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Deep learning: macchine che imparano

Cos’è il Deep Learning? Negli anni sessanta crebbe la speranza che gli scienziati potessero in breve replicare il cervello umano con hardware e programmi, e che presto «l’intelligenza artificiale» avrebbe eguagliato le prestazioni umane in tutti i campi. Tuttavia, inizialmente le aspettative vennero deluse poichè gli algoritmi di quei primi tempi mancavano di raffinatezza e avevano bisogno di più dati, tanto che nella comunità scientifica il sogno di costruire macchine con intelligenza di livello umano era ormai quasi svanito. La ragione è che la maggior parte della conoscenza che abbiamo del mondo intorno a noi non è formalizzata in un linguaggio scritto come una successione di compiti espliciti, che è invece una necessità nella scrittura di programmi per computer.

Tutto questo fino ad una decina di anni fa: dal 2005 le prospettive dell’AI sono cambiate in modo spettacolare. E’ successo quando le tecniche di deep learning (apprendimento profondo), che si ispira alle scienze del cervello, hanno iniziato a diventare efficaci. Le reti neurali artificiali si ispirano al funzionamento dei neuroni che imparano “per gradi” a riconoscere cose e persone, a risolvere problemi e a prendere decisioni in autonomia.

I primi prodotti sono stati presentati nel 2012 e riguardavano la comprensione del parlato (Google Now), dopo sono arrivate le applicazioni per identificare il contenuto delle immagini e ancora l’assistente personale sui nostri smartphone.

L’apprendimento profondo si basa sulla domanda: “Quali decisioni un essere umano o una macchina può considerare «buone»?”

Per gli animali, i principi evoluzionistici ordinano che le decisioni debbano portare a comportamenti che ottimizzano le possibilità di sopravvivenza e riproduzione. Nelle società umane, una buona decisione potrebbe implicare interazioni sociali che danno status o fanno stare bene. Per una macchina, come  un’automobile senza guidatore, la qualità dei processi decisionali dipende dalla capacità del veicolo autonomo di imitare i comportamenti di un buon guidatore umano.

Di conseguenza, gli informatici dovevano individuare il modo in cui gli esseri umani acquisiscono conoscenze (distinguendo quelle innate e quelle apprese attraverso l’esperienza) e stabilire algoritmi di apprendimento che imitassero questo metodo. Nonostante il cosiddetto teorema no free lunch [non esiste pasto gratis] dimostra che non c’è un algoritmo che vada bene per tutte le situazioni di apprendimento del mondo reale, sembra che l’uomo abbia capacità di apprendimento per padroneggiare compiti per cui l’evoluzione non ha preparato i nostri antenati: giocare a scacchi, costruire ponti, fare ricerca sull’AI.

Proprio per questo gli sviluppatori di reti neurali hanno adottato il cervello come modello per progettare sistemi intelligenti.

Per funzionare al meglio, gli attuali algoritmi di apprendimento richiedono il coinvolgimento di un essere umano e il compito che si sta cercando di insegnare agli AI è quello di riconoscere un’immagine e di generalizzare quanto appreso al là dei singoli esempi, ossia associarla ad un concetto che non cambi se i dati in entrata sono relativamente simili: se mostro la fotografia di un gatto e cambio pochi pixel, tenendo l’immagine simile, l’AI deve riconoscere e associare l’immagine ad un gatto.

Ad oggi, le ricerche sull’intelligenza artificiale stanno ricevendo copiose somme per il finanziamento da parte di grandi aziende e sta compiendo enormi passi avanti, tanto che nasce quasi spontanea la domanda “dobbiamo aver paura di robot troppo bravi?“.

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