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Ecolocalizzazione: vedere con l’udito

Secondo l’enciclopedia Treccani, l’ecolocazione o ecolocalizzazione è “la capacità di alcuni animali adattati alla vita notturna o che vivono in zone dove la vista è più limitata (per es., in acque profonde, in grotte) di orientarsi nell’ambiente o di individuare ostacoli (o prede o individui conspecifici), tramite l’emissione di ultrasuoni e l’ascolto degli echi riflessi dagli oggetti e dall’ambiente“. Si tratta dunque di un modo di percepire lo spazio circostante che permette, al pari della vista, di ricostruire una rappresentazione di ciò che si ha intorno.

L’ecolocazione, sebbene sia associata dai più ai pipistrelli, è stata documentata anche nei cetacei odontoceti e in alcuni uccelli[1, 12]. Informazioni generali sulla scoperta dell’ecolocazione e sul meccanismo che ne è alla base saranno seguite da un’analisi dell’ecolocalizzazione nei tre gruppi sopracitati.

La scoperta dell’ecolocazione

La scoperta dell’ecolocazione può essere in qualche modo attribuita alle prime osservazioni dell’abate italiano Lazzaro Spallanzani, che nel 1793 dimostrò come i pipistrelli fossero ancora capaci di volare agevolmente, senza impattare con eventuali ostacoli, anche se resi ciechi sperimentalmente. Essendo gli ultrasuoni emessi da tali animali non udibili per l’orecchio umano, restava ancora oscuro il meccanismo di orientamento nello spazio da essi adottato. L’anno successivo, il naturalista svizzero Charles Jurine, appurò che i pipistrelli riuscivano ad orientarsi grazie all’udito, osservando l’incapacità di questi ultimi di volare evitando ostacoli se il loro dotto uditivo veniva tappato con della cera[6].

Circa 20 anni dopo, Alexander von Humboldt, in una spedizione in Sud America, scoprì un particolare uccello, il guaciaro (Steatornis caripensis Humboldt, 1817) che sembrava riuscire ad orientarsi nelle buie caverne in cui nidifica attraverso l’emissione di “click” udibili anche dall’uomo[1]. Tuttavia, per un esposizione chiara e completa del meccanismo di ecolocazione bisognerà attendere il 1938, con gli studi di Donald Griffin e G. W. Pierce, che coniarono il termine stesso di ecolocalizzazione o “bio-sonar”. Nel corso degli anni Cinquanta del Novecento fu scoperto che anche i cetacei, e in particolare alcune specie di delfini, erano in grado di utilizzare tale sistema percettivo[6].

Caratteristiche base e aspetti evolutivi

Il meccanismo alla base dell’ecolocazione è piuttosto semplice. Sono necessari una fonte sonora e un sistema uditivo di ricezione. L’animale emette un suono ad una determinata frequenza, che è essenzialmente un’onda di compressione in grado di propagarsi in un mezzo (nell’aria o in acqua). Quando le onde sonore incontrano un ostacolo alla loro propagazione, vengono in parte riflesse verso l’animale che le ha emesse sotto forma del cosidetto “eco di ritorno“.

Percependo tali onde riflesse, l’animale è in grado di ricostruire un’immagine dello spazio che ha attorno, attraverso processi integrativi a carico del sistema nervoso centrale. In particolare, dal tempo intercorso fra l’emissione di un suono e la percezione del suo eco, si può stimare la distanza dell’oggetto contro il quale le onde sonore hanno “rimbalzato”[6].

A questo punto è interessante interrogarsi sulle motivazioni legate allo sviluppo dell’ecolocazione e sull’utilizzo diffuso di suoni a elevate frequenze (ultrasuoni).

L’ecolocazione nasce probabilmente come sistema percettivo da utilizzare in ambienti con luce molto scarsa o addirittura assente. Nel mondo animale, molte specie adattate a vivere in contesti con luce particolarmente debole (quali animali notturni o animali marini di profondità) hanno sviluppato occhi particolarmente grandi o comunque molto efficienti, per riuscire a vedere anche in condizioni estreme. Probabilmente l’ecolocazione si sviluppò come sistema alternativo in condizioni in cui la luce, estremamente scarsa o assente, rendeva più vantaggiosi sistemi percettivi basati su meccanismi differenti.

Ambienti di questo tipo potrebbero essere le grotte, dove in effetti vivono le poche specie di uccelli dotate di ecolocazione, oppure gli ambienti acquatici ad elevata torbidità, in cui la rifrazione della luce data dalle particelle in sospensione rende inutile qualsiasi sistema visivo. In contesti come quest’ultimo è interessante notare come alcuni animali abbiano sviluppato ulteriori sistemi alternativi per la percezione, quali l’elettrocezione.

Concentriamoci però sull’ecolocalizzazione e, chiarite in breve le necessità che ne guidarono lo sviluppo, approfondiamo la ragione dell’utilizzo di ultrasuoni. La quasi totalità delle specie in grado di orientarsi per mezzo di onde sonore utilizza suoni a frequenza elevatissima, in genere superiore ai 20 000 Hz, non udibili dall’orecchio umano. La ragione dell’utilizzo di tali frequenze sta nelle proprietà fisiche dell’onda sonora stessa, che viene in gran parte riflessa solo da oggetti con dimensioni superiori alla sua lunghezza d’onda.

Essendo lunghezza d’onda e frequenza inversamente proporzionali, avere una maggior frequenza di emissione permette di diminuire la lunghezza d’onda e di rilevare dunque anche oggetti molto piccoli, che non rifletterebbero efficaciemente suoni con lunghezze d’onda superiori.

Gli ultrasuoni sono dunque stati selezionati da meccanismi evolutivi poiché garantiscono una buona risoluzione nella ricostruzione dell’ambiente circostante, che risulterebbe più approssimativa se venissero utilizzate onde a frequenza inferiore. Vedremo poi come i pipistrelli sono spesso in grado di modulare frequenze ed ampiezze delle loro emissioni sonore, al fine di variare le loro capacità ricettive e discriminatorie, adattandole al contesto ambientale[6, 12].

Ecolocazione nei pipistrelli

I pipistrelli, mammiferi dell’ordine Chiroptera, sono il gruppo di animali maggiormente noto per la loro capacità di orientarsi emettendo ultrasuoni. Occorre ricordare che i pipistrelli non sono però ciechi, e sono anzi spesso dotati di una buona vista. L’ecolocazione è dunque utilizzata per orientarsi in volo o cacciare in condizioni che la rendono maggiormente vantaggiosa rispetto alla vista. I suoni utilizzati dai pipistrelli per orientarsi variano in durata da o,3 a 300 ms, e in frequenza dai 12 ai 200 kHz. Nonostante non siano udibili dall’orecchio umano, si tratta di suoni di elevata intensità[12].

Aspetti anatomici

I pipistrelli emettono ultrasuoni grazie ad una particolare morfologia della loro laringe. I suoni escono dalla bocca o da aperture nasali spesso modificate. Tale sistema di emissione è accoppiato ad un sistema uditivo in grado di recepire gli echi di ritorno a determinate frequenze. Sono dunque presenti parti dell’orecchio interno con recettori specializzati, accompagnate da padiglioni auricolari in genere molto sviluppati. Il sistema ricettivo è direttamente connesso al sistema nervoso centrale, che ricostruisce posizione e distanza degli oggetti integrando i segnali provenienti dai due lati del capo.

Dal tempo intercorso fra l’emissione di un suono e la ricezione dell’eco di ritorno è infatti possibile stimare la distanza a cui si trova l’ostacolo o l’eventuale preda. Per definire la posizione dello stesso, l’encefalo compara i segnali giunti all’orecchio destro e sinistro, rilevando eventuali pattern di interferenza[6].

Particolari morfologie del naso e di padiglioni auricolari, sviluppatesi in differenti specie di chirotteri in funzione dell’ecolocazione. Da sx a dx : Aselliscus stoliczkanus, Rhinolophus paradoxolophus e Tadarida teniotis.

Problemi e soluzioni

Naturalmente, affinché il sistema funzioni, l’animale deve poter sentire al meglio gli echi di ritorno dei suoni che emette. Solitamente, l’orecchio di un pipistrello è programmato per recepire suoni alla stessa frequenza di emissione tipica della specie, un po’ come se l’orecchio fosse “accordato” per percepire la stessa “nota” emessa dalla laringe. Ciò potrebbe portare ad alcuni problemi di confusione percettiva nella fase di emissione del suono, che giungendo immediatamente alle orecchie, potrebbe essere interpretato come un eco di ritorno, falsando la percezione spaziale. Per risolvere tale problematica, specie differenti di chirotteri hanno evoluto strategie differenti[6].

Alcune specie di pipistrelli sono in grado di percepire echi di ritorno solo dopo l’emissione di un suono da parte della laringe e non durante l’emissione stessa. Ciò avviene perché durante l’emissione di suoni un meccanismo nervoso induce la contrazione della muscolatura che regola la rigidità degli ossicini dell’orecchio interno, rendendo il pipistrello”sordo” per alcuni istanti.  L’udito torna poi immediatamente ricettivo per percepire eventuali onde riflesse.

I pipistrelli del genere Rhinolophus e anche, per convergenza, Pteronotus parnellii, presentano un meccanismo differente. I loro ultrasuoni sono maggiormente soggetti all’effetto Doppler rispetto a quelli di altri pipistrelli, e questi chirotteri si sono dunque adattati per utilizzare tale effetto a proprio vantaggio (Doppler shift compensation)[12]. L’effetto Doppler è l’apparente variazione della frequenza di un’onda percepibile quando la sorgente sonora e il ricevitore sono in moto relativo uno rispetto all’altra. In particolare: se sorgente e ricevitore si avvicinano, la frequenza percepita sarà maggiore di quella emessa, altrimenti si avrà l’effetto contrario; l’effetto Doppler è non a caso responsabile dell’apparente variazione del suono emesso dalle sirene di un’ambulanza in movimento.

Quando il pipistrello utilizza l’ecolocazione in volo, è esso stesso una sorgente di suoni che si muove. Il suono parte dall’animale quando questo si trova in una determinata posizione, rimbalza contro un’oggetto, e torna al chirottero. Se quest’ultimo sta avanzando in volo, però, riceverà l’eco di ritorno quando si troverà in una posizione leggermente differente rispetto a quella in cui si trovava all’atto dell’emissione del suono.

Questo perché l’animale, nell’intervallo di tempo fra emissione e ricezione, si è mosso ad una determinata velocità. Idealmente dunque sorgente e ricevitore si sono avvicinati, e il pipistrello percepirà una frequenza leggermente superiore rispetto a quella emessa. I membri del genere Rhinolophus e Pteronotus parnellii sono in grado di sfruttare tale effetto, emettendo ultrasuoni a frequenza tanto minore quanto maggiore è la loro velocità di volo.

In tal modo si assicurano che le frequenze di ritorno che giungono al loro orecchio siano nel loro range percettivo (per le modificazioni dovute all’effetto Doppler). Non è necessario quindi inibire l’udito durante l’emissione di ultrasuoni da parte della laringe, poiché questa emetterà suoni a frequenze più basse di quelle percepibili dall’orecchio, di modo che quest’ultimo potrà ascoltare soltanto gli echi di ritorno, opportunamente alterati nella frequenza dall’effetto Doppler[6].

Modulare gli ultrasuoni

Come già anticipato in precedenza, i pipistrelli sono anche in grado di modulare gli ultrasuoni emessi per modificare la risoluzione della loro percezione spaziale, controllando il grado di definizione della rappresentazione dell’ambiente circostante elaborata dall’encefalo. Come possono farlo? Modulando la banda di emissione degli ultrasuoni. Precedentemente si è parlato di emissione di suoni a frequenze specifiche e di ricezione altrettanto restrittiva; in realtà i chirotteri hanno un certo range di frequenze che sono in grado di emettere e di percepire. Ne consegue che specie diverse possono usare frequenze diverse che si adattano meglio all’ambiente in cui il pipistrello opera.

Inoltre, uno stesso individuo di una singola specie può decidere se emettere segnali a “banda larga” o a “banda stretta”. I segnali a banda larga sono suoni più lunghi e con un range di frequenze più vasto, che hanno una portata maggiore e sono in genere utilizzati per individuare prede in lontananza. Una volta individuata la preda, in genere un piccolo insetto, questa va localizzata con precisione. Il predatore passa quindi ad un’emissione a banda stretta, caratterizzata da suoni molto più brevi in rapida successione, con frequenze molto alte in un range ristretto. In tal modo il pipistrello focalizza, aumenta la risoluzione, e individua al meglio la preda in movimento. Tale serie di emissioni viene indicata con il termine feeding buzz[6].

Evoluzione dell’ecolocazione nei pipistrelli

Da dove derivano adattamenti così efficienti e sofisticati? Probabilmente l’ecolocazione è comparsa a partire da specie di chirotteri non dotate di meccanismi di bio-sonar, che hanno sviluppato laringi modificate e apparati uditivi specializzati. Tali caratteristiche sono poi state perse in alcune specie attuali dalle abitudini diurne, che si affidano unicamente alla vista. Per meccanismi più complessi come l’emissione nasale o la compensazione dell’effetto Doppler, si ipotizzano origini multiple in gruppi di specie differenti. Fenomeni di convergenza con diversi eventi di comparsa in linee filetiche differenti sono ipotizzati da alcuni studiosi anche per il meccanismo stesso di ecolocazione[7].

L’insorgere dell’ecolocazione è stata probabilmente favorita anche dal suo costo energetico molto ridotto, trascurabile se comparato al dispendio calorico necessario al volo, e sicuramente minimo se si considerano gli enormi vantaggi che tale sistema può apportare in alcuni contesti[10]. Lo sviluppo dell’ecolocalizzazione o bio-sonar da parte dei pipistrelli ha anche innescato un’interessante fenomeno coevolutivo con le falene di cui i chirotteri si nutrono abitualmente.

Leggi anche: I chirotteri tra mistero e realtà.

Ecolocazione nei cetacei

I cetacei utilizzano un sistema di ecolocazione simile a quello dei pipistrelli, ma con caratteristiche anatomiche differenti. Le capacità di risoluzione nella rappresentazione ambientale e di portata degli ultrasuoni sono in genere inferiori nei mammiferi marini, a causa delle proprietà fisiche dell’acqua. Nonostante ciò, anche i cetacei sono in grado di utilizzare efficacemente l’ecolocazione per cacciare in acque profonde o particolarmente torbide, nelle quali filtra poca luce. I meccanismi di ecolocazione di questi mammiferi marini sono naturalmente analoghi rispetto a quelli dei pipistrelli: le similitudini fra i due sistemi sono dunque frutto di una convergenza evolutiva.

Leggi anche: Cetacei: evoluzione e diversità dei mari italiani eI cetacei nel Mediterraneo.

Occorre puntualizzare che l’ecolocazione è una tecnica percettiva documentata nei cetacei odontoceti, ovvero quelli provvisti di denti, come delfini, capodogli e orche[12]. Le restanti specie di cetacei appartengono ai misticeti, e sono sprovviste di denti ma dotate di fanoni (balene in senso stretto). I misticeti non sembrano utilizzare l’ecolocalizzazione[8], ma sono in grado di produrre suoni molto intensi a frequenze molto basse, che permettono la comunicazione tra individui distanti anche diverse centinaia di km[9].

Aspetti anatomici

Considerando un delfino come modello per gli odontoceti, analizziamo gli adattamenti anatomici legati all’emissione di ultrasuoni e alla loro ricezione. Gli ultrasuoni sono prodotti in genere da membrane vibranti collocate nelle cavità nasali, che svolgono una funzione analoga alla laringe dei pipistrelli. Gli ultrasuoni prodotti sono dunque convogliati verso il melone, una struttura adiposa globosa collocata nel capo degli odontoceti, che contribuisce ad amplificare il segnale sonoro emesso poi nell’acqua[12]. Gli echi di ritorno, in questo caso, sono captati da un sistema di recettori collocato nella mandibola inferiore, dove sono convogliati da una struttura adiposa conica presente nel muso dell’animale[14].  I processi di integrazione nervosa responsabili dell’identificazione della distanza e della posizione di entità nello spazio sono poi simili a quelle dei chirotteri[6].

Schema anatomico del capo di un cetaceo odontoceta, con evidenziate le strutture legate all’ecolocalizzazione. Da “ecolocazione”- Wikipedia

Emettere ultrasuoni in acqua

Nonostante le differenze anatomiche nelle strutture deputate all’emissione e ricezione dei suoni, gli odontoceti presentano un meccanismo di bio-sonar simile a quello dei pipistrelli. L’ambiente in cui i due gruppi di animali vivono, però, è profondamente diverso, e ciò porta all’emissione di suoni differenti. Le onde sonore si propagano molto più velocemente in acqua rispetto che in aria, e ciò influenza le possibilità di risoluzione di una percezione basata sugli ultrasuoni. Le emissioni sonore dei delfini, infatti, consistono in una serie di “click” molto più rapidi di quelli emessi dai chirotteri. Emissioni più lunghe potrebbero infatti portare a sovrapposizioni fra il suono emesso e quello di ritorno. Gli odontoceti, inoltre, non presentano sistemi di doppler shift compensation, poiché le elevate velocità del suono in mare rendono trascurabile l’azione dell’effetto Doppler[6].

Anche i cetacei sono in grado di modulare in una certa misura il range di frequenze emesso e alcune specie, come il capodoglio (Physeter macrocephalus, Linneo 1758), utilizzano per l’ecolocazione anche suoni di frequenza più bassa, udibili dall’orecchio umano. La percezione dell’ambiente ottenuta mediante l’ecolocazione risulta in genere più approssimativa rispetto ai pipistrelli, poiché l’acqua presenta un’impedenza acustica maggiore[6]. Nonostante tale limitazione, però, l’ecolocazione si mantiene molto efficace, ed ha contribuito alla radiazione adattativa degli odontoceti, che avvenne in prossimità della comparsa di questo adattamento, circa 34 milioni di anni fa (fine Eocene)[8].

Evoluzione dell’ecolocazione nei cetacei

Come già affermato in precedenza, l’ecolocazione, fra i cetacei, è propria soltanto del gruppo degli odontoceti, e comparve probabilmente fra 34 e 36 milioni di anni fa. Si tratta di un’adattamento piuttosto precoce, molto vicino al distacco della linea monofiletica degli odontoceti dal resto dei cetacei, da cui sarebbero derivati poi gli odierni misticeti[8]. Naturalmente l’evoluzione dell’ecolocazione in questi mammiferi marini non ha nulla a che vedere, a livello filogenetico, con la comparsa del meccanismo analogo nei chirotteri[6].

Anche tra le prede degli odontoceti sembrano essersi sviluppati sistemi specializzati per la ricezione degli ultrasuoni, grazie a meccanismi coevolutivi simili a quelli già visti per pipistrelli e falene[6].

Leggi anche L’origine dei cetacei.

Ecolocazione negli uccelli

Gran parte degli studi sull’ecolocazione si concentrano sui pipistrelli o sui cetacei odontoceti, e in pochi sanno che ad utilizzarla sono anche alcune specie di uccelli. Si tratta di un meccanismo poco diffuso, riscontrabile soltanto in 16 specie di uccelli viventi, tutte legate dalla tendenza a nidificare in grotte. Tra queste ricordiamo alcune specie di rondone tropicali ed insettivore, appartenenti ai generi Aerodramus e Collocalia (famiglia Apodidae), e il guaciaro (Steatornis caripensis), un uccello notturno frugivoro, osservato da Humboldt nelle grotte sudamericane[1].

L’ecolocazione di questi uccelli è più rudimentale di quella di chirotteri e cetacei: mancano infatti strutture di emissione e ricezione altamente specializzate, e i suoni utilizzati sono caratterizzati da frequenze più basse, percepibili dall’uomo. L’emissione sonora è costituita in genere da brevissimi “click” prodotti dalla lingua e non sono presenti sofisticati sistemi di compensazione dell’effetto Doppler. Negli uccelli l’ecolocazione è pertanto un sistema ausiliario, utilizzato per limitare gli urti e muoversi agevolmente nelle caverne di nidificazione, ma probabilmente non per cacciare attivamente. La risoluzione e la portata del sistema non sarebbero infatti sufficienti a garantire una caccia efficace[1].

Ecolocazione nell’uomo

Per noi umani, dotati di un sistema percettivo basato essenzialmente sulla vista, è difficile immaginare la capacità di “vedere” l’ambiente circostante attraverso i suoni, ma si tratta di un sistema particolarmente efficiente, che permette ad alcune specie di muoversi agevolmente anche in completa assenza di luce, riuscendo ad evitare ostacoli e a cacciare prede anche molto piccole o veloci.

In realtà alcuni uomini riescono in qualche misura ad orientarsi con i suoni; si tratta però di una caratteristica piuttosto rara, e che non può essere comparata per efficienza all’ecolocalizzazione propria di altre specie animali. In ogni caso, è da tempo ormai che l’ecolocalizzazione viene sfruttata dalle persone non vedenti per potersi muovere in autonomia. Negli ultimi anni la scienza cerca di fare luce sulle basi neurologiche che permettono questa notevole abilità.

Il caso di Daniel Kish

Tra le personalità che hanno contribuito maggiormente allo sviluppo tecnico dell’ecolocalizzazione umana vi è senz’altro Daniel Kish[3]. A causa di una forma di retinoblastoma bilaterale ha subito l’asportazione di entrambi gli occhi all’età di 13 mesi. Lui stesso racconta che fin dai tempi dell’operazione ha sempre utilizzato gli schiocchi della lingua e il relativo eco per orientarsi nello spazio, tanto da essere più volte soprannominato “Daredevil”, proprio come il noto eroe Marvel. Non solo Daniel Kish è uno degli ecolocalizzatori più abili, ma ha dedicato tutta la vita aiutando le persone non vedenti attraverso la sua associazione non-profit World Access for the Blind[10] che fornisce supporto psicologico e gli insegnamenti necessari per sfruttare l’ecolocalizzazione.

Le basi neurologiche dell’ecolocalizzazione

Proprio sull’aspetto neurologico dell’ecolocalizzazione si concentra il lavoro di Lore Thaler[11], professoressa al dipartimento di Psicologia presso la Durham University. Attraverso piccoli microfoni, i ricercatori hanno registrato gli echi che aiutavano gli ecolocalizzatori non vedenti a orientarsi all’aperto. Fecero riascoltare questi suoni ai volontari, in laboratorio, e analizzarono il loro cervello mediante risonanza magnetica per identificare quelle zone che mostravano una maggiore attività. Riascoltando soltanto la registrazione dell’eco, i partecipanti erano in grado di riconoscere i singoli oggetti, ma le regioni che mostravano maggiore attività non erano quelle correlate all’udito, bensì quelle zone del cervello che normalmente avrebbero dovuto processare le informazioni visive, in particolare la zona V1 o corteccia visiva primaria.

Vedere con i suoni

L’ipotesi che avanzano i ricercatori è che la corteccia visiva primaria (V1), nel caso dell’ecolocalizzazione, presieda all’elaborazione di informazioni spaziali derivanti da segnali che vengono generati, in questo caso, dalla corteccia uditiva. È veramente difficile da immaginare, ma sembra proprio che gli ecolocalizzatori siano in grado di formare delle vere e proprie “immagini” nella loro testa, immagini create da onde sonore piuttosto che dalla luce.

Questo è un esempio straordinario di neuroplasticità[4], ossia la facoltà che permette di modificare i propri circuiti cerebrali in modo da far fronte a nuove esigenze. Le ricerche da compiere in questo campo sono ancora molte, ed è importante allargare le nostre conoscenze sull’ecolocalizzazione in modo da rendere la diffusione di questa tecnica sempre più ampia e da aiutare quelle persone che ne trarrebbero enormi benefici in materia di indipendenza e possibilità.

Conclusione

L’ecolocazione (o ecolocalizzazione) è un sistema efficiente che permette di “vedere” attraverso i suoni anche in assenza di luce. I vantaggi che tale sistema percettivo può apportare a organismi che vivono in ambienti bui come grotte, acque torbide o semplicemente contesti notturni, sono testimoniati dalla sua diffusione e dalla presenza in gruppi animali con caratteristiche molto differenti. Processi di evoluzione convergente hanno portato pipistrelli e cetacei odontoceti ad affinare le proprie capacità percettive, permettendo lo sviluppo di bio-sonar analoghi e molto efficienti, utilizzati per la caccia attiva. Anche alcuni uccelli che nidificano solitamente in grotte buie hanno sviluppato sistemi di ecolocazione, ma più rudimentali, limitati all’orientamento nelle caverne che abitano abitualmente. Ulteriori studi sono in corso su altre specie animali, soprattutto fra i mammiferi. Esistono delle evidenze, seppur ancora non verificate, che dimostrerebbero come l’ecolocazione potrebbe essere propria anche di alcune specie di foca o di alcuni roditori, per i quali rappresenterebbe un utile adattamento alla vita notturna[12].

Articolo redatto da Simone Ciaralli (corpo principale) e da Alberto Romano (“Ecolocazione nell’uomo”).

Referenze

  1. Brinkløv, S., Fenton, M. B., & Ratcliffe, J. M. (2013). Echolocation in oilbirds and swiftletsFrontiers in Physiology4, 123;
  2. Bullock, T. H., Grinnell, A. D., Ikezono, E., Kameda, K., Katsuki, Y., Nomoto, M., … & Yanagisawa, K. (1968). Electrophysiological studies of central auditory mechanisms in cetaceansZeitschrift für vergleichende Physiologie59(2), 117-156;
  3. Daniel Kish – Intervento per TEDx;
  4. Draganski, B., Gaser, C., Busch, V., Schuierer, G., Bogdahn, U., & May, A. (2004). Changes in grey matter induced by trainingNature427(6972), 311-312;
  5. Griffin, D. R. (1944). Echolocation by blind men, bats and radar. Science, 100(2609), 589-590;
  6. Jones, G. (2005). EcholocationCurrent Biology15(13), R484-R488;
  7. Jones, G., & Teeling, E. C. (2006). The evolution of echolocation in batsTrends in Ecology & Evolution21(3), 149-156;
  8. Liu, Y., Rossiter, S. J., Han, X., Cotton, J. A., & Zhang, S. (2010). Cetaceans on a molecular fast track to ultrasonic hearingCurrent Biology20(20), 1834-1839;
  9. Reidenberg, J. S., & Laitman, J. T. (2007). Discovery of a low frequency sound source in Mysticeti (baleen whales): Anatomical establishment of a vocal fold homologThe Anatomical Record: Advances in Integrative Anatomy and Evolutionary Biology290(6), 745-759;
  10. Speakman, J. R., & Racey, P. A. (1991). No cost of echolocation for bats in flightNature350(6317), 421-423;
  11. Thaler, L., Arnott, S. R., & Goodale, M. A. (2011). Neural correlates of natural human echolocation in early and late blind echolocation expertsPLoS one6(5), e20162;
  12. Thomas, J. A., Moss, C. F., & Vater, M. (Eds.). (2004). Echolocation in bats and dolphins. University of Chicago Press;
  13. World Access for the Blind – Home.
  14. Yamato, M., & Pyenson, N. D. (2015). Early development and orientation of the acoustic funnel provides insight into the evolution of sound reception pathways in cetaceansPloS one10(3), e0118582.
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