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Dark diversity: la biodiversità delle specie mancanti

Quando gli assenti contano tanto quanto i presenti

Con l’espressione dark diversity (in italiano traducibile come “biodiversità oscura”) si indicano quelle specie che sono presenti all’interno di una regione ma al contempo assenti in un determinato habitat facente parte della regione stessa. Secondo Pärtel, studioso estone che per la prima volta nel 2011[1] propose il concetto di dark diversity, conoscere le specie che potrebbero abitare un determinato habitat ma che, di fatto, non vengono osservate è fondamentale per comprendere la perdita di biodiversità e il potenziale di ripristino dell’ecosistema in esame.

Il concetto di biodiversità

Per poter comprendere a pieno il concetto di dark diversity, è anzitutto necessario elucidare il significato di biodiversità, termine coniato nel 1985 da Walter Rosen durante un seminario che trattava di diversità biologica[2].

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In generale, con il termine biodiversità (o diversità biologica) si fa riferimento alla varietà delle forme di vita. Più nello specifico, nella Convenzione sulla Diversità Biologica del 1992, la biodiversità è intesa come la varietà e la variabilità degli organismi viventi e dei complessi sistemi in cui questi vivono[3]. Dalla definizione fornita nel documento ONU, si evince dunque che la biodiversità può essere considerata a diversi livelli (diversità genetica, diversità di specie, diversità ecosistemica…) che, sebbene sembrino molto distanti tra loro, sono in realtà profondamente interconnessi.

Data la complessità della diversità biologica, non esiste un modo univoco per misurarla: gli aspetti su cui ci si può concentrare per valutare la biodiversità sono molteplici e variano in funzione del fine; generalmente, viene considerata la diversità di specie[2, 4]. Attraverso la valutazione di questo parametro è possibile determinare anche la stabilità di un ecosistema, cioè la sua capacità di raggiungere una condizione di equilibrio dopo un fenomeno perturbante[5].

L’importanza della dark diversity

Sebbene esistano diversi modelli per valutare la biodiversità di un sito, il parametro maggiormente utilizzato e più significativo in chiave ecologica è quello rappresentato dalla diversità di specie, che ha come fine quello di determinare in modo assoluto la ricchezza di specie osservata.

Questo approccio lascia però spazio ad un dubbio: definire la biodiversità di un’area solo sulla base delle specie osservate è sufficiente per determinare la biodiversità assoluta? E se in quell’ecosistema ci fossero delle nicchie ecologiche libere che potrebbero essere potenzialmente occupate da una specie diversa in grado di ricoprirle? Per rispondere a queste domande e capire se la biodiversità di un sito potrebbe aumentare, è necessario ricorrere anche alla dark diversity.

Il concetto di dark diversity, la biodiversità oscura, è stato sviluppato traendo ispirazione da quello di materia oscura[8]: in astrofisica, con questo termine si indica la parte di materia che non può essere direttamente osservata, ma che è fondamentale perché la sua influenza gravitazionale si ripercuote sulla materia visibile.

Allo stesso modo, la dark diversity, pur non potendo essere direttamente osservata, contribuisce a definire le caratteristiche di un ecosistema. Essa, infatti, non rappresenta altro che la parte dell’insieme delle specie (o pool di specie) sito-specifico mancante: attraverso questo genere di (non) osservazione, dunque, si può ottenere un’idea della completezza[9] – in termini di biodiversità – dell’ambiente in esame.

Conoscere la completezza di un ecosistema è fondamentale per poterlo gestire e tutelare al meglio[10]: attraverso questo parametro, infatti, è possibile valutare lo stato di benessere di un habitat, pianificare strategie di gestione mirate e monitorare gli effetti di eventuali interventi di ripristino.

Valutare la dark diversity

Per valutare la dark diversity di un sito è necessario determinare il pool di specie, cioè definire le specie di una regione che potrebbero potenzialmente colonizzare e abitare un’area con specifiche condizioni ecologiche[6]. Lo scopo principale della determinazione del pool di specie è quello di individuare quante delle specie che lo costituiscono sono effettivamente presenti nell’area di studio[7].

La determinazione del pool di specie è un argomento piuttosto controverso, in quanto bisogna tenere in considerazione una serie di fattori geografici, biogeografici ed ecologici che potrebbero influenzare la dispersione della specie. Esattamente come accade per la biodiversità osservata, anche la dark diversity è influenzata da variabili climatiche e dalla presenza di barriere di dispersione e, quindi, la probabilità che una specie possa insediarsi con successo in un habitat dipende da una serie di “filtri” ecologici e geografici[7].

Il pool di specie può essere quindi definito sulla base di fattori prettamente geografici (pool geografico di specie) o biogeografici (pool biogeografico di specie), ma alla luce di quanto sopra esposto e nel contesto della dark diversity, l’approccio migliore risulta essere quello del pool di specie sito-specifico[1]. In questo modo, si tengono in considerazione quelli che sono gli aspetti ecologici ed ambientali escludendo tutte le specie che non presentano le caratteristiche adatte per tollerare le condizioni nell’area considerata o per cui vi sia impossibilità di dispersione.

Una volta determinato il pool di specie sito-specifico, è possibile valutare quale delle specie che lo costituiscono non sono presenti nell’area di studio, determinando quindi la biodiversità oscura.

Caso studio: la dark diversity della flora europea

Conoscendo la ricchezza in specie e la dark diversity di un’area, è possibile valutare la completezza di quest’ultima in termini di biodiversità. Per comprendere meglio questo meccanismo, prendiamo in considerazione uno studio sulla diversità biologica della flora Europea condotto da Ronk et al. nel 2015[7].

Basandosi sui dati contenuti nell’Atlante della Flora Europea (AFE – Atlas Florae Europeae) e calcolando il pool di specie sito-specifico, gli autori hanno costruito una mappa dell’Europa che mettesse in luce non solo la ricchezza specifica osservata (Figura 1a), ma anche la dark diversity (Figura 1b) e di conseguenza la completezza della biodiversità nell’area in esame (Figura 1c).

Sebbene la ricchezza in specie aumenti in generale spostandosi dal nord verso il sud Europa, la completezza (calcolata a partire dal numero di specie osservate e dalla dark diversity) non mostra alcuna relazione con la latitudine. Le zone risultate più complete da un punto di vista biologico sono infatti l’Islanda e la Svezia, le zone meridionali di Italia, Spagna e Grecia e le aree montuose. Da questo esempio si evince quindi tutta l’importanza della biodiversità oscura nel raggiungere una maggiore comprensione della struttura della biodiversità.

Considerando la sola ricchezza in specie, per esempio, si penserebbe all’Islanda come un’area degradata da un punto di vista biologico (visto il bassissimo numero di specie osservato), ma ecco che considerando anche la dark diversity si comprende come, in relazione alle sue caratteristiche geografiche, biogeografiche ed ecologiche, questa terra sia in realtà biologicamente completa. Al contrario, sebbene presenti valori medi di biodiversità osservata (Figura 1a), nella zona orientale della Francia i valori di dark diversity sono piuttosto elevati (Figura 1b) e, di conseguenza, la completezza di questo sito è nel complesso bassa (Figura 1c).

dark diversity flora
Rappresentazioni grafiche dei diversi valori di diversità rilevati per la flora europea. Figura 1a: diversità osservata; figura 1b: dark diversity; figura 1c: completezza dei siti, calcolata rapportando la biodiversità osservata ai valori di diversità oscura rilevati. In tutti i casi i valori crescono gradualmente passando dal blu al rosso (da [7])

Conclusioni

Il concetto di dark diversity (o diversità oscura) è stato introdotto da Pärtel nel 2011[1] per indicare le specie che potrebbero potenzialmente abitare un’area ma che, pur essendo presenti nella regione, non vengono osservate nella zona in esame.

Sebbene si tratti di un concetto piuttosto recente e apparentemente controverso, è in realtà fondamentale per acquisire una visione completa della struttura della biodiversità. Limitandosi a considerare la biodiversità come ricchezza specifica osservata, infatti, si rischia di fare una valutazione poco accurata di quello che è il reale stato dell’ecosistema (o dell’habitat) in esame.

Un’area, per esempio, potrebbe mostrare un’alta ricchezza in specie ma, al contempo, un’alta diversità oscura: ciò significherebbe che è lontana dall’essere completa da un punto di vista di diversità biologica. Viceversa, come si è visto nel caso della flora in Islanda, si potrebbe osservare una bassa ricchezza in specie e un’altrettanto bassa diversità oscura a indicare la completezza della comunità ecologica.

Il concetto di diversità oscura si rivela quindi indispensabile per poter gestire e tutelare la biodiversità, valutando lo stato di mantenimento degli habitat e comprendere quindi quale sia il potenziale di ripristino di un ecosistema… perché, in questo caso, gli assenti contano tanto quanto i presenti!

Referenze

  1. Pärtel, M., Szava-Kovats, R., & Zobel, M. (2011). Dark diversity: shedding light on absent speciesTrends in ecology & evolution26(3), 124-128;
  2. Sarkar, S. (2002). Defining “biodiversity”; assessing biodiversityThe Monist85(1), 131-155;
  3. ISPRA Ambiente – Convenzione sulla Diversità Biologica;
  4. University of Wisconsin – What is biodiversity?;
  5. Hamilton, A. J. (2005). Species diversity or biodiversity?Journal of environmental Management75(1), 89-92;
  6. De Bello, F., et al. (2016). Measuring size and composition of species pools: a comparison of dark diversity estimates. Ecology and Evolution6(12), 4088-4101;
  7. Ronk, A., Szava‐Kovats, R., & Pärtel, M. (2015). Applying the dark diversity concept to plants at the European scaleEcography38(10), 1015-1025;
  8. Pärtel, M. (2014). Community ecology of absent species: hidden and dark diversityJournal of Vegetation Science25(5), 1154-1159;
  9. Pärtel, M., Szava-Kovats, R., & Zobel, M. (2013). Community completeness: linking local and dark diversity within the species pool conceptFolia Geobotanica48(3), 307-317;
  10. Lewis, R. J., et al. (2017). Applying the dark diversity concept to nature conservation. Conservation Biology31(1), 40-47.

Immagine di copertina da pikist.com.

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