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Differenze di quoziente intellettivo nelle popolazioni

2 gennaio 2019: la PBS manda in onda un documentario su John Watson, famoso insieme a Francis Crick – e Rosalind Franklin – per la scoperta della struttura del DNA. Nove giorni dopo, l’11 gennaio, Watson viene espulso dal laboratorio che ha diretto per decenni. Per quale motivo? Perché ha spacciato le sue convinzioni personali per dato scientifico. Nello specifico, ha affermato che delle differenze genetiche causino le differenze di quoziente intellettivo tra bianchi e neri.  Sulle sue parole si sono scritti un sacco di articoli, commenti e post. Molti si sono sentiti in dovere di esprimere la propria opinione; quasi nessuno si è sentito in dovere di controllare come stanno le cose nella letteratura psicologica. Perché sì, la frase di Watson riguarda esattamente un dibattito in corso nella letteratura psicologica, letteratura che né lui né i commentatori prendono in considerazione.

In quello che dice Watson ci sono due punti problematici. Primo, è vero che popoli diversi (bianchi, neri, asiatici) hanno dei quozienti intellettivi diversi [1]: ma assicurare che la causa siano le differenze genetiche non è una conclusione razionale, bensì un salto di fede. Infatti nella letteratura psicologica sul tema non c’è consenso, ci sono solo ipotesi più o meno suffragate dai dati [2, 3, 4]. C’è chi ipotizza un ruolo principale dei geni, chi ipotizza un ruolo dell’ambiente, ed entrambe le posizioni argomentano con i dati alla mano.

Se però si allarga lo sguardo oltre la psicologia, verso la biologia e l’antropologia, l’ipotesi genetica diventa priva di senso.

Secondo, la discussione diventa un problema quando esce dall’accademia e coinvolge il pubblico che, informato poco e male, trae le conclusioni sbagliate.

Per esempio, il pubblico tipicamente assume che esista una separazione biologica tra “bianchi” e “neri”, mentre non è così. Assume anche che il QI equivalga all’intelligenza, mentre è solo la sua misurazione psicometrica, fatta dagli psicologi con scopi clinici e di ricerca. Soprattutto assume che nei geni sia già scritto il destino di una persona, e che l’ambiente si limiti a ritoccarlo leggermente. Sono tutti assunti sbagliati, che portano a interpretare male i fatti.

Tra le altre cose portano a discussioni pubbliche male informate, come avvenuto nella pagina Facebook di BioPills.

Cominciamo a correggere le assunzioni sbagliate.

Le razze non esistono

Per sapere perché è così vi basta leggere i due articoli precedenti, scritti dalle mie colleghe. Vorrei però chiarire in che modo questo è rilevante per il discorso che segue.

Parlerò della discussione in psicologia sulle differenze di QI tra etnie diverse, come bianchi e neri: ma cosa vuol dire “bianchi” e “neri”? Non vuole dire niente. Il consenso scientifico è che la distinzione in razze non ha basi scientifiche ed è priva di senso da un punto di vista biologico [5, 6, 7].

È sorprendente che queste considerazioni non abbiano avuto pressoché alcun impatto sulla discussione di cui parlerò. I principali sostenitori delle cause genetiche delle differenze di QI parlano tranquillamente di “razze” [1]. Anzi, gli stessi autori scrivono che «la totalità delle prove a disposizione mostra che il gap razziale rimane» [8], tralasciando però le prove dell’infondatezza biologica delle razze.

Se si guarda realmente alla totalità delle prove, quindi anche quelle biologiche e antropologiche, la discussione sulle cause della differenza di QI crolla come un castello di carte, in quanto interamente fondata su un equivoco. Se bianchi e neri non sono geneticamente diversi, allora non ha senso spiegare la differenza di QI con i geni.

In teoria questo sarebbe sufficiente a concludere la questione, ma per completezza mostrerò gli altri problemi.

Il QI non è l’unico aspetto dell’intelligenza

Nel 1994 l’American Psychological Association creò una task force di esperti sull’intelligenza. L’obiettivo era scrivere un documento, approvato da tutti, che servisse da base autorevole per le discussioni in merito. Il risultato fu pubblicato nel 1996 su American Psychologist: è l’articolo “Intelligence: Knowns and Unknowns” [2], all’epoca la fonte più autorevole per conoscere lo stato della letteratura sul tema.

Le sue conclusioni sono chiare. L’intelligenza è un concetto che cerca di definire una complessa serie di fenomeni, e non ne esiste nessuna definizione universalmente valida, nemmeno in ambito scientifico. È un concetto complesso e studiato con vari approcci, e quello con la tradizione più antica e ampia è l’approccio psicometrico (la psicometria è la sezione della psicologia sperimentale che si occupa di misurare le variabili psicologiche, come tratti di personalità, benessere, o – appunto – intelligenza).

L’intelligenza quindi è complessa, e il QI non la cattura nella sua interezza: ce lo mostra un tratto di personalità. Il tratto di personalità in questione – descritto in una teoria chiamata “Big Five” – è “l’Apertura all’esperienza”, diviso in due componenti: l’Apertura e l’Intelletto. L’Intelletto è il “lato creativo” dell’intelligenza, la curiosità intellettuale, il «coinvolgimento cognitivo con informazione astratta e semantica, principalmente attraverso l’intelligenza» [10, pag. 248] (più o meno ciò che la scuola cerca in tutti i modi di cancellare). L’Intelletto è correlato ma distinto dal QI, e predice le performance scientifiche così come l’Apertura predice le performance artistiche [10]. L’Intelletto è un aspetto che nel parlato comune viene spesso associato all’intelligenza, o alla “genialità”, ma che non viene misurato dal QI.

Non solo. Dal momento che è solo la versione psicometrica dell’intelligenza, il QI ha degli scopi teorici e pratici ben precisi: testare teorie psicologiche, fare diagnosi cliniche, verificare il progresso dei pazienti, predire le performance scolastiche e lavorative, e altro. È qui che il punteggio del QI ha senso: il suo uso al di fuori di questi ambiti è improprio. Il QI non è pensato per fare “gare” a chi ce l’ha più grande o, peggio, per discriminare tra persone con punteggi più alti e più bassi; è pensato per testare teorie e aiutare le persone. Non serve neanche per valutare la qualità di una persona, né per decidere che qualcuno è “meglio” di qualcun altro.

Tra l’altro il QI non è nemmeno l’unica misurazione usata per gli scopi appena descritti. Per esempio, la Coscienziosità – un tratto di personalità che indica grosso modo la scrupolosità, la diligenza – predice le performance scolastiche altrettanto bene [9].

Ma torniamo alla Task Force. Nel 2012, più di quindici anni dopo l’articolo originale, un altro articolo ha confermato le sue conclusioni, aggiornandole [3]. Il QI ha degli scopi ben precisi; gli autori lo considerano di grande utilità pratica, ma riconoscono che è criticato con merito [3, pag. 131]. La questione è complessa, tanto che c’è almeno un intero manuale sull’intelligenza [11], che conta non meno di mille pagine.

In definitiva, non solo usare il QI come unica misura dell’intelligenza – concetto ampio e variegato – è improprio, ma usarlo addirittura al di fuori dei suoi scopi è una grave distorsione.

La dicotomia natura/cultura non è come si crede

A creare ancora più confusione è la netta separazione tra natura e cultura, tra geni e ambiente. L’idea è all’incirca questa: i geni determinano come è fatto un organismo – incluse le sue abilità e i suoi comportamenti – e l’ambiente agisce a posteriori, apportando solo modifiche superficiali.

Ebbene, è l’ennesima semplificazione che finisce per distorcere la realtà.

Interazioni

La separazione tra DNA e ambiente è già intrinsecamente imprecisa, perché il DNA stesso viene modificato dalla selezione naturale, cioè dalle pressioni ambientali. Ma ci sono tanti altri problemi, come argomentato in un ottimo articolo [12] (che è dedicato alla psicologia dello sviluppo, ma è utile anche per i nostri scopi; ovviamente però anche lo sviluppo influenza l’intelligenza).

Qual è il problema principale di questa semplificazione? Che è l’esito di una sorta di vitalismo moderno, in cui un fattore biologico intrinseco – millenni fa una forza ignota, ora il DNA – determinerebbe lo sviluppo dell’individuo [12]. In quest’ottica l’ambiente avrebbe influenze molto limitate.

Non è così. Lungi dall’essere due monoliti indipendenti, geni e ambiente – anzi, ambienti, al plurale – sono strettamente intrecciati. I geni non funzionano senza un ambiente che tenga l’individuo in vita, e non portano vantaggi intrinseci, ma solo se posti in ambienti ben precisi. L’ambiente non influisce sull’individuo in modo astratto, ma anche modificando in mille modi l’espressione genica. Esiste cioè una serie inimmaginabile di interazioni a più livelli.

Facciamo un esempio. Almeno nei ratti, madri stressate partoriscono figli stressati. Come mai? Per caso i geni hanno l’ultima parola? Neanche per idea. Le cure materne portano a «cambiamenti nell’espressione di geni specifici nelle regioni cerebrali che regolano le risposte comportamentali ed endocrine allo stress», e che si trasmettono generazione dopo generazione [13, pag. 1156]. L’espressione dei geni dovuta all’ambiente insomma è importante quanto la presenza dei geni nel DNA in primo luogo. E ora gli effetti negativi dello stress prenatale sullo sviluppo cominciano a essere mostrati anche negli esseri umani [14].

Le basi biologiche del comportamento

Per capire un comportamento umano, quindi, bisogna vederlo su molti livelli diversi, studiati da molte discipline diverse. Robert Sapolsky lo racconta in un interessante libro divulgativo, Behave [15]. Per capire un comportamento bisogna sapere cos’è successo pochi millesimi prima nel cervello della persona; e lo fanno le neuroscienze e le discipline collegate. Bisogna sapere quali ormoni hanno influenzato l’intero corpo della persona ore o minuti prima; e lo fa l’endocrinologia. Bisogna sapere che influenze ha avuto la selezione naturale; e lo fa la biologia evoluzionistica.

Non solo. In tutto questo bisogna sapere quale evento ambientale ha portato al comportamento (psicologia), in quale ambiente sociale e culturale è cresciuto l’individuo (sociologia, psicologia), qual era l’ambiente prenatale (biologia). Tutte queste sono influenze ambientali, sì, ma che agiscono anche a livello del DNA, per esempio regolandone l’espressione.

Inoltre il comportamento è sempre posto in un contesto ben preciso, senza cui è impossibile interpretarlo; ma qui mi limitavo solo all’aspetto biologico del comportamento.

In definitiva, ad ogni livello di spiegazione c’è una disciplina scientifica che ha molto da dire, e ci sono molti modi in cui il nesso tra geni e comportamento è meno deterministico. Non è davvero possibile ridurre tutto a un banale determinismo genetico.

Come stanno le cose

In conclusione di questa prima parte, è chiaro che le persone al di fuori dell’accademia fanno delle assunzioni troppo imprecise. Qual è l’effetto di queste assunzioni? L’effetto è pensare che bianchi e neri siano due razze diverse; che una sia migliore (o “più evoluta”) dell’altra, perché ha in media un QI più alto; che questo QI sia dovuto ai geni, i veri burattinai del comportamento.

Non è così. La divisione tra bianchi e neri esiste solo nel linguaggio comune, e non ha nessun fondamento genetico: qualsiasi differenza individuata nella letteratura psicologica si riferisce all’etnia, al gruppo sociale. Il QI non dice che una persona o gruppo è migliore o peggiore, ma è uno strumento di studio e di aiuto. E i geni non causano direttamente il comportamento, perché l’ambiente interviene su molti livelli.

Le differenze di quoziente intellettivo

I dati

Ora che le assunzioni sono state chiarite, è possibile parlare della questione vera e propria: la ricerca psicologica ha mostrato che popolazioni diverse hanno QI diversi. Tenendo a mente che nella letteratura psicologica si divide abitualmente tra etnie diverse, senza approfondire le giustificazioni genetiche di queste differenze, nessuno mette in discussione questi risultati empirici. Da quando si è iniziato a usare i test d’intelligenza, negli Stati Uniti i bianchi hanno in media punteggi più alti di 15 punti rispetto ai neri [1, 3, 16], ma più bassi rispetto agli asiatici [3]. Per quanto riguarda il resto del mondo, i dati sono meno numerosi e quindi meno solidi. Per l’Africa subsahariana le stime variano tra meno di 70 [17] e 82 [18]. Per l’Asia dell’est la stima è di 106 [1].

Già si nota una cosa interessante: dei vari risultati, l’unico che viene discusso è la differenza tra bianchi e neri. I punteggi superiori degli asiatici dell’est rispetto ai bianchi non vengono menzionati.

Ad ogni modo, a parte le stime esatte dei punteggi medi di ciascuna popolazione, non c’è discussione sul fatto che le differenze ci siano. La discussione è sulle loro cause.

Le ipotesi degli psicologi sulle cause delle differenze

La ricerca psicologica ha cercato la causa di queste differenze, ed è qui che le ipotesi divergono [2, 3]. Alcuni le spiegano con delle differenze genetiche [1], altri con delle differenze nell’ambiente [3, 19]. Il dibattito riguarda quale tra i due fattori – geni o ambiente – abbia il ruolo esclusivo o preponderante nel causare le differenze di QI tra popoli diversi.

Servono due premesse per capire la natura del dibattito. Primo, la letteratura in questione è quella psicologica – più precisamente di genetica comportamentale – e non biologica. Le prove delle cause genetiche di un tratto sono quindi psicologiche e indirette: i ricercatori non hanno cercato direttamente quali siano i geni coinvolti, perché non è il loro campo.

Secondo, non è possibile manipolare sperimentalmente l’etnia e osservare quali effetti si ottengono sul QI. Le prove a favore del ruolo dei geni quindi non si basano su risultati sperimentali, che sarebbero più robusti e credibili – ma impossibili da ottenere – ma si basano solo su studi correlazionali o osservazionali. Viceversa, è possibile modificare l’ambiente, nei limiti dell’etica, e misurarne gli effetti sul QI.

Detto questo, vediamo brevemente i risultati a sostegno delle due parti.

L’influenza dei geni

Che i geni influenzino il comportamento è talmente ovvio da risultare banale. Per questo motivo è facile immaginarsi che, in qualche modo, i geni influenzino anche in l’intelligenza; eppure questi geni non sono ancora stati trovati [3]. Soprattutto però nessuno ha mai mostrato quali siano i geni responsabili delle differenze di quoziente intellettivo tra popoli diversi [3]. Sarebbe una prova definitiva, ma per ora non esiste.

Le prove sono di altro tipo (se vi interessa una loro rassegna sistematica leggete [1]), e in particolare derivano dalla genetica comportamentale. Gli studi in questo campo stimano le influenze ereditarie e quelle ambientali su specifici tratti psicologici. E come? Per esempio analizzando le differenze tra fratelli cresciuti nella propria famiglia e quelli dati in adozione, oppure analizzando le differenze tra gemelli omozigoti ed eterozigoti.

Ecco un esempio del tipo di studi. Qualche ricercatore molto scrupoloso cerca delle coppie di gemelli, sia monozigoti che eterozigoti, e misura il loro QI. Poi analizza quanto si somigliano i QI delle coppie di gemelli: se un gemello ha un certo QI, che QI ha il suo gemello? Dal momento che i monozigoti condividono tutto il DNA e gli eterozigoti solo una parte di esso, se i primi hanno punteggi più simili significa che il DNA c’entra qualcosa. Una cosa simile si fa con dei fratelli o gemelli dati in adozione, analizzando le differenze tra fratelli cresciuti nella stessa casa e fratelli adottati, e tra genitori e figli. In ogni caso, misurando le differenze in un certo tratto, e comparandole con ciò che le persone condividono – solo geni, solo ambiente o entrambi – si cerca di stabilire a cosa si devono le differenze. Studi simili sono stati il primo passo per trovare le basi genetiche della schizofrenia, per esempio ([20]: un’autentica pietra miliare di questo campo).

Questa descrizione è troppo breve e semplicistica, e farebbe rabbrividire qualsiasi persona che conosce per davvero la genetica comportamentale. Se anche voi volete sapere meglio come funziona c’è un manuale ormai giunto alla sesta edizione [21]. Ma per i nostri scopi è sufficiente, e basta sapere che l’ereditabilità del QI è regolarmente alta [1, 3]. Questo significa che di solito l’ambiente influisce poco, ma attenzione: la stima riguarda un’unica popolazione; popolazioni diverse hanno stime diverse [3]).

Tuttavia ciò non basta per garantire le cause genetiche, perché l’ereditabilità non è dovuta esclusivamente ai geni. In generale, la genetica comportamentale non è esente da critiche. Per esempio, anche l’ambiente prenatale – l’utero materno – è condiviso dai fratelli, e può avere degli effetti sullo sviluppo (per esempio sullo stress [22]). Ma la genetica comportamentale non riesce a tenerne conto, quindi somiglianze dovute allo stesso ambiente prenatale verrebbero considerate come somiglianze dovute ai geni.

Soprattutto ora sappiamo che dai genitori non si ereditano solo i geni, ma anche i fattori epigenetici [23]. Si tratta di cambiamenti ereditabili dovuti non tanto a differenze nel DNA quanto a differenze nella sua espressione causate dall’ambiente [24]. La prevalenza di questi fattori negli esseri umani, e il loro effetto sugli studi di genetica comportamentale, sono però ancora ignoti e difficili da valutare [25, 26].

In generale la questione è complessa, tanto che riguarda intere discipline scientifiche. Spiegare ogni risultato sarebbe impossibile, e per questo ho solo grattato la superficie della discussione. Basti sapere che le prove delle cause genetiche sono tutt’altro che definitive. Se poi si tiene a mente che le razze non esistono, e che le differenze genetiche tra bianchi e neri (o tra qualsiasi altra coppia di gruppi umani) sono minime, non sono affatto convincenti.

L’influenza dell’ambiente

Se alcune prove suggeriscono che il QI sia ereditabile, altre indicano forti influenze dell’ambiente. In questo caso ottenere prove è più facile perché, se non si può variare l’etnia di una persona e osservare gli effetti sul QI, è invece possibile variare l’ambiente e misurarne gli effetti.

Un primo dato molto interessante è che la differenza di QI tra bianchi e neri si sta riducendo nel tempo [27]. Questo risultato è stato criticato a suo tempo [1], ma nuove stime sembrano confermarlo: si passa da oltre 16 punti di scarto nel 1971 a meno di dieci nel 2008 [28].

Secondo, il QI di molti Paesi è aumentato o continua ad aumentare: è il “Flynn effect” [29, 30, 31] (o anche “FLynn effect” [4, 28]). Anche questo dato empirico è certo, e nessuno lo mette in discussione. Significa per esempio che i neri del 2002 hanno raggiunto i bianchi del 1962 [32, pag. 76]. Questo ci ricorda che la differenza di QI è più piccola di quanto lasci intendere certa retorica. Inoltre ci fa capire l’importanza dell’ambiente: le cause del Flynn effect infatti non possono essere genetiche, perché cento anni non sono neanche lontanamente sufficienti perché il DNA cambi in modo rilevante.

Oltre a questo, si sa per certo che alcuni fattori ambientali hanno un effetto sul QI. Questi fattori non si trovano allo stesso modo tra neri e bianchi, e quindi potrebbero essere all’origine della differenza.

Uno di questi fattori è lo status socio-economico, una misura della disuguaglianza sociale di solito calcolata su tre elementi: istruzione, reddito e occupazione lavorativa [33, pagg. 9-10]. Un basso status socio-economico è associato a numerosi problemi, soprattutto sulla salute [34], ma anche sul QI [3]. Per esempio, la differenza di QI tra bambini adottati da famiglie con alto o basso status socio-economico è di ben 12 punti, 18 se si considerano i casi più estremi [3, pag. 136]. Una review del 2006 ha stimato che la differenza di status socio-economico tra bianchi e neri causa quasi la metà delle differenze di QI [35].

Va notata un’altra cosa importante. Ricordate che la stima dell’ereditabilità è limitata a una popolazione sola? Ebbene, l’ereditabilità varia insieme allo status socio-economico: più alto è lo status socio-economico, maggiore è l’ereditabilità (ma questi risultati sono solidi solo negli USA, e meno negli altri stati) [3, pagg. 133-134]. Alcuni lo hanno interpretato dicendo che un alto status socio-economico permette l’espressione di tutto il potenziale della persona, mentre uno status socio-economico basso la priva di questa opportunità [3, pag. 134]. Ma il punto è che gli studi di genetica comportamentale includono tipicamente famiglie con alto status socio-economico, e di conseguenza finirebbero per sopravvalutare l’ereditabilità e sottovalutare le cause ambientali [3, pag. 134].

La discussione, insomma, è ancora aperta. In questo articolo ho solo grattato la superficie, senza entrare nei dettagli, e ho tralasciato molte cose. Non ho parlato di punti importanti, perché richiedono delle spiegazioni che avrebbero reso questo articolo troppo lungo; e ho ignorato le prove meno robuste a favore di entrambe le posizioni, per evitare di confondervi ulteriormente.

In definitiva, ci sono molte che sappiamo di non sapere; ma soprattutto è molto probabile che ci siano cose che non sappiamo di non sapere.

Conclusione

Spero che adesso i problemi della posizione di Watson siano chiari. L’insistenza con cui questo dibattito si ripresenta mi lascia perplesso, soprattutto se penso a quante questioni reali possano diventare argomento di discussione.

Per esempio, se la curiosità intellettuale è importante quanto il QI, forse si potrebbe lavorare per aumentare quella. Se lo status socio-economico e altri fattori hanno effetti negativi e certi sull’intelligenza, ma soprattutto sulla salute e sul benessere, forse conviene migliorare quelli. Non sono forse argomenti di discussione molto, molto più produttivi?

Si ringrazia il prof. Marco Perugini per i suggerimenti dati durante la stesura della bozza di questo articolo.

 

Articoli correlati

Collegamenti esterni

  • American Masters: Decoding Watson – PBS | American Masters
  • Rosalind Franklin: la verità sulla scoperta del DNA – BioPills
  • Statement by Cold Spring Harbor Laboratory addressing remarks by Dr. James D. Watson in “American Masters: Decoding Watson” – Cold Spring Harbor Laboratory
  • James Watson: The most controversial statements made by the father of DNA – Indipendent

Bibliografia

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