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Diagnosi prenatale: cos’è e quali esami prevede

Per diagnosi prenatale si intende un insieme di esami, sia strumentali che biochimici, che hanno lo scopo di evidenziare mutazioni genetiche o difetti dello sviluppo del feto direttamente durante la gravidanza[1].

Tra i principi generali che portano a effettuare una diagnosi prenatale troviamo:

  • la gravità della malattia per cui si esegue la diagnosi;
  • l’assenza di un efficace trattamento terapeutico o farmacologico.

Un aspetto importante da non sottovalutare: la coppia che richiede la diagnosi prenatale deve essere favorevole all’interruzione di gravidanza nel caso in cui se ne presenti la necessità.

In Italia, l’aborto volontario è permesso fino alla XII settimana a qualsiasi donna che lo voglia, indipendentemente dalla presenza o meno di una malattia. Dopo la XII settimana, l’aborto è consentito solo in presenza di un motivo clinico o di una patologia, diagnosticata tramite una consulenza prenatale, e prende il nome di aborto terapeutico[2].

Quando effettuare la diagnosi prenatale?

La diagnosi prenatale, come regolamentato dall’Allegato 10C della Gazzetta Ufficiale[3], può essere effettuata in determinati casi:

  • presenza di malattie con incidenza maggiore di un caso su 300;
  • se la coppia ha già avuto figli affetti da patologie cromosomiche;
  • se uno dei genitori ha un riarrangiamento strutturale bilanciato dei cromosomi o aneuploidie. I riarrangiamenti strutturali sono mutazioni in cui i cromosomi si scambiano delle parti in modo bilanciato, quindi non si verifica perdita né acquisto di materiale cromosomico. Chi ne è affetto, non per forza manifesta la malattia e potrebbe aver ereditato questa mutazione silentemente dai genitori. Le aneuplodie sono, invece, anomalie nel numero dei cromosomi. Per esempio, la trisomia 21 o Sindrome di Down, per cui i soggetti affetti hanno 3 copie del cromosoma 21 (e non 2) è un esempio di aneuploidia;
  • se i genitori sono eterozigoti per mutazioni genetiche correlate a patologie recessive, come la fibrosi cistica. Questo vuol dire che se entrambi i genitori hanno una mutazione e non sono affetti dalla malattia, ma possono comunque avere figli malati.

Le indagini prenatali consentono di individuare eventuali mutazioni genetiche, ma anche malattie come la rosolia o la toxoplamosi.

Quali sono i test utilizzati per la diagnosi?

Oggi, i test che si possono effettuare sono:

  1. villocentesi;
  2. amniocentesi;
  3. cordocentesi;
  4. NIPT (test prenatale non invasivo).

Villocentesi

La villocentesi è una tecnica che consiste nel prelievo dei villi coriali, che sono il tessuto che costituisce la placenta. È consigliata soprattutto alle coppie che presentano rischi elevati per malattie recessive, come la fibrosi cistica. Questa analisi viene eseguita tra la X e la XIII settimana di gravidanza. Il prelievo viene effettuato in via transaddominale, tramite l’introduzione di un ago per il prelievo con guida ecografica, oppure in via transvaginale, tramite lo speculum, che è uno strumento di metallo o di plastica che consente di allargare le pareti della vagina, visualizzare il collo dell’utero, per poi effettuare il prelievo.

Amniocentesi

L’amniocentesi, invece, è la tecnica più antica e più utilizzata, anche se ultimamente viene progressivamente sostituita dal test prenatale non invasivo (NIPT) che, appunto, risulta meno invasivo. Consiste nel prelievo del liquido amniotico che circonda il feto. Inoltre, consente anche di effettuare il dosaggio dell’alfa-fetoproteina (prodotta dal fegato fetale) per diagnosticare delle malformazioni congenite del tubo neurale, come la spina bifida. Il periodo ottimale per la diagnosi è tra la XV e la XVII settimana.

Amniocentesi o villocentesi?

Entrambe le tecniche consentono di fare diagnosi prenatali, ma tra le due vi sono differenze. La villocentesi viene eseguita prima e fornisce risposte in tempi più brevi. Tuttavia, in merito ad essa, sono riportati tassi maggiori di aborto rispetto all’amniocentesi.

Per maggiori informazioni, è possibile consultare le linee guida fornite dall’ International Society of Ultrasound in Obstetrics and Ginecology.

Si consiglia pertanto, se ci si trova nella situazione di dover scegliere, di consultare il proprio ginecologo o di rivolgersi a centri specializzati. La competenza degli operatori, infatti, può essere determinante per prevenire complicanze legate alle procedure.

Cordocentesi

La cordocentesi o funicolocentesi, invece, è un prelievo di sangue fetale tramite un ago introdotto in via transaddominale con guida ecografica. Si esegue a partire dalla XVIII settimana di gravidanza e consente di diagnosticare malattie infettive, come la toxoplasmosi, e, soprattutto, di verificare se sono state trasmesse al feto. È una tecnica molto complessa per l’operatore che la esegue ed è molto in disuso, pertanto è eseguita solo in centri specializzati.

Test Prenatale Non Invasivo

Il test prenatale non invasivo (NIPT), a differenza dei precedenti, è un test di screening. Ciò vuol dire che se si rileva un rischio elevato per una malattia, è necessario confermare la diagnosi con l’amniocentesi o con la villocentesi. Questo esame, infatti, consente di distinguere le pazienti in base alla probabilità di avere una patologia. Pertanto, si avranno pazienti ad alto rischio e pazienti a basso rischio. L’analisi prevede un semplice prelievo del sangue materno che si esegue a partire dall’undicesima settimana di gravidanza.

Referenze

  1. Diagnosi prenatale. Istituto Superiore di Sanità
  2. Legge 194 del 22 Maggio 1978
  3. Prestazioni specialistiche per la tutela della maternità responsabile, escluse dalla partecipazione al costo in funzione preconcezionale
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