Attualmente la biodiversità è caratterizzata da una ricchezza unica nella storia della vita[3]. L’impatto delle attività umane sull’ambiente ha però intaccato questa complessità . L’impronta della nostra specie risulta così rilevante che oggi stiamo assistendo ad una vera e propria estinzione di massa. Il rate di scomparsa per molti organismi è spesso migliaia di volte superiore rispetto alla norma e le comunità biologiche appaiono globalmente deteriorate. Fra i simboli più famosi dell’estinzione c’è probabilmente il dodo (Raphus cucullatus), un uccello columbiforme incapace di volare ed originario dell’isola Mauritius.
Descritta per la prima volta nel 1598, la specie si estinse a meno di un secolo di distanza. Tale rapida scomparsa non consentì lo studio di esemplari in vita da parte della comunità scientifica. La scoperta ed analisi di resti fossili permettono però di colmare in parte questa lacuna.
Descrizione del dodo
Morfologia
Gli esemplari adulti di dodo potevano raggiungere il metro di altezza con un peso variabile fra 9,5 e 14,3 kg[1, 6]. Queste ultime misure si discostano dai 21,1 kg massimi ipotizzati in passato per questo animale. L’aumento di taglia e la riduzione nelle dimensioni delle ali si osservano comunemente negli uccelli insulari. Nei columbiformi l’incapacità di volare è comunque rara; oltre al dodo solo altre tre specie presentano questa caratteristica.
La colorazione del piumaggio del dodo variava dal grigio al bruno, un’eterogeneità dovuta sia alle differenze individuali che alla stagionalità [2]. Il capo presentava un’estesa zona glabra che andava dal becco fino agli occhi; in vita le piume andavano a formare una sorta di cappuccio (da cui l’epiteto specifico cucullatus).
Il becco adunco era particolarmente sviluppato e veniva usato in combattimenti intraspecifici. Nonostante la mole, le poderose zampe rendevano il dodo particolarmente agile negli ambienti forestali.
Scheletro
Il grosso becco è lungo il doppio del cranio. Tipica del dodo è l’espansione dell’osso frontale che fa assumere al cranio una forma bulbosa. Il collo (tratto cervicale della colonna vertebrale) conta 14 vertebre. A queste si ancoravano i potenti muscoli che avrebbero sorretto la robusta testa.
Le ossa dello sterno, del cinto pettorale e delle ali sono meno sviluppate che non nei più prossimi parenti volatori. Le inserzioni dei muscoli su omero, radio ed ulna mostrano però come essi non fossero atrofizzati. L’articolazione del gomito possiede inoltre un range di movimento simile a quello degli uccelli capaci di volare. Le ali erano quindi funzionali al mantenimento dell’equilibrio e alla comunicazione fra individui.
Il bacino e gli arti inferiori sono robusti ed adatti a supportare la mole del dodo[6].
Distribuzione ed habitat del dodo
Il dodo era presente unicamente sull’isola Mauritius, rappresentandone quindi un endemismo. L’isola fa parte dell’arcipelago vulcanico delle Mascarene, situato nell’Oceano Indiano Occidentale[5]. Il lembo di terra più vicino è il Madagascar, distante 829 km. Nonostante questo, il dodo non è strettamente imparentato con i columbidi africani. I progenitori di questa specie hanno infatti origine nel Sud-Est Asiatico. Le correlazioni genetiche osservate con il piccione delle Nicobare (Caloenas nicobarica) confermano questa tesi.
All’interno dell’isola Mauritius il dodo aveva un’ampia distribuzione, occupando tanto le foreste delle aride zone costiere quanto quelle delle umide alture[4].
Biologia del dodo
Le elevate forze occlusive del becco indicano una dieta composta da cibi duri, come grossi semi. L’occasionale predazione su crostacei e molluschi terrestri rappresentava un importante apporto proteico. La dieta del dodo era quindi relativamente simile a quella di altri columbiformi delle Mascarene[6].
Il ciclo vitale era correlato all’aspra stagionalità di Mauritius. I pulcini nascevano fra agosto e dicembre, periodo caratterizzato da una grande abbondanza di risorse. La crescita dei giovani era rapida fino al raggiungimento della maturità sessuale. Sull’isola Mauritius l’estate australe (tra novembre e marzo) è caratterizzata da forti cicloni, durante i quali i venti danneggiano la vegetazione provocando la caduta di piante e frutti. Le grandi dimensioni dei pulcini erano quindi vantaggiose, permettendo loro di superare il periodo di carestia.
Da marzo a luglio i dodo entravano nel periodo della muta, durante il quale il vecchio piumaggio veniva sostituito dal nuovo. Il manto sarebbe stato quindi in ottime condizioni per la stagione riproduttiva seguente[2].
Scoperta ed estinzione del dodo
Nonostante Mauritius fosse nota già agli arabi (XIII sec.) e ai portoghesi (XVI sec.), furono gli olandesi a colonizzarla per primi a partire dal 1589. È durante la prima esplorazione dell’entroterra che il marinaio Heyndrick Dircksz Jolinck osservò per la prima volta il dodo. L’animale viene descritto nel suo diario di bordo, pubblicato in madrepatria nel 1599:
“Abbiamo anche trovato grossi uccelli, con le ali grandi come quelle dei colombi, tali da renderli incapaci al volo e furono chiamati pinguini…”
L’uso della parola pinguino non è causato da errata identificazione. Il termine deriva dal portoghese pinion, ossia “ali tagliate”, facendo riferimento alle ridotte dimensioni di queste strutture[5].
Con la formazione dei primi stabilimenti si incentivò la coltivazione di alberi da frutto e la liberazione di animali domestici. Quest’ultima risulta la causa principale della scomparsa del dodo, evolutosi in un ambiente privo di mammiferi terrestri.
Cervi e capre entrarono in competizione con il dodo per le risorse alimentari. Gatti, ratti, macachi e maiali predavano invece uova e pulcini. Di conseguenza, alla fine del XVII secolo, l’ecosistema di Mauritius appariva altamente degradato. Il dodo viene descritto come raro già nel 1628; l’ultimo avvistamento avvenne nel 1662[5].
Rappresentazioni del dodo tra ieri ed oggi
La rapida estinzione del dodo impedì ai naturalisti lo studio di questa specie nel suo habitat naturale. Fino alla scoperta dei resti fossili, fra cui due scheletri quasi completi, la maggior parte delle informazioni derivavano da descrizioni e schizzi fatti dai marinai nei loro diari di bordo[5]. Le rappresentazioni si basavano spesso su animali morti o tenuti in cattività .
L’immagine del dodo grasso e goffo può avere una duplice origine. In un caso gli esemplari rappresentati erano effettivamente obesi e quindi anomali. Nell’altro l’iconografia potrebbe ritrarre animali durante il corteggiamento, con il piumaggio gonfio e la testa tenuta in posizione arretrata[1].
Esistono però anche rare raffigurazioni realistiche. Nel 1625, il pittore Mansur ritrasse uno dei due dodo allevati presso il palazzo dell’imperatore indiano Jahan-ghir. L’esemplare appare relativamente snello, dal piumaggio bruno e con il becco screziato di blu[5].
Conclusione
Il dodo si è affermato come un’icona dell’estinzione causata dall’uomo. Lontano dall’essere goffo e stupido, la sua ecologia rifletteva l’asprezza dell’ambiente che lo ospitava. Il suo triste destino lo accomuna ad altri animali dell’isola Mauritius, come il rallo rosso (Aphanapteryx bonasia) e le testuggini del genere Cylindraspis. La scomparsa di questi organismi testimonia quindi come l’attività umana possa impattare pesantemente la biodiversità terrestre.
Referenze
- Angst, D., Buffetaunt, E., & Abourachid, A. (2011). The end of the fat dodo? A new mass estimate for Raphus cucullatus. The Science of Nature, pp: 233-235;
- Angst, D. et al. (2017). Bone histology sheds new light on the ecology of the dodo (Raphus cucullatus, Aves, Columbiformes). Nature, pp: 1-10;
- Ceballos, G., Ehrlich, P. R., & Raven, P. H. (2020). Vertebrates on the brink as indicators of biological annihilation and the sixth mass extinction. PNAS, pp: 1-7;
- Hume, J. P. (2012). The dodo: From extinction to fossil record. Geology today, pp: 147-151;
- Hume, J.P. (2006). The history of the dodo Raphus cucullatus and the penguin of Mauritius. Historical Biology, pp: 65-89;
- Hum, J.P., Claessens, L. P. A. M., & Meijer, H. J. M. (2016). The morphology of the Thirioux dodos. Journal of Vertebrate PAleontology, pp: 29-187.
In copertina: rappresentazione di Julio Lacerda.