La bioispirazione, o biomimesi, è lo studio della natura per trarne ispirazione per l’invenzione di nuove tecnologie. Potrebbe sembrare una disciplina recente ma, in realtà, da sempre l’uomo cerca di imitare alcune delle proprietà straordinarie di piante e animali con l’obiettivo di migliorare le proprie condizioni di vita.
Ad esempio la ruota, la prima grande invenzione della storia, è stata probabilmente ispirata dall’osservazione dello scarabeo stercorario[1]. Questo insetto era ritenuto sacro dagli antichi Egizi e la pallina di sterco spinta dal coleottero rappresentava addirittura il Sole: lo scarabeo era non a caso venerato come una divinità di nome Khepri. Malgrado questa adorazione, però, sembra che gli Egizi non conoscessero la ruota, inventata probabilmente nel 3500 a.C. in Mesopotamia[1].
La bioispirazione cominciò a trasformarsi in una disciplina di studio vera e propria solo con Leonardo Da Vinci che nel 1505 scrisse il famoso codice sul volo Ucelli et altre cose. L’artista e prototipo dello scienziato moderno, attraverso l’osservazione attenta delle ali degli uccelli, cercò di svelare i segreti del volo per costruire la prima macchina volante a propulsione umana della storia, l’ornitottero[1, 2]. Purtroppo, però, i materiali disponibili all’epoca erano troppo pesanti e, sulla base dei disegni di Leonardo, si è calcolato che l’ornitottero sarebbe dovuto pesare 300kg[1]!
Oggi sono tantissimi i settori che, (bio)ispirandosi alla natura, stanno sviluppando nuovi materiali e tecnologie. Vediamone alcuni.
Bioispirazione nell’aviazione e nell’industria aeronautica
Sin dai suoi primordi, l’aviazione ha cercato nella natura le soluzioni per riprodurre il sogno di Icaro, il volo.
Già nel 1800, l’ingegnere britannico Sir George Cayley (1773-1857) si ispirò alla pianta barba di becco (Tragopogon pratensis) per il progetto del primo paracadute[2]. I frutti di questa pianta presentano infatti delle barbe piumose (il cosiddetto pappo, lo stesso presente nei soffioni) che gli permettono di planare con il vento.
Nel 1860, Otto Lilienthal (1848-1896), pioniere dell’aviazione tedesca, divenne invece il primo uomo ad alzarsi in volo: attraverso una tela di cotone fissata ad una intelaiatura di bambù, Lilienthal costruì il primo deltaplano della storia[1]. L’intuizione scaturì osservando il volo planare delle cicogne, che sfrutta le correnti d’aria ascensionali. Purtroppo, nel 1896, un forte colpo di vento ruppe un’ala del suo prototipo facendo precipitare Lilienthal per 17 m! La caduta fu ovviamente fatale.
Anche l’invenzione dell’elica è un’imitazione di quanto si può trovare in natura[1]. Ad esempio, i frutti di diverse piante (come gli aceri) presentano semi ricoperti da espansioni membranose che, spinte dal vento, ruotano velocemente disperdendosi anche per lunghe distanze.
In tempi più recenti, e in particolare dagli anni Sessanta del Novecento, invece, la bioispirazione ha guidato la ricerca delle forme favorevoli al volo studiando il corpo di diversi pesci. In particolare, l’ingegnere tedesco Heinrich Hertel (1901-1982) ha studiato il tonno, la cui forma affusolata favorisce lo scivolamento dell’acqua (quindi anche dell’aria) e riduce le turbolenze. Se si applica la forma di quest’animale alle fusoliere degli aerei, si osserva un perfetto flusso laminare che riduce enormemente l’attrito, con conseguente risparmio di carburante[1].
Bioispirazione e nuovi materiali
L’osservazione attenta della natura ha aiutato chimici ed ingegneri a sviluppare nuovi materiali con interessanti proprietà.
È il 1941 quando l’ingegnere svizzero Georges de Mestral (1907-1990), al ritorno a casa da una battuta di caccia assieme al suo cane, nota aggrappati al suo pelo i fastidiosi semi della bardana (Arctium lappa). Incuriosito, li osservò al microscopio e scoprì una fitta rete di uncini che si agganciavano al manto degli animali in maniera estremamente forte. Da qui, l’intuizione del Velcro, il cui brevetto venne depositato nel 1952 e che venne adoperato per la prima volta nelle tute degli astronauti americani[1-3].
Molti animali secernono sostanze dalle incredibili proprietà che sono oggetto di studio per poter essere riprodotte. Una è la tela dei ragni. L’ingrediente principale di questa sostanza è la fibroina, una proteina che conferisce alla ragnatela una grande flessibilità ma anche, in proporzione, una resistenza maggiore di quella dell’acciaio. Grazie alla bioispirazione e attraverso le biotecnologie, si sono ottenute delle capre transgeniche in grado di produrre nel loro latte la fibroina, la quale viene poi raccolta e utilizzata per ottenere fili da impiegare in medicina e in microelettronica[1].
Un altro esempio di biospirazione è il bisso delle cozze, ossia l’insieme di filamenti con cui il mollusco si ancora saldamente allo scoglio. In questo caso, una particolare proteina, a contatto con l’acqua, va incontro a coagulazione e fissa la cozza al substrato, evitando così che il moto ondoso possa danneggiare l’animale. Queste super-colle potrebbero avere un impiego nell’edilizia, oltre che in ambito chirurgico per la sutura delle incisioni[1].
Bioispirazione nelle nanotecnologie
La bioispirazione ha portato a sviluppare soluzioni ingegneristiche anche a livello microscopico, nel mondo delle nanotecnologie. Basti pensare all’effetto fior di loto, con cui sono state ottenute vernici e rivestimenti autopulenti per edifici. Le foglie del loto (Nelumbo nucifera) sono infatti sempre lucide e pulite: la spiegazione risiede nella presenza di sostanze idrofobiche sulla superficie delle foglie e di microprotuberanze che impediscono all’acqua di depositarsi[4, 5].
Una soluzione bioingegneristica molto simile si ritrova anche nei coleotteri delle nebbie (Stenocara gracilipes), abitanti del deserto della Namibia. Come fanno questi insetti a sopravvivere a lunghi periodi di siccità? La risposta è nella struttura microscopica delle loro elitre (le ali sclerificate che ricoprono l’addome di questi insetti), le quali presentano delle microcavità e delle microprotuberanze rivestite rispettivamente da molecole idrofobe e molecole idrofile. In corrispondenza delle protuberanze, l’umidità mattutina condensa, legandosi chimicamente alle sostanze idrofile; a questo punto, le piccolissime goccioline scivolano nelle cavità dove poi vengono convogliate all’apparato boccale per bere. Da queste osservazioni è stato possibile creare delle superfici in rilievo in grado di catturare il vapore acqueo atmosferico in regioni dove le precipitazioni sono scarsissime[6].
Gli Stenocara non sono però gli unici coleotteri oggetto di studio. Negli ultimi tempi ha destato grande interesse il Nosoderma diabolicum, o scarabeo corazzato. Come si intuisce dal nome, questo insetto ha qualcosa di diabolico nella capacità di resistere a pressioni elevatissime, tanto da riuscire a sopravvivere allo schiacciamento di un’automobile! Uno studio pubblicato su Nature nel 2020 ha svelato il mistero di questa capacità incredibile, ossia la particolare architettura e composizione chimica delle elitre. Esse sono infatti formate da più tasselli, in modo tale che quando la pressione aumenta questi tasselli si separano, dissipando meglio l’energia. La presenza, inoltre, di proteine miste alla chitina (lo zucchero che generalmente compone gli esoscheletri degli insetti), conferisce ulteriore elasticità e resistenza. Sono già allo studio possibili applicazioni in ambito aerospaziale, al fine di ottenere materiali molto più duri e resistenti alla pressione di quelli attuali[7].
Tra gli animali più studiati degli ultimi anni vi sono senza dubbio anche i gechi. Chi di noi da bambino non avrebbe voluto essere come spider-man, in grado di arrampicarsi sulle superfici lisce di un grattacielo? In natura questa abilità la ritroviamo già in molti animali, in particolare nel geco. Lo studio della superficie inferiore delle sue zampe ha rilevato la presenza di cuscinetti con miliardi di microfilamenti a forma di setola. Quando il geco si arrampica, tra queste setole e la superficie di appoggio si instaurano le forze di Van der Waals, delle interazioni chimiche che consentono al rettile di muoversi vincendo la gravità. Ad oggi, non siamo ancora in grado di imitare perfettamente questa capacità eccezionale; tuttavia, sono stati realizzati dei geco-robot, chiamati stickybot, che riescono ad arrampicarsi agevolmente sui vetri[2].
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Bioispirazione nell’informatica
Anche una scienza moderna come l’informatica può trarre enorme vantaggio dalla bioispirazione.
Da diversi anni, ad esempio, si studiano gli insetti sociali per capire come facciano a risolvere problemi complessi pur avendo un sistema nervoso centrale non altrettanto complesso. Formiche, api e termiti sono capaci infatti di costruire nidi che sono un prodigio di ingegneria, di trovare sempre il percorso più breve verso una fonte di cibo e di comunicarne tra loro distanze e direzioni. A differenza di quanto si crede, nelle colonie di questi insetti, la regina non dirige le operazioni ma ha solo la funzione di produrre le uova. Eppure, questi insetti riescono a coordinarsi finemente tra loro e a dirigere i loro comportamenti: la risposta è nella swarm intelligence, o intelligenza di sciame[1, 6].
In una colonia di insetti, ogni individuo ha accesso solo a informazioni limitate, derivanti dal contatto con gli individui vicini; tuttavia, moltiplicando le interazioni tra più individui emerge proprio questa intelligenza di sciame, le cui applicazioni sono estremamente interessanti in ambito informatico. Lo studio di questi comportamenti, a partire dagli anni Novanta, ha infatti consentito lo sviluppo di algoritmi in grado ad esempio di gestire le consegne delle compagnie di spedizione. È il famoso problema del commesso viaggiatore, in cui bisogna individuare il percorso più breve tra più punti senza però passare due volte dallo stesso. Lo studio delle interazioni tra formiche, che si basano sul rilascio di molecole odorose (i feromoni), può aiutarci a trovare la soluzione[1, 6].
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Bioispirazione nella robotica
A proposito di robotica, sono tantissimi i robot che si ispirano ad animali e piante. Oltre al citato stickybot, l’Università Politecnica di Losanna ha progettato robot che imitano le salamandre: come i loro corrispettivi anfibi, queste macchine sono in grado di camminare sul terreno e di eseguire il nuoto anguillare in acqua. Altri prototipi interessanti sono: OCTOPUS, un robot in silicone a otto braccia ispirato al polpo (Octopus vulgaris) e realizzato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa; i-Sprawl, un robot-scarafaggio messo a punto dall’Università di Stanford in California.
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Tutti questi animali robotici possono trovare applicazione nell’esplorazione e recupero di oggetti in ambienti difficili, come le macerie di un crollo, oppure nella manipolazione fine in ambito industriale[2].
Lo studio dell’intelligenza di sciame, tra l’altro, sta fungendo anche da bioispirazione per l’invenzione di robot in grado di imitare il comportamento degli insetti sociali: attualmente sta proprio nascendo una nuova branca della robotica chiamata swarm robotics[1]. Immaginate uno sciame di droni che si coordina per effettuare le consegne a domicilio come farebbero le api su un prato fiorito!
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Gli ingegneri che progettano robot non si ispirano però solo al regno animale. Negli ultimi anni, studi sempre più accurati sulle piante hanno dimostrato quanto questi organismi siano dotati di straordinarie capacità. Le radici in particolare sono sensibili a moltissimi parametri ambientali (dall’umidità, alla gravità fino a specifici gradienti chimici) e riescono ad adattare la loro crescita in funzione dell’ambiente. Alcuni biologi si sono spinti a paragonare le radici degli alberi al sistema nervoso degli animali per la capacità di raccogliere informazioni dall’ambiente circostante e di creare connessioni[2, 3, 8].
Queste capacità non sono passate inosservate agli ingegneri della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che hanno così progettato i plantoidi, i primi robot ispirati alle piante. Si tratta di radici artificiali dotate di molteplici sensori che, grazie ad una mini stampante 3D incorporata, riescono ad organizzare il proprio accrescimento in funzione di alcuni parametri del suolo. Questi robot potrebbero in futuro essere impiegati in agricoltura, per l’esplorazione del terreno alla ricerca di acqua o di specifici nutrienti, oppure nella ricerca spaziale o ancora in medicina per indagini endoscopiche[2, 3, 8].
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E se il modello da imitare fossimo noi?
Quando si parla di robotica, il pensiero si spinge fino agli androidi, robot in grado di imitare gli esseri umani. La letteratura e il cinema fantascientifico ci hanno raccontato tantissime storie di androidi così simili a noi da essere quasi indistinguibili da un essere umano in carne e ossa.
Gli androidi attuali ci imitano nel movimento, sono dotati di espressioni facciali e sono in grado di apprendere nel tempo osservandoci e studiandoci. Il Giappone è all’avanguardia in questo settore, ma anche l’Italia si difende bene grazie a centri di eccellenza come l’IIT, l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. Qui è stato infatti progettato iCub, un robot umanoide in grado di emulare comportamenti umani e di muoversi come noi.
Questi robot sono utilissimi per comprendere meglio come il cervello controlla i nostri comportamenti e possono trovare un’applicazione pratica nello studio dell’autismo[1, 9]. L’obiettivo futuro è quello di progettare androidi dotati di intelligenza artificiale in grado di interagire sempre di più con l’ essere umano. Chissà che non si giunga davvero ad innamorarsi di un robot come nei migliori film di fantascienza! (con tutti i risvolti etici del caso!)
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Conclusioni
L’osservazione attenta della natura ha ancora moltissimo da insegnarci. Grazie alla bioispirazione si è innescato un circolo virtuoso in cui, attraverso lo studio degli esseri viventi, progettiamo macchine che, oltre ad esserci utili, ci aiutano anche a comprendere meglio la natura stessa. I biorobot fungono infatti da modello per indagare fenomeni come il movimento, la crescita adattativa e i meccanismi di funzionamento del cervello. Il lavoro di équipe composte da ingegneri, informatici e biologi sta aprendo nuovi scenari di indagine scientifica e sono un esempio di quanto oggi non si possa più lavorare a compartimenti stagni ma sia necessario mettere insieme competenze diverse.
Anche nell’ambito della sostenibilità, la bioispirazione può venirci in aiuto dato che due dei principi cardine di ogni ecosistema sono il risparmio energetico e il riciclo. Imitare la natura può pertanto essere un modo per riavvicinarci ad essa nella speranza di riuscire ad instaurare un nuovo e duraturo equilibrio dopo secoli di progressivo allontanamento.
Referenze
- Fournier, M. (2018). Biomimesi. Quando la natura ispira la scienza. Edizioni LSWR;
- Mazzolai, B. (2019). La natura geniale. Come e perché le piante cambieranno (e salveranno) il pianeta. Longanesi;
- Mazzolai, B. (2021). Il futuro raccontato dalle piante. Cosa possiamo imparare dal regno vegetale e dal suo percorso sul pianeta. Longanesi;
- Bruni, R. (2015). Erba volant. Imparare l’innovazione dalle piante. Codice Edizioni;
- Bruni, R (2017). Le piante sono brutte bestie. La scienza in giardino. Codice Edizioni;
- Anaclerio, N.; Rodio, M. E. (2020). Piante e insetti. Alleanze, ostilità, inganni orchestrati dall’evoluzione. ORME edizioni;
- Rivera, J., et al. (2020). Toughening mechanisms of the elytra of the diabolical ironclad beetle. Nature, 586(7830), 543-548;
- Mancuso, S. (2017). Plant revolution. Giunti Editore;
- Cingolani, R., Metta, G. (2015). Umani e umanoidi. Vivere con i robot. Il Mulino.