Cosa mangiava una tigre dai denti a sciabola? La domanda non è peregrina. I grandi carnivori — per definizione, tutte quelle specie di carnivori che raggiungono un peso corporeo superiore ai 21 kg — giocano un ruolo cruciale nel funzionamento degli ecosistemi[1]. Tra i servizi ecosistemici offerti da questi animali non vi è soltanto il contenimento della pressione che gli erbivori esercitano sulla vegetazione — attuato attraverso la predazione e favorito dal semplice fatto che gli erbivori tendono ad evitare le aree in cui sanno di poter incontrare i loro predatori — bensì anche le risorse alimentari che, indirettamente, mettono a disposizione delle altre specie sotto forma di avanzi delle loro predazioni. Infatti, molti animali, che per questo vengono definiti spazzini, basano la loro sussistenza sugli scarti alimentari che si lasciano dietro i predatori.
Tigri dai denti a sciabola: predatori del passato
È relativamente semplice studiare gli effetti dei grandi carnivori odierni sull’ecosistema. Valutare l’influenza che esercitavano i carnivori estinti sugli ambienti del passato è, invece, un altro paio di maniche. Uno studio recentemente pubblicato su Nature[2] ha accumulato evidenze che consentono di farsi un’idea del comportamento di una delle specie appartenenti ai macairodonti, meglio noti come tigri dai denti a sciabola[3].
Lo studio ha analizzato, in particolare, i resti della tigre dai denti a sciabola Xenosmilus hodsonae. Questi risalgono a un periodo compreso tra 1,6 e 1 milione di anni fa e sono stati ritrovati nel sito di Haile 21A, un’antica dolina in Florida. Assieme a loro giacevano dozzine di scheletri di altri animali, perlopiù pecari dalla testa piatta (mammiferi estinti grandi come cinghiali).
Proprio la netta prevalenza di questa specie tra i resti ossei ha fatto sospettare gli studiosi che il sito non fosse una trappola naturale, come le famose pozze di catrame di Rancho la Brea. In tal caso, infatti, ci si aspetterebbe di ritrovare resti di diverse specie in proporzione alla loro abbondanza negli ambienti circostanti. Improbabile che i pecari rappresentassero il 90% della fauna locale. A questo si somma il fatto che difficilmente un animale come il pecari sarebbe stato in grado di raggiungere il fondo della dolina volontariamente. È richiesta, insomma, una spiegazione alternativa e più plausibile. Qualcosa doveva nutrire una spiccata predilezione per il pecari, e quel qualcosa era solito trasportare i resti di questo animale all’interno della dolina.
Come suggerisce il ritrovamento dei suoi resti fossili nello stesso sito, quel qualcosa doveva proprio essere il felino Xenosmilus hodsonae.
L’arma del delitto
Analizzando alcune tracce presenti sulle ossa dei pecari, gli autori dimostrano che si tratta di segni lasciati dai denti di Xenosmilus. Le impronte prodotte con i denti di questo felino su delle placche di argilla corrispondono esattamente a quelle presenti sulle ossa fossili. Inoltre, dallo studio dei resti emerge che il responsabile del loro accumulo consumava i pecari lasciando intatta la porzione delle coste più vicina alla colonna vertebrale. Questo comportamento è tipico dei felini e ben diverso da quello di ienidi e canidi, che tendono a disintegrare anche lo scheletro assiale.
Un’altra evidenza emersa dalle analisi condotte sui resti di pecari di Haile 21A è quella che la maggior parte dei segni lasciati da Xenosmilus erano prodotti dagli incisivi e dai lunghi canini, e il consumo dei muscoli della preda poteva talvolta comportare il danneggiamento di singole porzioni delle ossa sottostanti. Tali evidenze supportano l’ipotesi che le tigri dai denti a sciabola utilizzassero i denti anteriori per strappare i muscoli dalla carcassa, senza però arrivare a rosicchiarne e disintegrarne le ossa, come fanno invece ienidi e canidi servendosi dei massicci denti carnassiali.
Quello lo lasci?
A questo punto, potremmo porci la fatidica domanda: cosa avanzava di un animale predato e consumato da una tigre dai denti a sciabola? Se di primo acchito questa domanda può sembrare triviale, la risposta potrebbe contribuire alla ricostruzione della storia evolutiva di Homo sapiens.
Come ci raccontano i reperti fossili e archeologici, tra i 3 e i 2 milioni di anni fa, le savane africane erano popolate da bande di primati bipedi, afferenti alla sottofamiglia Homininae, in grado di servirsi di rudimentali strumenti in pietra per macellare le ossa di animali ben più grandi di loro[4]. Gli interrogativi che ruotano intorno ai metodi di sussistenza di queste specie sono ancora tanti. Questi primati erano in grado di cacciare? Oppure, com’è più probabile, si limitavano a macellare i resti di animali trovati già morti? Cosa ricavavano dalle carcasse: la carne, il midollo contenuto nelle ossa, oppure entrambi?
Banalmente, la risposta a quest’ultima domanda dipende anche da cosa rimanesse delle prede dei carnivori quando venivano ritrovate da questi nostri lontani antenati. E, come suggerito dai risultati dello studio appena descritto, della preda di un felino come Xenosmilus doveva rimanere il solo scheletro. Gli ominini che si fossero ritrovati dinanzi alla carcassa, quindi, altro non avrebbero potuto fare che frantumarne le ossa e ricavarne il nutriente midollo.
Questo scenario ben si sposa con l’ipotesi che l’ingrandimento del cervello dei nostri antenati sia stato reso possibile dal consumo del midollo osseo delle prede. Questa teoria si basa sul fatto che il midollo, rispetto alla carne, è più ricco dei nutrienti essenziali alla crescita e al funzionamento del cervello, comporta un minor dispendio energetico dovuto alla masticazione, e si conserva più a lungo[5].
Nonostante ciò, bisogna considerare che Xenosmilus hodsone non è mai vissuto in Africa, diversamente da altre specie di felini dai denti a sciabola. Inoltre, ciò che resta della carcassa di un animale dipende sia dal carnivoro che lo ha predato, sia dalla mole della preda stessa.
Conclusioni
Ciò che traspare dallo studio dei fossili e dall’osservazione delle specie attuali, è che, a prescindere da quali risorse i nostri antenati riuscissero a ricavare dalle loro prede, i grandi carnivori ci hanno sempre accompagnati lungo il cammino evolutivo verso l’apice delle catene alimentari terrestri.
Referenze
- Hoeks S., et al. Mechanistic Insights into the Role of Large Carnivores for Ecosystem Structure and Functioning. Ecography 2020, 43, 1752–1763.
- Domínguez-Rodrigo M., et al. Sabertooth Carcass Consumption Behavior and the Dynamics of Pleistocene Large Carnivoran Guilds. Sci Rep 2022, 12, 6045.
- Antón M. Sabertooth; Life of the past; Indiana University Press: Bloomington, 2013; ISBN 978-0-253-01042-1.
- Pobiner B.L. The Zooarchaeology and Paleoecology of Early Hominin Scavenging. Evolutionary Anthropology 2020, 29, 68–82.
- Thompson J.C., et al. Origins of the Human Predatory Pattern: The Transition to Large-Animal Exploitation by Early Hominins. Current Anthropology 2019, 60, 1–23.
Immagine di copertina di Dallas Krentzel, Wikimedia Commons (CC BY 2.0)