Parlare di Ego è difficile. Soprattutto perché adesso gli psicologi usano altri termini, come “Sé”, ma anche per altri motivi. Primo, molti hanno scritto moltissimo sul tema. Secondo, i molti che hanno scritto non si sono preoccupati di essere coerenti l’uno con l’altro, nemmeno nel definire il termine. Terzo, l’argomento è oggettivamente complesso. Il fatto che non si è ancora giunti a un consenso scientifico non aiuta. Ma non c’è da disperarsi perché gli psicologi sperimentali hanno ottenuto diversi risultati molto interessanti e gli onnipresenti handbook – sul serio, esiste qualcosa di meglio per approfondire un argomento? – ci illuminano il percorso.
Cosa è successo prima di oggi?
Gli inizi
Se si parla di storia del Sé si parla di storia della psicologia e dunque ha senso muovere i primi passi alla fine dell’Ottocento, ossia quando la psicologia diventò una scienza. L’anno in cui questo avvenne – abbiate pazienza, è una delle poche date che scriverò – fu il 1879, l’anno di fondazione del primo laboratorio di psicologia sperimentale, in Germania [1]. La psicologia quindi è giovane, ha solo centoquaranta anni.
No, il laboratorio non l’ha fondato Freud: lui era austriaco e ai tempi studiava ancora il sistema nervoso delle lamprede [2] (scommetto che non ve lo aspettavate).
Ok, dunque la psicologia diventò una scienza in quel periodo. Quando fu che cominciarono a parlare del Sé? Undici anni dopo, nel 1890. Anche stavolta non fu Freud, ma un altro grandissimo della psicologia, William James. Quell’anno James scrisse il monumentale Principi di psicologia e dedicò l’intero capitolo 10 al Sé. Lo fece prendendo le mosse dalla filosofia; d’altronde la psicologia è nata così, dalla filosofia, come ha fatto il resto delle discipline scientifiche. Nei millenni precedenti infatti il Sé era oggetto di speculazione da parte di filosofi e religiosi non necessariamente occidentali: la tradizione induista dello yoga – quello vero – considera molto importante il Sé; per esempio le Upanishad parlano di “Atman”, un termine che può essere tradotto con “Sé” [3; 4].
Psicoanalisi
Torniamo a noi. James scrisse del Sé. E poi? Poi arrivò Freud. Freud parlò del Sé, chiamandolo Io o Ego, e lo considera all’interno della sua teoria del funzionamento della mente [5]. Lo fa indipendentemente da James e dopo diverso tempo – nel 1923, trentatré anni dopo – e infatti ne parla in modo del tutto diverso. Queste idee vengono approfondite dai cosiddetti psicologi dell’Ego. Vengono chiamati così quegli autori psicoanalitici – tra cui Anna Freud, figlia di Sigmund – che sviluppano e modificano le idee di Freud [6].
La crisi e il ritorno
Ma la tradizione psicoanalitica è rimasta indipendente da quella scientifica (e forse cominciate a capire da quale parte sto). Mentre Freud e gli psicologi dell’Ego speculavano, il resto della psicologia trascurava il tema del Sé [7]. Dovete sapere che ai tempi, a grandi linee dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, nella psicologia dominava il Comportamentismo, una corrente che studiava solo il comportamento osservabile e rinunciava a dire qualsiasi cosa su ciò che non era direttamente visibile, come gli stati interni.
O come concetti astratti come l’Io, appunto. Questi ritornarono in voga solo dopo che il Comportamentismo venne rimpiazzato, tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Da allora si è avuta l’esplosione delle ricerche empiriche e delle teorie su vari temi del Sé. Sono nate decine di termini, sono state pensate decine di concetti anche diversi tra di loro [7].
Ma quindi di cosa parliamo?
La domanda è lecita, visto che ci sono almeno due tradizioni indipendenti – quella di James e quella psicoanalitica – e moltissime linee di ricerca più recenti. Andiamo con ordine.
William James e il Sé
Partiamo con William James. Egli chiamava Sé (“Self”) due cose legate tra loro: da una parte il Sé che è conosciuto, dall’altra il Sé che conosce. Il primo include tutto ciò che una persona considera come parte di sé: tutto ciò che la persona considera appartenente a sé, il proprio corpo, i propri pensieri, persino gli oggetti che possiede; le emozioni che ne derivano, come l’auto-compiacimento; e le azioni che la persona intraprende, come il mantenimento di sé. Questo è il sé che una persona conosce di se stessa, ciò che sente essere se stesso [8].
Queste idee sembrano banali perché per noi sono scontate. È ovvio che noi siamo il nostro corpo, i nostri pensieri. Diventano meno scontate quando si scopre che in certe condizioni le persone percepiscono il proprio corpo come non proprio. Nel Body Integrity Identity Disorder le persone avvertono una parte di sé, per esempio una gamba, come non propria, al punto di volerla amputare [9]. Quelli che riescono a farlo sono regolarmente felici, ma la questione è al centro di un dilemma etico.
Viceversa, è facile illudere qualcuno facendogli credere di avere una mano che, in realtà, è di un manichino di gomma. Basta far sedere la persona, nascondergli il braccio, fargli vedere la mano di gomma e toccare simultaneamente entrambe le mani – quella di gomma e quella reale – sugli stessi punti: la persona avvertirà i tocchi con il tatto e li vedrà fatti sul manichino. Lentamente avvertirà la mano di gomma come propria, anche se sa benissimo che non è possibile; e reagirà spaventato alle minacce alla mano di gomma, proprio come se fosse la sua. Si chiama, molto fantasiosamente, “rubber hand illusion” [10].
Torniamo a James. Prima parlavo del primo tipo di Sé di James. E il secondo? Il secondo è quel Sé che conosce. Il primo era il Sé come conosciuto; questo è il sé come conoscente, come fonte di coscienza. È qualcosa di molto più sfuggente e vago, che ancora non sappiamo descrivere, figuriamoci spiegare [8].
L’Ego nella psicoanalisi
Dopo James è la volta della psicoanalisi. Freud raggruppava le funzioni mentali in tre categorie: l’Es, la fonte dei desideri; il Super-io, le regole che l’individuo ha internalizzato; e l’Io, che cerca di gestire Es e Super-io per far fronte al mondo reale [11]. Se l’Es vuole la gratificazione e non sente ragioni, se il Super-io vuole rispettare le regole e non sente ragioni, l’Io deve cercare di accontentare entrambi, scendendo a patti con la realtà per soddisfare l’Es il più possibile [11]. L’Ego dunque ha senso nella teoria psicoanalitica.
Come accennavo prima, i cosiddetti psicologi dell’Ego ponevano particolare enfasi all’Io. Le “difese dell’Io” diventano oggetto di studio e di attenzione durante la terapia, anziché un ostacolo alla comprensione dell’inconscio, come pensava Freud [6].
Sviluppi moderni
Come si diceva, da decenni il sé è stato investigato empiricamente in psicologia, dopo le speculazioni iniziali. C’è una gran quantità di termini e di significati, tanto che gli autori dell’Handbook of Self and Identity del 2012 li raggruppano in cinque macro-aree [7]. Non ci serve entrare nei dettagli, basta sapere che i significati che hanno senso – a giudizio degli autori – sono simili a quelli individuati da William James.
Per esempio, un concetto molto studiato è l’autostima, per indagarne le cause e le conseguenze sul funzionamento della persona [12]. Un altro è quello di concetto di Sé, per capire cosa fa parte del Sé e come le persone si valutano [13]; è evidente la somiglianza con quello che diceva James.
Per fare un esempio tra le centinaia, è stato mostrato più volte che i fatti relativi a sé vengono ricordati meglio dei fatti relativi agli altri [14]. Oltre a questi risultati empirici, più recentemente sono comparse altre linee di ricerca molto interessanti sulle differenze del concetto di Sé nelle diverse culture, sulle basi neurali del Sé e sulla sua filogenesi.
Qualche esempio interessante
Le differenze culturali nel Sé
Il capitolo 27 dell’handbook [15] riassume le ricerche sulle differenze culturali nel concetto di Sé. Il tema principale è la differenza tra il concetto di Sé indipendente delle culture occidentali e quello interdipendente delle culture orientali. Nelle culture occidentali l’individuo è concepito come unico e indipendente, in quelle orientali come parte di un gruppo e interdipendente con gli altri membri. Empiricamente, per esempio, se si chiede a una persona dell’Asia dell’est o americana di rispondere alla domanda “Chi sono io?”, si ottiene un numero molto diverso di riferimenti al gruppo di appartenenza.
Queste differenze hanno effetti sulla persona. Cambiano le motivazioni, che da una parte sono interne e dall’altra determinate dalla società. Cambia l’autostima, sia negli standard che si cerca di raggiungere – realizzazione personale o aspettative della società – sia nel modo per stabilire se gli standard si sono raggiunti – frutto delle valutazioni personali o del feedback degli altri. Cambia addirittura il modo in cui la persona si percepisce vivere nel mondo: in prima persona o come visto da qualcun altro.
L’immancabile paragrafo sulle aree cerebrali
I risultati
A parlare di questo è il capitolo 29 [16]. In generale la corteccia frontale sembra coinvolta in molte funzioni relative al Sé: un danno a questa parte della corteccia porta non solo a cambiare la propria personalità – come nel caso di Phineas Gage – ma anche ad avere poca consapevolezza della propria lesione.
Oltre a queste cose, scoperte studiando i pazienti che hanno lesioni al cervello, i ricercatori hanno individuata un’area coinvolta nel Sé.
L’area è quella nell’immagine, ed è chiamata corteccia prefrontale mediale. Perché i ricercatori pensano che abbia un ruolo nel Sé? È semplice. Quando una persona pensa a cose legate a sé – per esempio, gli si chiede “Quanto ti descrive la parola ‘onesto’?” – attiva quell’area del cervello più rispetto a quando pensa la stessa cosa legata agli altri – “La parola ‘onesto’ quanto descrive Donald Trump?”. Stessa cosa con altri compiti in cui la differenza cruciale è la differenza sé/altri.
Quindi quella è “l’area del Sé”? Ah, vi piacerebbe che le cose fossero così semplici. In realtà no, scoprire il passaggio dall’attività cerebrale alle funzioni mentali è molto più difficile. Infatti la stessa area si attiva di più quando la persona pensa agli altri rispetto a quando è a riposo; quindi sembra coinvolta nel pensiero sociale più in generale. Inoltre anche un’altra area vicina – se due aree cerebrali sono vicine è probabile che siano coinvolte in funzioni simili – si attiva in casi in cui si parla di sé. Ma con una distinzione cruciale. L’attivazione cambia a seconda della cultura di appartenenza, individualistica o collettivistica (vedi il paragrafo precedente) e il task: si attiva di più in persone di cultura individualistica che danno dei giudizi generali su se stesse; viceversa, si attivano di più in persone di cultura collettivistica che danno dei giudizi contestuali di se stesse.
Come dobbiamo interpretare questi risultati
Insomma, è tutto complicato. Questi risultati ci dicono ancora una volta che il cervello non segue le distinzioni che facciamo noi: non esiste “un’area del Sé” che si attiva e fornisce l’esperienza soggettiva del Sé. Esistono delle funzioni cerebrali da cui emergono le funzioni per come le concepiamo noi.
Soprattutto bisogna essere cauti. Innanzitutto bisogna aspettare che questi risultati vengano replicati. Secondo, la ricerca è comunque agli inizi, quindi chissà quanti altri risultati arriveranno. Terzo, i risultati dicono quale area, in media, si attiva di più durante un compito rispetto a un altro; non dicono granché sul come il cervello elabori l’informazione. Quarto, sappiamo già che i singoli neuroni portano informazioni cruciali; ma la corteccia sopra citata ne conta qualche centinaio di migliaia (in un millimetro cubo di corteccia cerebrale umana l’ordine di grandezza è delle decine di migliaia [17]), quindi i risultati sono molto grezzi. Quinto, la caratteristica tipica del cervello è la connessione tra le sue varie parti, quindi attribuire una funzione a una sola area è una semplificazione. Infine, le neuroimmagini sono solo uno dei metodi di studio delle neuroscienze.
Studi sugli animali
Se ci pensate bene questa cosa suona strana. Come è possibile studiare se gli animali hanno un Sé? In effetti è difficile, loro non possono rispondere a dei questionari o fare dei task di psicologia cognitiva. Per questo la metodologia è indiretta, e coinvolge l’uso di uno specchio e un segno.
Anche stavolta ci illumina un capitolo dell’handbook, il 30 [18]. La linea di ricerca risponde a questa domanda: un animale che si vede allo specchio si riconosce? Per rispondere a questa domanda i ricercatori sono soliti marcare l’animale in qualche punto strategico, come le sopracciglia, e metterlo davanti a uno specchio; è il cosiddetto mark test. A seconda di come reagisce – ci sono ovviamente delle variazioni a seconda della specie – stabiliscono se l’animale si è riconosciuto o meno.
Un dettaglio bizzarro: la stessa prova si usa anche con i neonati, che non sono in grado di parlare. Dal punto di vista di un freddo ricercatore non c’è questa gran differenza tra uno scimpanzé e un neonato. Pensateci, la prossima volta che uscite con un etologo.
Ad ogni modo quali animali superano il mark test? Sembra che scimpanzé, gorilla, oranghi, siamanghi e gibboni, bonobo, delfini, orche e gazze ce l’abbiano fatta.
Bibliografia
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Collegamenti esterni
- The Principles of Psychology, by William James – Archive.org
- Is that my real hand? – National Geographic