cui selezionare: un volto “felice” (di un individuo che rideva) e un volto corrucciato. Le scimmie associavano correttamente le due immagini. Quando vedevano situazioni sgradevoli, la loro temperatura corporea scendeva significativamente: negli esseri umani, questo indizio era associato alla paura o alla tristezza. L’esperimento suggerisce non solo che gli scimpanzé possono provare emozioni, ma anche che potrebbero essere consapevoli di cosa sentono[1].
Complessità delle emozioni animali
Gli aspetti da indagare sono moltissimi. Ad esempio, gli altri animali possono provare emozioni legate al trascorrere del tempo (come speranza per il futuro o gratitudine per eventi passati)? In effetti, sembra di sì, almeno negli individui adulti tra le grandi scimmie e forse in altre specie. Per esempio, gli scimpanzé e i vampiri veri di Azara (Desmodus rotundus) condividono il cibo con i membri dei propri gruppi, ma interrompono questa condivisione con i membri che non ricambiano la gentilezza. Anche i corvi sembrano ricordare e potrebbero provare gratitudine: sono noti per portare regali a coloro che li nutrono con costanza[1, 11].
Inoltre, è probabile che ogni specie mostrerà certi tipi di emozioni in modo prevalente, così come alcuni suoi sensi sono più sviluppati di altri[1, 5].
Quanto è probabile che l’immensa ricchezza della natura rientri in un’unica dimensione? Piuttosto, non dovremmo aspettarci che ogni animale abbia la sua vita mentale, la sua intelligenza e le sue emozioni, adattate ai propri sensi e alla propria storia naturale? Perché la vita mentale di un pesce e di un uccello dovrebbe essere la stessa?
Prendiamo predatori e prede. Ovviamente, i predatori hanno un repertorio emotivo diverso rispetto alle specie che hanno bisogno di guardarsi costantemente alle spalle. I predatori emanano una fredda sicurezza in se stessi (tranne quando incontrano il proprio partner), mentre le prede conoscono cinquanta sfumature di paura.
– Frans de Waal
Gli studi su questi argomenti sono ancora pochi e nuovi metodi di indagine potrebbero renderli più attendibili e persino misurabili. Per il benessere animale, è importante anche una collaborazione tra scienziati e filosofi che si occupano di etica[2, 6].
Referenze
- Frans de Waal, 2019. Mama’s Last Hug: Animal Emotions and What They Teach Us About Ourselves. Granta Books, ISBN:039335783X
- Andrews K & de Waal FBM, 2022. The Question of Animal Emotions. Science 375 6587:1351-1352. doi: 10.1126/science.abo2378.
- Cowen AS, & Keltner D, 2017. Self-report captures 27 distinct categories of emotion bridged by continuous gradients. Proceedings of the National Academy of Sciences, 114(38), E7900–E7909. doi: 10.1073/pnas.1702247114.
- Paul ES & Mendl MT, 2018. Animal emotion: Descriptive and prescriptive definitions and their implications for a comparative perspective. Appl Anim Behav Sci 205:202-209. doi: 10.1016/j.applanim.2018.01.008. PMID: 30078924; PMCID: PMC6041721.
- Gu S, Wang F, Patel NP, Bourgeois JA, & Huang JH, 2019. A Model for Basic Emotions Using Observations of Behavior in Drosophila. Front. Psychol. 10:781. doi: 10.3389/fpsyg.2019.00781.
- Alla Katsnelson, 2022. How do we know what emotions animals feel? ScienceNews.
- Rui MJ, de Oliveira FCS, Fajardo RS, et al., 2018. Psychobiology of Sadness: Functional Aspects in Human Evolution. EC Psychol Psychiatry 7.12: 1015-1022.
- Curtis V, de Barra M, & Aunger R., 2011. Disgust as an adaptive system for disease avoidance behaviour. Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci 12;366(1563):389-401. doi: 10.1098/rstb.2010.0117. Erratum in: Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci 27;366(1568):1320.
- Barto A, Mirolli M, & Baldassarre G, 2013. Novelty or Surprise? Front. Psychol. 4:907. doi: 10.3389/fpsyg.2013.00907.
- Jon Hamilton, 2022. In jumpy flies and fiery mice, scientists see the roots of human emotions. National Public Radio.
- Carter Gerald G, & Wilkinson Gerald S, 2015. Social benefits of non-kin food sharing by female vampire bats. Proc R Soc B 2822015252420152524. Doi:
10.1098/rspb.2015.2524.