In principio era il Giappone, il luogo dove gli scienziati hanno scoperto per la prima volta un microrganismo in grado di digerire le bottiglie di soda. Il batterio Ideonella sakaiensis dominava il proprio habitat nel suolo di un impianto per il riciclaggio della plastica. La sua scoperta risale a poco più di due anni fa, ma adesso i ricercatori hanno fatto qualcosa in più: in via del tutto fortuita hanno potenziato l’enzima responsabile della digestione della plastica, rendendolo più efficiente, e adesso ritengono che ci siano ulteriori margini di miglioramento. Dunque alla luce degli ultimi fatti, lo sforzo per aggredire su larga scala il crescente problema dei rifiuti di plastica, che si ammassano giorno dopo giorno sia sulla terraferma che negli oceani, è ancora all’inizio ma i segnali sono assai promettenti. L’attuale scoperta, pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences, è stata praticamente casuale. Mentre i ricercatori esaminavano le funzioni della proteina anti-plastica, hanno creato accidentalmente una forma potenziata della stessa proteina.
«La fortuna gioca un ruolo spesso fondamentale nella ricerca scientifica, e la nostra scoperta non fa eccezione», ha dichiarato uno degli autori dello studio, il biologo strutturale John McGreehan della University of Portsmouth, nel Regno Unito. «Questo risultato inatteso suggerisce che esiste un modo per potenziare ulteriormente questi enzimi, e ci fa avvicinare alla soluzione per riciclare la sempre crescente montagna di plastica gettata nell’ambiente».
Esattamente, il gruppo di McGreehan, che include ricercatori del National Renewable Energy Laboratory (NREL) del US Department of Energy, si sono imbattuti nella forma mutante mentre studiavano la struttura cristallina della PETasi, il così chiamato enzima del batterio giapponese in virtù della sua capacità di mangiare un particolare tipo di plastica denominato PET, che sta per polietilene tereftalato.
Il PET è un materiale inventato nei lontani anni ’40, ma anche se può sembrare di essere passato tanto tempo, affinché un microrganismo possa evolvere un sistema efficiente per digerire un nuovo materiale creato dall’uomo ci vuole molto di più che una manciata di decadi. Ecco perché la scoperta di Ideonella sakaiensis, per quanto interessante, destava un entusiasmo moderato. Insomma, la natura non ha avuto abbastanza tempo per consentire al batterio di sviluppare un enzima molto efficiente nel digerire le miliardi di tonnellate di plastica riversate nelle discariche e negli oceani, laddove minacciano seriamente la vita marina.
In ogni caso la PETasi naturale è già di per sé una proteina straordinaria, in quanto digerisce la plastica in pochi giorni, considerando che invece, senza la sua azione, il PET impiegherebbe secoli a decomporsi da solo. Come ha spiegato il biologo strutturale Bryon Donohoe del NREL: «Dopo appena 96 ore si può vedere chiaramente, con un microscopio elettronico, che la PETasi sta degradando il materiale. E questo test – ha aggiunto – viene condotto usando i rifiuti reali che si trovano nelle discariche e negli oceani».
Per esaminare l’efficienza della PETasi a livello molecolare, gli scienziati hanno bombardato la molecola con i Raggi X allo specifico scopo di generare un’immagine in 3D ad alta risoluzione dell’enzima. L’analisi ai Raggi X ha così permesso di focalizzare la vista sul sito attivo della PETasi, quella parte della proteina responsabile della reazione chimica che lega e divora la plastica. La capacità di vedere in profondità l’azione dell’enzima ha dato agli scienziati l’idea di poter ingegnerizzare un enzima più veloce ed efficiente, modificando il sito attivo della proteina. E ci sono riusciti prima del previsto, con loro stessa sorpresa, praticamente per caso, mentre sondavano altre proprietà della molecola.
L’umore dei ricercatori è alto perché, anche se l’attuale forma mutante della PETasi è solo del 20 percento più efficiente dell’enzima naturale, adesso gli autori della scoperta sanno come ottimizzare l’attività della proteina e sono convinti di spingersi ancora più in là . La speranza è che le future forme ingegnerizzate della proteina consentiranno non solo di migliorare la digestione della plastica, ma anche di mangiare altri tipi di materiale. Intanto è già noto agli scienziati che la PETasi mutata può persino digerire un sostituto del PET chiamato PEF (polietilene furandicarbossilato). Cosa che invece non può fare la PETasi naturale.
«Ciò che abbiamo imparato è che la PETasi non è ancora pienamente ottimizzata nel degradare il PET», ha dichiarato il biotecnologo Gregg Beckham del NREL. «Ma adesso che sappiamo come fare, è tempo di applicare gli strumenti di ingegnerizzazione proteica che abbiamo a disposizione per continuare il potenziamento».