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Che cos’è il DNA ambientale?

Le scienze della vita si sono da sempre imbattute in un enorme problema riguardo allo studio degli organismi viventi: devono essere cercati, trovati e osservati. Questo potrebbe essere un problema non eccessivamente difficile da risolvere nel caso di organismi di grosse dimensione e/o particolarmente abbondanti: non è molto difficile verificare la presenza di un gruppo di elefanti nella Savana. Ma con i microrganismi? I batteri ad esempio? O semplicemente con organismi anche di grosse dimensioni ma molto rari? Con le nuove tecnologie della biologia molecolare è oggi possibile analizzare il DNA ambientale (ossia il DNA disperso nell’ambiente) per ricavare informazioni sulla presenza di specie prima difficili da osservare.

Già da molti anni, i ricercatori hanno utilizzato questa tecnica per cercare di individuare la presenza degli organismi viventi presenti in diverse matrici di campioni.

Che cos’è il DNA ambientale?

Il DNA ambientale (definito anche eDNA) costituisce il DNA prelevato da un campione ambientale senza che prima ci sia stato alcun isolamento di organismi bersaglio[1]. Il DNA ambientale è quindi da intendersi come l’insieme delle molecole di DNA di varia provenienza presenti in una matrice non biologica, come il terreno.

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Tutti gli esseri viventi possono infatti rilasciare DNA nell’ambiente in cui vivono. Ad esempio attraverso varie componenti biologiche oppure con il proprio corpo dopo la morte. Tracce di DNA possono ad esempio provenire da feci, muco, cellule della pelle, organelli e gameti. Tale DNA va generalmente incontro a fenomeni di degradazione ma, talvolta, nell’ambiente (aria, acqua, suolo) possono permanerne alcuni frammenti sufficienti per fornire informazioni proprio negli studi di DNA ambientale[2].

La stabilità e la permanenza nel tempo dei frammenti di DNA ambientale può dipendere da diversi fattori, in primo luogo la temperatura. Inoltre, i campioni di suolo e sedimenti, rispetto a quelli acquatici, hanno il vantaggio di poter stabilizzare meglio il DNA[3, 4].

Storia del DNA ambientale

Per molto tempo i ricercatori hanno cercato di individuare una metodologia per ricostruire la presenza di comunità di organismi in campioni ambientali, partendo dal presupposto che tutto gli esseri viventi possono rilasciare DNA nell’ambiente in cui vivono. La permanenza di frammenti di DNA nell’ambiente abbinata alle moderne tecniche di sequenziamento poteva così costituire la base per una svolta fondamentale sugli studi sulla biodiversità.

I primi studi applicativi del DNA ambientali nascono nel 2008, quando un gruppo di ricercatori dimostrò che era possibile risalire alla presenza di pesci, anfibi o piccoli invertebrati a partire da campioni di acqua prelevata dai fiumi[3]. L’ultimo tassello per l’utilizzo del DNA ambientale su larga scala è arrivato proprio dalle metodiche di sequenziamento del DNA, che permisero e (permettono tutt’oggi) il sequenziamento contemporaneo di migliaia di sequenze diverse in un solo esperimento.

Pertanto, fu a partire dagli anni Duemila che lo studio del DNA ambientale cominciò ad essere applicato agli studi sulla biodiversità, agli studi di abbondanza relativa e soprattutto agli studi sulla variazione della diversità degli organismi negli ecosistemi[4]. Questi ultimi stanno ormai diventando i più importanti, poiché i cambiamenti climatici in corso hanno profondi effetti sulla composizione degli ecosistemi.

DNA ambientale e studi di biodiversità

Grazie alle metodiche di sequenziamento di seconda e terza generazione (chiamate Next Generation Sequencing), partendo da un campione ambientale che contiene numerosi frammenti di DNA è possibile risalire alle specie dalle quali derivano tali frammenti. Infatti, il DNA metabarcoding (ossia l’identificazione automatizzata di più specie da un singolo campione ambientale) permette proprio di identificare simultaneamente diversi gruppi tassonomici da un unico campione ambientale.

Ulteriore elemento di interesse negli studi di DNA ambientale è legato al fatto che è possibile ottenere anche dati di abbondanza delle specie, poiché il numero di sequenze corrispondenti ad una data specie rispetto al numero totale delle sequenze ottenute può costituire un indice di abbondanza relativa[5].

Risulta quindi chiaro come l’analisi del DNA ambientale può essere di fondamentale importanza per gli studi sulla sulla biodiversità . Gli ecosistemi, infatti, sono sempre più impattati da una molteplicità di fattori, tra cui le attività antropiche, il cambiamento climatico e le specie aliene.

Infine, è importante osservare che i cambiamenti climatici hanno profondi effetti nel determinare la diversità di specie nei diversi ambienti. Pertanto, imparare a riconoscere il modo in cui variano gli ecosistemi in relazione ai cambiamenti ambientali consentirà di comprendere come potranno evolversi questi stessi ambienti nel futuro prossimo[6].

Caso studio: il DNA ambientale e il ritiro dei ghiacciai

Il DNA ambientale attualmente viene utilizzato in diversi ambiti di ricerca scientifica, ma alla luce degli sconvolgimenti climatici in corso stanno diventando di particolare interesse gli studi sulla variazione della composizione degli ecosistemi proprio in relazione ai cambiamenti ambientali[6].

Facciamo un esempio. Un gruppo di ricercatori ha avviato uno studio sui suoli recentemente de-glaciati (ossia suoli una tempo coperti da ghiacciai) per comprendere come varia la biodiversità in seguito allo scioglimento dei ghiacciai. Infatti, a seguito dell’arretramento del fronte glaciale, alla base dei ghiacciai si libera una zona di terreno esposta alla colonizzazione degli organismi viventi. L’obiettivo dello studio è quello di incrociare questi dati con le informazioni temporali sul ritiro di molti ghiacciai e sull’età di formazione del suolo per comprendere come è variata la biodiversità durante la colonizzazione di aree proglaciali che hanno subito eventi di ritiro dalla fine della Piccola Era Glaciale (circa 1850) ad oggi[7].

Conclusioni

Il DNA ambientale si è dimostrato uno strumento efficace e a relativamente a basso costo per studiare la biodiversità di ambienti sia marini che terrestri. Pertanto, questo sistema può diventare di fondamentale importanza per ampliare la comprensione degli ecosistemi e arricchire la conoscenza della biodiversità dell’intero Pianeta.

Referenze

  1. Taberlet, P., et al. (2012). Environmental DNA. Molecular ecology21(8), 1789-1793;
  2. Andersen, K., et al. (2012). Meta‐barcoding of ‘dirt’DNA from soil reflects vertebrate biodiversityMolecular Ecology21(8), 1966-1979;
  3. Ficetola, G. F., et al. (2008). Species detection using environmental DNA from water samples. Biology letters4(4), 423-425.;
  4. Taberlet, P. et al., (2018). Environmental DNA. For biodiversity research and monitoring. Oxford University Press;
  5. Mandrioli, M. (2017), Il DNA ambientale, un nuovo strumento molecolare per il monitoraggio della biodiversità presente e passata. Quaderni del Museo Civico di Storia Naturale di Ferrara5, 113-121.
  6. Feldmeier, S., et al. (2020). Shifting aspect or elevation? The climate change response of ectotherms in a complex mountain topography. Diversity and Distributions26(11), 1483-1495;
  7. Guerrieri, A., et al. (2022; pre-print). Metabarcoding data reveal vertical multi-taxa variation in topsoil communities during the colonization of deglaciated forelands. Authorea Preprints.

Immagine di copertina da pikist.com.

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