I dolcificanti sono prodotti di mercato utilizzati per dare al palato una sensazione di dolcezza artificiale. Secondo la concezione comune avrebbero una funzione dietetica che annullerebbe i rischi sulla salute legati agli zuccheri veri e propri come ad esempio il saccarosio, il comune zucchero da tavola presente nelle bibite gassate, nelle bustine dello zucchero per il caffè e in moltissimi altri alimenti. Attualmente l’Europa consente la commercializzazione di circa dieci sostanze il cui consumo è cresciuto vertiginosamente negli ultimi vent’anni.
Ma la sostituzione degli zuccheri con i dolcificanti artificiali migliora davvero la nostra salute?
E riduce veramente i rischi di malattia che comporta l’assunzione degli zuccheri propriamente detti? La letteratura scientifica pubblicata finora sembrerebbe dire di no. Di conseguenza l’Unione Europea non consente ai produttori di dichiarare alcun beneficio sulle confezioni.
I numerosissimi studi effettuati finora non riportano benefici nutrizionali, né sono riusciti a dimostrare che la sostituzione degli zuccheri con i dolcificanti sia in grado si contrastare l’obesità o di ridurre il rischio di contrarre il diabete. Anche l’assunzione di dolcificanti da parte delle persone che soffrono già di obesità o di diabete pare proprio che non migliori la situazione.
D’altra parte è anche vero che con i dati raccolti finora non è possibile stabilire nemmeno eventuali danni per la salute causati dal consumo prolungato dei dolcificanti. Parrebbe, insomma, che le dieci sostanze immesse nel mercato europeo non facciano né male né bene.
Queste considerazioni sono il frutto di una ricerca esclusivamente letteraria pubblicata su BioMed Central e intitolata Review of the nutritional benefits and risks related to intense sweeteners. Olivier Bruyère e colleghi hanno preso in esame 10,989 manoscritti (9,965 in inglese e 1,024 in altre lingue). Di questi ne sono stati scartati immediatamente 9,373 dopo una prima lettura.
Di conseguenza sono stati 1,616 i manoscritti interamente visionati, dei quali, però, solo 383 (completamente in inglese) hanno dimostrato un’effettiva validità in base alle metodologie di ricerca utilizzate insieme ai livelli di novità e originalità.
Il 30.1% delle pubblicazioni analizzate sono state finanziate dalle industrie e il 56.3% dalle organizzazioni no-profit, la parte rimanente invece proviene da altre fonti. Non è stata fatta alcuna differenziazione tra le due principali fonti di ricerca.
Articolo redatto da Flavio Alunni