Vi siete mai chiesti cosa si intende quando si afferma che un ambiente è in salute? Immediatamente, verrebbe da rispondere che lo stato qualitativo di un ambiente è elevato quando esso non mostra segni di contaminazione da parte di fattori esterni. Ma la contaminazione e l’inquinamento si manifestano allo stesso modo in ogni tipo di ambiente? E, soprattutto, gli effetti sono sempre gli stessi? Per nostra fortuna, gli ecosistemi sono dei pazienti molto loquaci, in quanto sono loro stessi, attraverso gli organismi che li compongono, a fornirci continuamente informazioni sul loro stato di qualità ecologica. È proprio qui che nasce la definizione di bioindicatore, ossia un organismo vivente (o un gruppo di essi) in grado di fornire indicazioni evidenti sullo stato di alterazione delle condizioni ambientali.
Caratteristiche dei bioindicatori
Come facciamo a determinare quali organismi possono essere utilizzati come bioindicatori e quali no? A guidarci nella scelta di un bioindicatore vi deve essere il principio che a partire dalla variazione di un processo biologico (ad esempio un processo demografico, fisiologico, comportamentale, ecc.) sia possibile ricostruire il processo ambientale che ha portato a tale variazione. Studiare le risposte biologiche in relazione alla variazione di parametri ambientali rende infatti possibile associare i dati relativi di uno o più bioindicatori e ricavare informazioni integrate riguardo all’alterazione di un determinato ambiente.
Gli elementi che guidano la scelta di un bioindicatore sono dunque molteplici e comprendono:
- la sensibilità alle perturbazioni ambientali;
- la reperibilità e la facilità di identificazione;
- il livello di organizzazione biologica.
Sensibilità alle perturbazioni ambientali
La caratteristica fondamentale di un buon bioindicatore è che deve avere un’elevata sensibilità alle perturbazioni dell’ambiente, le quali possono alterarne lo stato ecologico. Ciò significa che, qualora si presentasse un fattore di disturbo ambientale, il bioindicatore deve mettere in atto una risposta allo stress (negativa o positiva) che possa essere quantificabile e misurabile[1].
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La valenza ecologica di un bioindicatore è quindi legata al concetto di optimum ecologico, per il quale si intende l’intervallo di valori di un determinato parametro ambientale (ad esempio temperatura, pH, salinità , ecc.) entro il quale un organismo è in grado di sopravvivere e crescere. A tal proposito, possiamo distinguere due macro categorie ecologiche di organismi: le specie stenovalenti e quelle eurivalenti.
Le specie stenovalenti sono quelle specie che presentano un intervallo di optimum abbastanza ristretto, per cui se le condizioni ambientali si scostano anche di poco dai valori ottimali, subentrano immediatamente le risposte allo stato di stress. La crescita del sistema biologico è quindi limitata.
Al contrario, le specie eurivalenti sono quelle definite anche come generaliste, ovvero in grado di sopravvivere e tollerare lo stress. Queste specie sono quindi meno suscettibili all’alterazione dei parametri ambientali.
In funzione del principio fondamentale che ogni buon bioindicatore deve possedere (ossia l’elevata sensibilità alle perturbazioni ambientali), risulta chiaro che le specie stenovalenti siano preferibili a quelle eurivalenti per la bioindicazione, dal momento che possono fornirci con più sicurezza e tempestività una risposta misurabile in relazione a un cambiamento ambientale. Questa scelta non è però così semplice, in quanto organismi fortemente sensibili mostrerebbero eccessivi cali demografici alla minima fluttuazione delle condizioni ambientali.
Reperibilità e facilità di identificazione
Una specie rinvenibile esclusivamente in ambienti molto stabili (che presentano quindi delle condizioni chimico-fisiche particolari e non perturbate) risulta essere fin troppo rara e non rappresentativa del contesto ecologico in questione, andando contro ad altre due caratteristiche fondamentali di un buon indicatore: la facile reperibilità e l’identificazione sistematica.
Questi ultimi due requisiti hanno un’importanza prettamente operativa: scegliere specie la cui individuazione e identificazione tassonomica è poco soggetta ad errori permette di compiere indagini di bioindicazione anche ad operatori non esperti del settore. Infine, quando si vuole studiare lo stato di un intero ecosistema considerando solo determinati organismi, è bene conoscerne dettagliatamente la biologia e la fisiologia (a seconda dei parametri che si andrà a misurare), per poter rapportare i dati allo status ambientale[2].

Livello di organizzazione biologica
Le tipologie di bioindicatori possono variare enormemente in base alla scala d’osservazione che consideriamo.
Un bioindicatore può essere infatti rappresentato da:
- un singolo individuo di una data specie;
- una popolazione, ossia un insieme di individui appartenenti alla stessa specie;
- una comunità biologica, ossia più popolazioni di specie differenti[1].
Innanzitutto, maggiore è la scala sistemica considerata per il bioindicatore e più diretta sarà la correlazione della risposta allo stato ecologico del sistema. In altre parole, considerare dei sistemi complessi (ad esempio le comunità biologiche) come indicatori ci potrà fornire informazioni dirette sullo stato ambientale nel suo complesso. Il motivo per il quale non si usano esclusivamente indicatori al livello di comunità biologiche risiede nel fatto che è estremamente complicato trarne delle informazioni quantificabili e significative in tempi ragionevoli.
Al contrario, studiare le risposte di singoli organismi permette di trarre delle informazioni rapide e a volte anche in condizioni controllate (se si attuano ad esempio dei saggi in laboratorio). Questo, naturalmente, comporta che il ricostruire le condizioni ambientali nel complesso a partire dalla risposta di un singolo organismo risulti più complicato. A tal proposito, bisogna scegliere correttamente gli organismi test e possibilmente eseguire più saggi con diverse specie (batterie di test) per rispecchiare la varietà di nicchie ecologiche presenti in natura[1, 2].
Bioindicatori a livello di comunitÃ
La normativa europea in materia di ambiente (in particolare la Water Framework Directive 2000/60/CE e la Direttiva Habitat 92/43/CEE) prevede l’utilizzo di più indici biologici a livello di comunità per valutare lo stato ecologico complessivo di un dato ambiente. Considerare un’intera comunità biologica, anziché le singole specie, permette infatti di porre uno sguardo molto più ampio sull’integrità complessiva di un dato sistema. In un ambiente esistono però diversi tipi di comunità , tutte essenziali per il corretto funzionamento dell’ecosistema. Risulta perciò opportuno considerare le comunità appartenenti ai diversi livelli della catena alimentare, con lo scopo di avere una visione d’insieme quanto più ampia possibile. Per esempio, nel caso della valutazione ecologica dei corsi d’acqua, è obbligatorio considerare lo stato dei produttori primari (organismi fotosintetici) e di alcuni gruppi di consumatori.
Macrofite acquatiche
Per i produttori primari si utilizzano le macrofite acquatiche, ovvero tutti gli organismi vegetali riconoscibili ad occhio nudo che popolano un corpo idrico.
Durante un biomonitoraggio, si registrano quindi i dati di copertura di alghe, piante vascolari e muschi sulla superficie, sul fondale e sui margini del corso d’acqua. Una volta collezionati tutti i dati di copertura, ad ogni specie viene integrato un fattore di sensibilità al disturbo e uno di significatività come bioindicatore. Questa operazione è necessaria dal momento che non tutte le specie di una comunità presentano la stessa valenza ecologica come bioindicatori.
Così facendo è inoltre possibile valutare la biodiversità presente all’interno della comunità , dal momento che ambienti più eterogenei in termini di numero di specie sono spesso associati a buone condizioni ecologiche; al contrario, in situazioni più compromesse, solo poche specie generaliste e con ampia valenza ecologica sono in grado di sopravvivere[2].
Macroinvertebrati bentonici
Un discorso analogo a quello delle macrofite si può fare anche con la componente faunistica di un ecosistema. Per macroinvertebrati bentonici si intende un gruppo ecologico di animali invertebrati che vivono sul fondale dei corpi idrici. All’interno di questo gruppo rientrano numerose fasi larvali o ninfali di insetti, ma anche crostacei, molluschi (gasteropodi e bivalvi) e anellidi.
Una così vasta biodiversità di specie rende questo gruppo di biodindicatori comprensivo delle più disparate nicchie ecologiche tra i consumatori; sono infatti presenti animali filtratori, detritivori, raschiatori, predatori e via dicendo. Questa peculiarità , assieme al fatto che si tratta per lo più di animali poco mobili, a ciclo vitale lungo e con sensibilità variabile in situazioni di contaminazione ambientale, rendono i macroinvertebrati bentonici un essenziale bioindicatore a livello di comunità .
Questi animali sono ad oggi utilizzati nell’indice di qualità ecologica fluviale STAR_ICMi, che con la direttiva europea 2000/60/CE sulle acque ha sostituito l’indice biotico esteso (IBE). STAR_ICMi e IBE differiscono principalmente per le metriche utilizzate e la metodologia di campionamento, ma entrambi utilizzano i macroinvertebrati come bioindicatore. Entrambi gli indici si basano sui dati di presenza/assenza dei vari gruppi tassonomici, in quanto la presenza di alcuni gruppi altamente sensibili (plecotteri, efemerotteri e tricotteri in primis), indica un’elevata stabilità ambientale. La differenza tra i due indici è che lo STAR_ICMi considera anche la biodiversità relativa del sistema, mentre l’IBE si focalizza solo sulla presenza delle specie ecologicamente più rilevanti e sensibili[4].
Bioindicatori a livello di individuo ed ecotossicologia
I bioindicatori a livello di individuo sono utilizzati principalmente nei cosiddetti saggi ecotossicologici. L’ecotossicologia si pone l’obiettivo di studiare gli effetti tossici degli inquinanti sugli organismi e predirne il destino all’interno degli ecosistemi. Per fare ciò, entrano in gioco ovviamente i nostri bioindicatori: avvalendosi di alcuni organismi modello, l’ecotossicologia è in grado di studiare gli effetti di alcune sostanze o di matrici ambientali contaminate sull’ambiente.
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In questo contesto, affinché un organismo possa essere considerato un buon modello è necessario che presenti dei chiari e facilmente misurabili end-point: per end-point si intendono tutti quei parametri fisiologici, morfologici o comportamentali (nel caso degli animali) che andranno messi in relazione a delle concentrazioni prestabilite di inquinante. In questo modo, si potrà evincere e quantificare una relazione causa-effetto tra gli end-points e la sostanza da testare[1].
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Un caso studio: Daphnia magna
Daphnia magna è un piccolo crostaceo appartenente al gruppo dei cladoceri, caratterizzato dal possedere un carapace suddiviso in due porzioni (come delle valve) che lasciano scoperto il capo dell’animale. Daphnia magna predilige habitat d’acqua dolce ed ha una distribuzione che comprende quasi tutto l’emisfero boreale.
Una peculiarità di Daphnia magna riguarda poi il suo ciclo riproduttivo: le femmine tendono a riprodursi prevalentemente per via unisessuale tramite partenogenesi, producendo uova non fecondate da cui si sviluppano generalmente dei perfetti cloni dell’individuo materno. Questo ciclo riproduttivo permane per l’intera vita dell’organismo. Quando però nell’ambiente sopraggiungono delle condizioni ambientali che si discostano significativamente da quelle ottimali, le dafnie passano ad una riproduzione bisessuale, producendo uova questa volta aploidi (con una sola copia di cromosomi), le quali verranno fecondate dagli individui maschi.
La capacità di questi crostacei di riprodursi per via unisessuale è sfruttabile proprio nella bioindicazione, dato che individui cloni tra loro avranno lo stesso corredo genetico e garantiranno così risposte uniformi allo stress ambientale (e non dettate invece dalle differenze genetiche tra individui)[1, 5].
Con Daphnia magna possono essere condotti due tipologie di test ecotossicologici, uno relativo alla tossicità acuta ed uno relativo alla tossicità cronica.
Il test di tossicità acuta ha durata relativamente breve (24h) ed è mirato all’individuazione della cosiddetta EC50, ovvero la concentrazione di inquinante per la quale si ha un’incidenza del 50% dell’effetto sull’end-point considerato.
Il test di tossicità cronica ha invece una durata più lunga (28 giorni) ed è condotto sull’intero ciclo vitale dell’organismo per verificare i possibili effetti negativi dell’inquinante a concentrazioni molto basse. Durante il test, vengono monitorati diversi parametri, tra cui la mortalità , l’inizio dell’età riproduttiva, il numero di neonati e la lunghezza degli individui. Questi valori, una volta relazionati con le concentrazioni di inquinante a cui gli individui di Daphnia magna sono esposti, potranno contribuire ad individuare nuove concentrazioni efficaci e inferiori a quelle rilevabili con i test di tossicità acuta. Questo tipo di test simula le condizioni reali in cui l’introduzione di una sostanza nociva nell’ambiente è graduale e prolungata nel tempo[1].
Conclusioni
La necessità di ottimizzare l’utilizzo di un numero sempre maggiore di bioindicatori è fondamentale per monitorare i cambiamenti dell’ambiente che ci circonda. A differenza dell’analisi chimico-fisica strumentale delle matrici ambientali, i bioindicatori giocano un ruolo importante nel valutare direttamente lo stato della componente biologica di un ecosistema ed eventuali eventi di contaminazione avvenuti in tempi più remoti rispetto al periodo di campionamento. In questo modo è possibile trarre delle considerazioni sistemiche che la sola misurazione dei parametri chimici e fisici non potrebbe restituire.
Referenze
- Sartori, F. (1998). Bioindicatori Ambientali. Fondazione Lombardia per l’Ambiente;
- Bargagli, R. (2012). Ecologia applicata, per un uso consapevole dell’aria, dell’acqua e del suolo. Amon Edizioni;
- Erofeeva, E. A. (2021). Plant hormesis and Shelford’s tolerance law curve. Journal of Forestry Research, 1-14;
- Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA), CNR (2007). Notiziario dei metodi analitici;
- Animal Diversity Web (ADW) – Daphnia magna. University of Michigan, Museum of Zoology.
Immagine di copertina da pikist.com.