L’11 Marzo 2020 un nemico invisibile ha attaccato e stravolto la nostra società: il SARS-CoV-2. Un virus impercettibile agli occhi ma che da subito ha parlato chiaro con i suoi effetti sulla salute umana. Una data destinata a restare nella memoria di ognuno, così come nei libri di storia, perché ha rappresentato l’inizio di una pandemia. 118.000 casi in 114 Paesi sono stati l’interruttore che ha fatto dichiarare dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO – World Health Organization) l’inizio dell’emergenza sanitaria mondiale[1]. Il nuovo coronavirus ci ha da subito costretti a cambiare abitudini, relazioni, lavoro e mobilità. Ma ha indotto anche cambiamenti economici e sociali che potrebbero lasciare un segno duraturo nella nostra storia.
A un anno dall’inizio della pandemia cominciano a rendersi ben evidenti altri cambiamenti che il virus ha imposto. Infatti, i mutamenti delle nostre abitudini hanno aumentato il nostro impatto ambientale. Presi come siamo a salvaguardare la salute e l’economia, stiamo dimenticando che la situazione ambientale era molto critica già prima del Covid-19. Già allora vivevamo in un mondo di plastica.
Quanta plastica nel mondo prima del Covid-19?
La marine litter di plastica
Nel 2018 sembravamo ben consapevoli che il mondo fosse progressivamente sommerso da questi materiali organici artificiali. Produciamo plastica in quantità sempre crescenti dal 1940, perché le sue caratteristiche la rendono un materiale perfetto per gli usi più disparati: trasparente, leggera, con bassi costi di produzione, impermeabile, isolante e durevole. Peccato, però, che la durevolezza la renda anche un nemico dell’ambiente. I materiali plastici si frammentano, ma difficilmente possono essere biodegradati (eccezion fatta da alcuni batteri). Prendiamo ad esempio una bottiglia di plastica. Questa, una volta entrata nell’ambiente, viene frammentata dall’azione meccanica delle onde e dei raggi UV. I pezzi così originati possono rimpicciolirsi fino a diventare invisibili a occhio nudo, ma non scompaiono certo nel nulla[2].
Quindi tutta la plastica prodotta, che diventa rifiuti, non può che essere accumulata. Accumuli che dalle discariche e dalla terraferma arrivano nei mari e negli oceani, dove formano la cosiddetta Marine Litter. Un flusso continuo di rifiuti, tanto è vero che l’80% dei rifiuti in mare è di origine terrestre. Analizzando la marine litter, la plastica è l’indiscussa protagonista e la maggior parte di questa (fino al 70%) è rappresentata da plastica monouso e attrezzi da pesca[3]. La plastica in mare non scompare, resta anzi intatta per lunghi periodi. Per questa ragione, in mare sono ancora rintracciabili oggetti di plastica da tempo scomparsi dal commercio. Da questa evidenza è nato addirittura un museo virtuale, allestito con la ricostruzione 3D di oggetti plastici recuperati dalla spiaggia. L’idea è nata nel 2018 come frutto delle esperienze di Enzo Suma, guida naturalistica di Ostuni, che ha raccolto dei veri e propri cimeli plastici e ha deciso di mostrarli a tutti. Insieme alle altre iniziative del progetto Archeoplastica, il museo ha lo scopo di sensibilizzare sul problema degli accumuli in mare di questo materiale[4] che rappresentano una zavorra ingombrante in continua crescita.
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Infatti, dall’invenzione della plastica, la domanda non ha fatto che aumentare, portandoci a incrementare continuamente la produzione. Nel 2017 erano 348 milioni le tonnellate di plastica prodotte, diventate 359 nel 2018. Il maggior produttore a livello globale è rappresentato dall’Asia (51%), dove fanno la parte del leone la Cina, con il 30%, e il Giappone, col 4%. Nel 2018, l’Europa ha contribuito per il 17% alla produzione mondiale di plastica, corrispondente a 61,8 milioni di tonnellate. Montagne di plastica prodotte per far fronte a ogni tipo di necessità: la maggior parte (39,9%) è destinata al “monouso” o SUP (Single Use Plastics), seguita da quella utilizzata dall’edilizia (19,8%), dal settore automobilistico (9,9%), impiegata per uso domestico (4,1%) e dall’agricoltura (3,4%)[5].
Tutta plastica che è destinata a diventare presto o tardi un rifiuto, specialmente nel caso dei disposable, cioè gli usa e getta. Non a caso, i Paesi che ne producono di più sono anche quelli più inquinati soprattutto a livello dei fiumi, che poi la veicolano nei mari. In particolare, i fiumi asiatici trasportano l’86% della plastica che finisce in mare e tra questi si trova lo Yangtze, il fiume più inquinato al mondo[6]. Mari ed oceani diventano così dei serbatoi di plastiche che, ad oggi, stivano quantità terrificanti: oltre 5.000 miliardi di pezzi di plastica stanno galleggiando negli oceani[7].

Gli effetti sull’ambiente
Tutta questa gran quantità davvero impressionante di plastica è difficile da immaginare senza toccarne con mano la portata. Tutti questi pezzi di plastica flottanti generano diversi problemi all’ambiente e agli organismi marini: a causa delle macroplastiche molti organismi muoiono per soffocamento, lesione e ingestione. In aggiunta a queste conseguenze deleterie, le macroplastiche, degradandosi, danno origine alle microplastiche (secondarie), ovvero a piccoli frammenti di dimensioni inferiori a 5 mm[8]. Minuscoli contaminanti che possono essere assorbiti dagli organismi ed entrare nella catena alimentare.
Infine, ma non per ultimo, i piccolissimi frammenti di plastica possono essere un “veicolo” per altri contaminanti chimici organici presenti nell’ambiente (indicati complessivamente come POP, Persistent Organic Pollutants)[8]. Il rimedio senza dubbio più efficace per evitare la dispersione e la degradazione di rifiuti plastici è produrne il meno possibile. Per gli oggetti di plastica già prodotti le strade maestre sono invece il riuso e il riciclo, ove possibili, e l’incenerimento della parte rimanente.
Purtroppo, come evidenziato nel 2018, solo il 32,5% della plastica raccolta è stato riciclato, mentre il 24,9% è stato trattato in maniera inefficiente diventando quindi una potenziale fonte di Marine Litter[5]. La categoria di plastica più abbondante in mare è quella dei SUP, o monouso, che supera il 40%, non solo perché è la categoria più prodotta, ma anche perché è la più difficile da riciclare. Per la sua composizione, solo il 12% della plastica monouso può essere riciclato[3]. Alla luce di tutto questo, nel corso degli anni, abbiamo iniziato a capire che la plastica oltre ad essere un prezioso strumento è anche un grande peso per la Terra.
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Politiche economiche e legislative
Di fatto, fino al 2018 la plastica era in cima alla black list dei nemici del pianeta, al punto da entrare nelle politiche economiche di tutti i Paesi. Tanto è vero che, nel 2018, l’Unione Europea ha rilasciato la prima strategia per la plastica, nell’ottica di una economia circolare cioè all’insegna della sostenibilità[9]. Con questa si pone l’obiettivo di bandire, entro il 2021, dieci tipi di plastica monouso e gli attrezzi da pesca che primariamente si ritrovano nei rifiuti marini. Nel luglio 2018, ben 127 Paesi si sono impegnati nella lotta al monouso: alcuni imponendo tasse sui monouso di nuova produzione, altri adottando tasse ambientali per la gestione e lo smaltimento dei rifiuti plastici. Una strategia senza esclusione di colpi che non ha lasciato spazio nemmeno alle microbeads (microsfere).
Queste minuscole sfere di plastica (microplastiche primarie), un tempo incluse anche in prodotti per la cura personale (come gli scrubs), sono state bandite in diversi Paesi, tra cui Italia, Francia, Canada, Regno Unito, Stati Uniti, Svezia e Corea del Sud[3, 10]. Gli obiettivi nel 2018 erano molto chiari e con scadenze precise. Come primo obiettivo, riciclare almeno il 55% dei rifiuti urbani entro il 2025, quota destinata a salire al 60% entro il 2030 ed al 65% entro il 2035. Il secondo obiettivo è il riciclo del 65% dei rifiuti di imballaggi entro il 2025 (70% entro il 2030) con obiettivi diversificati per materiale. Non solo riciclare, tra gli obiettivi rientra anche smettere di accumulare rifiuti nell’ambiente. Infatti, le nuove regole riguardano anche le discariche e prevedono un target vincolante: entro il 2035 massimo il 10% dei rifiuti urbani potrà essere smaltito in discarica[1]. Obiettivi chiari e riflettori puntati sulla plastica, fino all’arrivo del Covid-19.
La pandemia di plastica
L’impatto dei rifiuti sanitari e della plastica monouso
Il Covid-19 è una pandemia che, per causa di necessità, inquina l’ambiente. In oltre 50 Paesi è obbligatorio l’utilizzo delle mascherine, Dispositivi di Protezione Individuale (DPI oppure PPE – Personal Protective Equipment) categorizzati tra i SUP (plastica monouso)[3]. I DPI rientrano in questa categoria perché le mascherine di solito incorporano polipropilene, poliuretano e polietilene ovvero plastiche[12]. È per questo che lo smaltimento non corretto dei rifiuti medico-sanitari e dei DPI legati al Covid-19 sta contribuendo ad aumentare l’inquinamento da plastiche[7].
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, solo per l’Italia, con 60,4 milioni di abitanti, la domanda di DPI è stimata a un miliardo di mascherine e mezzo miliardo di guanti ogni mese. Con un simile consumo esteso alla popolazione mondiale, di 7,8 miliardi di abitanti, la richiesta mensile sarebbe pari a 129 miliardi di mascherine e 65 miliardi di guanti[7, 12]. La plastica però non deriva solo dalle mascherine e dai guanti: è stato calcolato che circa 22 kg di rifiuti plastici vengono prodotti per ogni 1000 test diagnostici (che usano la RT-PCR per processare i tamponi)[12].
Così, quella che era iniziata come una crisi sanitaria si è prontamente evoluta in una minaccia economica, sociale e ambientale. Abbiamo dato priorità alla salute, poi all’economia, ma non stiamo considerando le implicazioni ambientali del Covid-19[13]. Non possiamo chiudere un occhio solo perché siamo presi a risolvere altro.
L’aumento dei DPI, di pari passo a quello dei rifiuti medico-sanitari, sta facendo improvvisamente incrementare la produzione di rifiuti, che eccedono le possibili opzioni di smaltimento appropriato[3]. Anche senza numeri precisi, è facile immaginare quale sia l’enorme quantità di mascherine e quindi di plastica che la pandemia ci sta costringendo ad utilizzare. Ma l’emergenza sanitaria non ha fatto aumentare solo l’uso di mascherine; molti altri prodotti sono diventati essenziali durante la pandemia. Guanti e imballaggi plastici (packaging), che stavamo eliminando, sono diventati una costane da marzo 2020.
Durante la pandemia il packaging è aumentato del 40%[7], in gran parte per l’incremento della consegna a domicilio di prodotti alimentari, servizio in impennata specialmente nei periodi di lockdown[12, 14]. Effettivamente, nei periodi di chiusura, tutti abbiamo gradito la consegna a domicilio, magari ordinando proprio al locale dove andavamo il sabato sera. Tutte le attività di ristorazione hanno chiuso le sale e si sono trasformate in pacchetti di pronta distribuzione, pacchetti di plastica. Un po’ per abitudine, un po’ per necessità, in pochi hanno rinunciato alla consegna del prodotto pronto. Questo ha influenzato la domanda e l’offerta, non solo dei prodotti in sé, ma anche degli annessi necessari, in primis il packaging. In sintesi, il Covid-19 ha portato alla mastodontica richiesta di due categorie di prodotti: gli imballaggi e i DPI, dominati dalle mascherine. Nuova plastica che, però, ha una vita breve e un futuro incerto.
Come e dove disfarsi dei DPI ha generato non pochi problemi e una politica controversa sullo smaltimento. Ormai tutti sappiamo che, in teoria, le mascherine dovrebbero essere smaltite nel modo più appropriato, ad esempio chiuse in un sacchetto quando potenzialmente infette[3]. Nella pratica però spesso non è così, come ben ci fanno notare le mascherine disperse dovunque. I DPI potenzialmente infetti dovrebbero infatti essere uniti ai rifiuti medico-sanitari pericolosi a rischio infettivo e inceneriti ad alte temperature (800-1000 °C) per permetterne la sterilizzazione[7, 12, 14]. Lo smaltimento dei rifiuti “infetti” è una questione di per sé spinosa, complicata ulteriormente dalle quantità. Con la pandemia la mole di rifiuti sanitari è aumentata a livelli completamente inaspettati. Ad esempio, nella provincia cinese di Hubei questo tipo di rifiuti è aumentato del 370% tra gennaio e marzo 2020[14] , mentre in Catalogna è stato del 350% nel solo mese di marzo 2020[7].
Tanti rifiuti, ma quale sarà il loro destino?
Una cosa è certa, i rifiuti dovuti alla pandemia saranno presenti e visibili nell’ambiente per decenni [7]. Intanto la questione dei rifiuti va affrontata e ogni Paese lo sta facendo in modo diverso in base alle possibilità economiche e alle risorse disponibili. Smaltire i rifiuti ha infatti un costo che aumenta per i rifiuti speciali, come quelli sanitari. In particolare, per l’Italia è stato calcolato che i rifiuti sanitari contaminati, seppur rappresentano solo il 15-25% del totale di quelli prodotti da un’azienda ospedaliera, determinano l’80% dei costi di gestione[15]. Anche di fronte alla sfida dello smaltimento dei rifiuti si fanno sentire le differenze tra Paesi ricchi e poveri. Le nazioni più abbienti sono state in grado di smaltire prontamente il carico di rifiuti: Wuhan (in Cina) ha schierato inceneritori mobili per eliminare i residui contaminati in maniera sicura[3].
Le economie più povere, come le nazioni del Sud del mondo, sono invece costrette a reagire all’emergenza come possono. Spesso questa situazione viene fronteggiata con strategie di smaltimento inappropriate, come lo smaltimento in discarica o gli incendi. Nei Paesi dove le economie sono in via di sviluppo, l’aumento dei rifiuti sta generando veri e propri problemi logistici ed economici: troppe tonnellate di rifiuti stanno affollando le discariche, straripando e trasformando le città stesse in discariche a cielo aperto. Montagne di rifiuti che sono lì, che si accumulano e che richiedono troppi soldi per essere smaltite in maniera appropriata. Di conseguenza gli incendi locali (all’aria aperta) sono aumentati sostanzialmente durante la pandemia come tentativo di smaltimento, ma anche per evitare il contagio.
Gli episodi di incenerimento incontrollato possono danneggiare non solo le popolazioni di questi Paesi, ma anche lo stato ambientale sia nel breve che nel lungo termine. I rifiuti sanitari sono per la maggior parte plastiche, che quando vanno incontro a combustione, liberano nell’aria diverse sostanze: oltre a gas serra, ci sono diversi composti pericolosi come diossine, metalli pesanti, PCB e furani che, tra i vari effetti tossici, agiscono anche come interferenti endocrini[13].
Oltre agli incendi, anche lo smaltimento in discarica è un problema per l’ambiente che sta aumentando con la pandemia. Dalle discariche i rifiuti possono diffondersi in natura danneggiano organismi sia terrestri che acquatici[2]. Considerando uno smaltimento scorretto dell’1%, il WWF sostiene che più di 10 milioni di mascherine saranno introdotte ogni mese nell’ambiente. Tenendo conto che ogni mascherina pesa approssimativamente 3-4 g, ci saranno 40 tonnellate al mese di mascherine introdotte nell’ambiente. Vale a dire che, ogni mese, verrà rilasciato in natura quasi l’equivalente del peso di un capodoglio maschio adulto (il più grande animale vivente dotato di denti)[16]. Quantità spaventose, mai prodotte prima in un arco temporale così breve, che si posizionano in un ambiente saturo in un’era di politiche incerte, che non sanno se dare la priorità all’economia o all’ambiente.
L’inversione di rotta
Le politiche che hanno promosso una vita plastic-free fino a prima della pandemia, hanno invertito la rotta, perché il Covid-19 ha portato cambiamenti su tutti i livelli. Così nonostante i grandi progressi fatti nella gestione delle plastiche, il nemico invisibile ci sta riportando diversi passi indietro[13]. Quasi a fatica ci stavamo adattando alle regole per una società con meno plastica, eppure il cambiamento stava diventando la norma. Dall’iniziale indignazione per le tasse sulla plastica monouso, abbiamo iniziato ad apprezzare i sacchetti biodegradabili o (ancora meglio) quelli riutilizzabili (shopper). Poi è arrivato il Covid-19 e abbiamo invertito la rotta: per proteggerci dal contagio abbiamo dato di nuovo il via alla logica dell’usa e getta. C’è stata la “riscossa del monouso” perché ci fa sentire sicuri, protetti dal contagio.
Questa però è un’idea che in molti casi, come quello dei sacchetti di plastica e degli imballaggi, ha ragione di esistere solo nella testa del consumatore. Parlando in termini pratici, nessuno studio finora ha evidenziato che una borsa per la spesa riutilizzabile veicola il virus più di un sacchetto usa e getta (purché adeguatamente lavata, s’intende!)[3]. Nonostante la mancanza di prove scientifiche, gli involucri di plastica sembrano rassicurare i consumatori. In molti, infatti, durante la pandemia hanno preferito cibo preconfezionato per evitare le cross-contaminazioni. Ad esempio, per i prodotti animali preconfezionati, la domanda è aumentata dal 20 al 54% nell’aprile 2020, rispetto a quanto registrato nello stesso mese l’anno precedente[7, 17].
La crescente domanda e la necessità di commercializzare il monouso, hanno portato i governi a modificare le politiche sulla plastica, favorendone l’utilizzo. Gli Stati hanno così prontamente adattato le politiche ambientali alle necessità del momento, rimandando il problema della plastica a emergenza sanitaria conclusa. Molti Paesi, durante la pandemia, hanno sospeso le tasse sulla plastica monouso, come il Portogallo, il Canada, il Regno Unito e alcuni Stati degli U.S. Altri governi non si sono limitati a questo, hanno addirittura etichettato come “non idonee” le alternative riutilizzabili, come gli Stati U.S. del Massachusetts e New Hampshire[3, 10].
Stiamo tornando ad un mondo plastico-centrico! Perché i governi non mettono nelle loro agende anche questo problema?
Perché sono concentrati su una sola priorità, la lotta contro il Covid-19, e secondo alcuni scienziati da questo fenomeno non è immune nemmeno la comunità scientifica. Madhukar Pai e altri ricercatori riassumono lo stato attuale della ricerca con l’espressione “Covidization of science” (“Covidizzazione” della scienza). Il termine si riferisce alla focalizzazione delle ricerche scientifiche intorno al tema Covid-19 in quanto patologia. Pai e altri scienziati spiegano con questa espressione che sono preoccupati di come la pandemia stia modificando la ricerca, in termini di fondi, procedure e pubblicazione dei risultati. Con tanti fondi stanziati a favore della ricerca sulle patologie causate dal nuovo virus, altrettanti scienziati si sono trovati a deviare le loro ricerche in direzione dei fondi, ovvero del Covid-19. Anche scienziati ben lontani dallo studio delle malattie infettive, hanno dovuto “vestire di Covid” i loro lavori, deviandone in parte gli scopi.
In questo modo, ci sarebbe una grande perdita per la ricerca su altri fattori vitali, dalle malattie non infettive al cambiamento climatico[18]. Per capire quanto la scienza si stia unitariamente dedicando al Covid-19 si può navigare sul database Covid-19 della WHO[19]. Qui, nel mese di marzo 2021, risultano pubblicati 236.908 articoli sul Covid-19. Di questi 65.510 rispondono alla parola chiave salute e solo 6.287 alla parola ambiente. Solo meno del 3% delle pubblicazioni riguarda gli effetti del Covid-19 sull’ambiente.
Anche il futuro sarà di plastica?
Con una situazione di partenza delicata e pochi studi al riguardo non è semplice capire quali saranno gli effetti della pandemia sull’ambiente. A formulare una possibile risposta è uno studio pubblicato sul “Chemical Engineering Journal” che spiega la necessità di diversificare gli effetti della pandemia a breve e a lungo termine, poiché i primi sembrano decisamente più incoraggianti e positivi dei secondi, pur non essendo tali[13].
Osservando gli effetti a breve termine, si può pensare che la pandemia abbia contribuito al raggiungimento degli obiettivi posti dall’UN 2030 SDG (Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile – Sustainable Development Goals, SDGs) quali: il miglioramento della qualità dell’aria, la riduzione dell’emissione dei gas serra (GHGs), la diminuzione della deforestazione e dell’inquinamento acustico (anche sottomarino legato al trasporto navale). Va considerato però che questi effetti positivi non sono netti, ma risultano solo dalla sospensione temporanea (parziale o totale) di alcuni settori. Attività che riprenderanno a pieno ritmo non appena l’emergenza sanitaria sarà conclusa. In aggiunta, non si può negare che anche nel breve termine ci sono effetti negativi ben evidenti, come l’aumento dei rifiuti.
Tra gli effetti a lungo termine, la preoccupazione maggiore è che le plastiche non solo si accumulano nell’ambiente, ma andranno incontro a deterioramento in microplastiche e nanoplastiche[2, 13]. Nella fattispecie delle mascherine, uno studio recente ha anche quantificato il deterioramento: una singola mascherina chirurgica nell’ambiente marino rilascia fino a 173mila microfibre al giorno[20].
Stimare quale sarà il costo per l’ambiente è difficile, poiché le valutazioni sono complicate dai differenti destini che i PPE e i rifiuti sanitari hanno nei diversi Paesi. Gli effetti a lungo termine dipendono infatti dal tipo di smaltimento. Mentre l’incenerimento è a impatto minimo, la combustione incontrollata negli incendi e l’accumulo nelle discariche hanno impatti di tutt’altra entità. In sintesi, milioni di tonnellate di plastica devono essere smaltite senza una linea guida e altrettante tonnellate, in maniera diretta o indiretta, lecita o illecita, finiranno in mare. Quanto detto lascia immaginare un effetto sull’ambiente della magnitudine ancora non quantificabile. Il tutto andrà a sommarsi ai 4/12 Mt di plastica all’anno rilasciate nei mari e negli oceani[8].
Senza miglioramenti i modelli matematici stimano che 12 miliardi di Mt di rifiuti plastici finiranno nell’ambiente entro il 2050. Andranno considerate in aggiunta le emissioni di gas serra legate all’intero ciclo produttivo della plastica che contribuiscono per il 15% al budget del carbonio totale globale[3].
Un po’ troppi per essere nascosti sotto il tappeto.
Non è possibile ignorare tutto questo e servono soluzioni efficaci e urgenti, ora più che mai. Per rendere l’impatto della pandemia più sostenibile si deve agire a ogni possibile livello: dalle responsabilità individuali al riadattamento del sistema di smaltimento dei rifiuti[3]. La responsabilità individuale è il motore fondamentale per affrontare il problema della plastica al tempo del Covid-19. Gesti semplici come continuare a scegliere prodotti ecosostenibili possono fare la differenza: gli oggetti riutilizzabili (borse, bottiglie) restano preziosi alleati anche durante la pandemia. Plastica non è garanzia di sterilità e protezione dal virus, le corrette pratiche di disinfezione e igienizzazione lo sono di più.
Ovviamente questo non può bastare. Servono delle misure rapide che possano gestire il problema su grande scala. Ogni Paese deve necessariamente migliorare il sistema di raccolta, gestione e smaltimento dei rifiuti. Oltre ad aumentare la quantità di rifiuti riciclati, ciascuno Stato dovrebbe smaltire gli eccessi al meglio. E se non si può agire sugli impianti, devono essere valutate alternative a basso impatto ambientale, come la disinfezione chimica prima dello smaltimento[12].
Ma questo non risolve il problema se la fonte persiste: fino a quando il Covid-19 sarà un nemico invisibile tra noi, i DPI continueranno a far parte della nostra routine. Nella logica della continua necessità di mascherine e degli altri dispositivi, l’unica soluzione sembra essere il progresso. La ricerca scientifica e l’innovazione sono l’unica strada che può dare una soluzione alternativa alla plastica, ad esempio indagando l’efficacia delle plastiche biologiche (biobased plastics, come PLA e PHA) anche nei DPI[13].
Pur sottolineando che è giusto e prioritario salvaguardare la salute pubblica, serve ricordare che in un ambiente malato nessuno potrà essere in salute. Occorrono provvedimenti e coscienza, ma devono essere urgenti. Il tempo scorre: “ci rimangono solo una decina di anni per agire in maniera decisa e cambiare una situazione che metterà a rischio il futuro della nostra vita sul Pianeta“[21].
Revisione – Dott.ssa Martina Capriotti: biologa marina, Esploratrice della National Geographic Society e ricercatrice post-dottorato presso l’Università del Connecticut.
Referenze
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- Cole M. et al. (2011). Microplastics as contaminants in the marine environment: a review. Marine pollution bulletin 62.12 (2011):2588-2597;
- Patricio Silva Ana L. et al. (2020). Rethinking and optimising plastic waste management under COVID-19 pandemic: Policy solutions based on redesign and reduction of single-use plastics and personal protective equipment. Science of The Total Environment, volume 742, 2020, 140565;
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- Plastic Europe – The facts (2019). An analysis of European plastic production, demand and waste data;
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- The Grocer (2020). Six ways coronavirus is threatening progress on single-use plastic;
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- WHO Database (2021). Global research on coronavirus disease (COVID-19). Aggiornamento dei dati: Marzo 2021;
- Le Scienze (2021). Inquinamento: una mascherina chirurgica nell’ambiente marino rilascia fino a 173 mila microfibre al giorno; 05-05-21;
- UN – Meetings Coverage (2019). Only 11 Years Left to Prevent Irreversible Damage from Climate Change; 28-03-19.