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Archaea

Cos'è che rende gli archaea interessanti?

Archaea è il nome scientifico per gli Archeobatteri, un termine che in greco significa “batteri antichi”. Si tratta di organismi unicellulari (microrganismi) molto primitivi, che costituiscono un dominio a parte, essendosi distaccati molto precocemente dalle linee evolutive degli altri esseri viventi[1,2].

Classificazione

Nonostante vi siano ancora discussioni aperte circa la collocazione sistematica degli Archaea, è possibile classificare il mondo dei microrganismi in eucarioti e procarioti, sulla base delle somiglianze nella sequenza dell’RNA ribosomiale (rRNA)[3]. Queste rappresentano una buona misura della distanza evolutiva tra i taxa, dal momento che l’rRNA varia molto poco nel tempo[1]. Ai procarioti appartengono i batteri e gli Archaea (in origine, rispettivamente Eubacteria e Archaebacteria). Mentre, tra i microrganismi eucarioti ritroviamo, oltre ai protozoi, le alghe e i funghi unicellulari[1,2].

Differenze e similitudini con gli altri domini

Ciò che distingue le cellule eucariotiche da quelle procariotiche è la presenza, nelle prime, di organelli avvolti da membrana. La caratteristica più peculiare delle cellule procarioti è pero l’assenza del nucleo. Con il termine nucleo si intende quella struttura circondata da due membrane (derivanti dal reticolo endoplasmatico), che contiene il codice genetico dell’organismo. In batteri e Archaea, infatti, il DNA si trova libero nel citoplasma, addensato a formare una struttura definita nucleoide. Quest’ultimo assume una forma irregolare e si linearizza solo al momento della divisione cellulare[1,2].

Leggi anche: Differenze tra cellula eucariote e procariote

Anche gli Archaea, come i batteri, si riproducono in modo asessuato attraverso scissione binaria e generano due cellule uguali sia tra loro che alla cellula madre. Esistono molte altre caratteristiche condivise da batteri e Archaea: proprio per tali ragioni in passato erano classificati assieme, in un unico dominio.

Analogie e differenze tra archaea e procarioti

È interessante notare, però, come alcune recenti tesi abbiano preso in considerazione la possibilità di inserire all’interno di un unico gruppo gli Archaea e gli Eucarioti.

Questo sulla base dell’ipotesi che l’origine degli Eucarioti sia dovuta a un processo di endosimbiosi. Tale avvenimento avrebbe portato, dunque, alla fusione di un Archaea con un batterio primitivo, generando così la prima cellula eucariotica di cui questi costituirebbero rispettivamente il nucleo e la restante porzione citoplasmatica[1,2].

Leggi anche: Tre tappe fondamentali dell’evoluzione della vita

Tale ipotesi guarderebbe, quindi, agli Archaea come ai progenitori delle cellule eucariotiche. Effettivamente esistono svariate analogie tra i due domini, che depongono a favore di questa ricostruzione.

Analogie e differenze tra archaea ed eucarioti

Phyla

Sulla base delle somiglianze genetiche individuate dalle moderne tecniche molecolari è stato possibile raggruppare la maggior parte degli Archaea in 4 phyla[3]:

  • Crenarchaeota: comprende per la maggior parte gli Archaea termofili e ipertermofili, di cui molti sono marini.
  • Euryarchaeota: raggruppa svariati generi di Archaea che vivono in una grande molteplicità di habitat. Tra questi si trovano in maggior numero gli ipertermofili, gli alofili e i metanoproduttori, caratterizzati da differenti tipologie di metabolismo (aerobi e anaerobi obbligati).
  • Korarchaeota: si tratta di un phylum definito molto recentemente e pertanto, al momento, si hanno ancora poche informazioni sugli organismi che vi rientrano.
  • Nanoarchaeota: a ora, vi rientra un solo organismo, il Nanoarchaeum equitans, il quale è parassita di un altro Archaea, l’Ignicoccus hospitalis.

Habitat

Gli Archaea sono tendenzialmente ubiquitari, ma ciascuna specie ha la propria nicchia ecologica per la quale si è specializzata durante il corso dell’evoluzione. Si possono trovare nel suolo, nei ghiacci, sulla superficie dell’acqua o nelle profondità abissali. Alcuni possono instaurare simbiosi con altri organismi, come nel caso del Methanobrevibacter smithii che risiede nell’intestino umano. Altri abitano numerose cavità, inclusa quella orale o risiedono sull’epidermide di alcune specie animali.

Di fatto, ciò che caratterizza gli Archaea è la loro capacità di colonizzare ambienti estremi e poco ospitali[3] e molti di loro sono per questo detti estremofili. Questi Archaea sono in grado di sopravvivere in condizioni considerate tossiche e ostili per la maggior parte degli altri organismi viventi, come a temperature molto elevate o, al contrario, molto basse. Altri sopravvivono in siti con grandi concentrazioni di soluti, in aree caratterizzate da elevate acidità/basicità, ecc…[4]

Ruolo ambientale

Essendo gli Archaea gli unici microrganismi capaci di resistere alle avversità di tali habitat, si ipotizza che essi possano assumere un’importante valenza ecologica e climatica.

Sembrerebbe infatti che gli Archaea rappresentino la maggior parte dei microrganismi presenti nelle profondità oceaniche[4]. Lì si nutrirebbero di materia organica disciolta e costituirebbero, dunque, parte del fitoplancton. Se così fosse, sarebbe la dimostrazione di come gli Archaea siano in grado di alterare profondamente la chimica degli oceani. Senza di essi, infatti, questi ultimi sarebbero simili a brodaglie dense di materia organica non riciclata. Tutto ciò impedirebbe il prosperare della vita al di sotto della superficie acquatica, nonché l’immobilizzazione permanente di elementi utili al ciclo della materia[1].

Inoltre, nutrendosi di materiale ricco in carbonio, sarebbero anche in grado di influenzare la quantità di anidride carbonica (CO2), tanto dei mari, quanto nell’atmosfera, dal momento che esiste un intenso scambio tra i due ambienti.

Tolleranza ad ambienti estremi

In base alle condizioni dell’ambiente in cui abitano, possono essere catalogati come:

  • Alofili
  • Termofili e ipertermofili
  • Psicrofili
  • Acidofili
  • Alcalofili

Alofili

Gli alofili sono quegli Archaea che prediligono gli ambienti caratterizzati da elevata salinità, come i laghi salati o le saline, con concentrazioni di NaCl da almeno 1,5 M (9% di soluto) fino a circa 5M, cioè il punto di saturazione.

Salina abitata da archaea alofili
Salina abitata da archaea alofili (fonte: flickr)

È interessante il caso dell’Halobacterium salinarum, che riesce a vivere nelle saline ed è il responsabile della loro occasionale colorazione rossastra (o talvolta violacea) poiché produce dei pigmenti come i carotenoidi e la batteriodopsina. Quest’ultima è una proteina integrale di membrana che, in assenza di ossigeno ma in presenza di luce solare, viene stimolata a cambiare la propria colorazione: da una tinta arancio assume un colore rosso scuro[3].

La batteriodopsina è una pompa protonica, energizzata da fotoni. Pertanto, in presenza di energia luminosa, viene indotta a pompare ioni H+ (derivanti dalla deprotonazione degli aminoacidi interni al canale) verso l’esterno. Questo crea un gradiente di concentrazione che genera una forza protonmotrice in grado di richiamare i protoni verso l’interno della cellula, sintetizzando così energia chimica (ATP).

Tale meccanismo costituisce la prima modalità di sintesi energetica in assenza di clorofilla. Ciò consente a questi organismi di sopravvivere anche in assenza di ossigeno e nutrienti, ma a condizione che vi sia luce solare.

Come riesce H. salinarum a mantenersi in equilibrio osmotico con l’ambiente esterno?

Per riuscirci, accumula soluti compatibili in particolare il cloruro di potassio con l’obiettivo di innalzare la propria concentrazione interna e mantenere l’osmosi con l’ambiente esterno. In questo di modo, la pressione idrostatica resta positiva senza, dunque, causare un’eccessiva fuoriuscita di liquidi che farebbe raggrinzire la cellula.

H. salinarum è rivestito da glicoproteine cariche positivamente (q+), che permettono di mantenere un’alta concentrazione superficiale di cationi. Ciò consente di “schermare” le cariche negative (q) del soluto circostante, impedendo così la disgregazione dell’involucro cellulare che avverrebbe se la carica superficiale fosse negativa. Infatti, come è noto, le cariche dello stesso segno si respingono e questo causerebbe la rottura della membrana.

Al contrario, però, in ambienti poveri di soluti tali Archaea non potrebbero sopravvivere per la ragione inversa: avendo una concentrazione interna molto più elevata rispetto all’ambiente circostante, le molecole di acqua verrebbero richiamate, secondo gradiente, a entrare all’interno della cellula, facendola gonfiare al punto di esplodere (lisi osmotica).

Metanogeni: esistono Archaea in grado di produrre metano, che per questo vengono sfruttati dall’uomo come produttori di biogas e di conseguenza come fonte pulita e rinnovabile per la generazione di energia elettrica negli impianti artificiali. Sono i metanogeni: organismi che rilasciano metano (CH4) e anidride carbonica (CO2) come scarti metabolici, in condizioni di totale anossia, cioè in assenza di ossigeno. Essi sono, di fatto, gli anaerobi obbligati per eccellenza e per loro l’O2 si rivela estremamente tossico. Ecco perché vivono in luoghi come paludi, discariche, risaie, sedimenti, fonti termali. Oppure possono agire da simbionti, ad esempio, nello stomaco dei ruminanti o a livello dell’intestino in diverse specie, tra cui l’uomo. Tra i metanogeni più interessanti c’è il Methanopyrus kandleri. Questo Archaea cresce a un optimum di ben 100°C e resiste fino a 120°C, cioè oltre le temperature raggiunte delle autoclavi, impiegate comunemente come metodo di sterilizzazione. Quest’ultimo rientra, pertanto, anche tra gli estremofili ipertermofili.

Archaea termofili

Gli ipertermofili sono quegli organismi procarioti che si sono adattati a vivere a temperature molto elevate come quelle dei geyser, delle sorgenti termali, dei vulcani e delle solfatare. Se ne trovano persino nei fluidi geotermici rilasciati  dalle centrali geotermiche. È la loro particolare membrana, monostratificata, che li rende estremamente resistenti alle alte temperature, persino più delle spore batteriche.

Alcuni archaea ipertermofili, come Thermococcus celer, il Thermus aquaticus e Pyrococcus furiosus, proliferano spesso nelle sorgenti termali. È interessante notare che da questi ultimi due derivano le DNA-polimerasi impiegate in laboratorio per le pratiche che richiedono particolare precisione nella sintesi del DNA, dal momento che, proprio per la sua stabilità, tale enzima mostra un’elevata efficienza, con un tasso di errore decisamente minimo. Anche l’enzima derivante dal Thermococcus celer viene sovente sfruttato in laboratorio, sebbene possieda un tasso di efficienza inferiore.

Difficoltà relazionate alle elevate temperature

Come fanno questi Archaea a mantenere stabili e intatti il proprio genoma, gli RNA e le proteine, con un tale eccesso di energia termica?

È risaputo che il DNA si denatura a circa 90°C e le proteine ancor prima, a soli 60°C. Per le proteine, denaturarsi significa perdere la propria conformazione e funzionalità, mentre per il DNA vuol dire perdere il corretto appaiamento tra le basi azotate e, di conseguenza, la sua caratteristica struttura a doppia elica. Questi avvenimenti interrompono l’attività della cellula e conducendo, infine, alla sua morte.

Ecco perché questi Archaea hanno sviluppato una serie di strategie su cui poter contare per impedire tali effetti:

  • Possiedono proteine termostabili, che resistono cioè alle alte temperature. In questo caso la degradazione termica viene impedita dalla struttura “raggomitolata” dei nuclei proteici. Gli aminoacidi vengono così protetti all’interno del “core” della macromolecola, che ne preserva, dunque, l’integrità. Tale conformazione viene mantenuta dall’azione di alcune chaperonine, i Termosomi, deputati al ripiegamento tridimensionale degli aminoacidi che compongono le proteine.
  • Accumulano soluti (es. il glicerolo fosfato) al fine di innalzare la temperatura di melting del DNA. Ciò permette di aumentare la soglia di energia termica necessaria per la denaturazione del materiale genetico.
  • Sono provvisti di un particolare enzima, la Girasi Inversa, che consente di conservare la struttura secondaria del DNA (l’elica), introducendo dei superavvolgimenti che ne incrementano la resistenza termica.
  • Aumentano la percentuale di coppie C-G (appaiamento tra citosina e guanina) presenti nelle sequenze genomiche, le quali possiedono un maggior numero di legami idrogeno (3 rispetto ai 2 presenti tra adenina e timina), che permettono di incrementare stabilità termica.

Thermoplasmi: oltre ad essere termofili, i Thermoplasmi sono anche acidofili e conducono dunque, la propria esistenza in condizioni di estrema acidità, situazione normalmente avversa alla vita. Unicità di questi Archaea è quella di non disporre di alcun tipo di parete cellulare. Bensì, possiedono una membrana particolare, composta da tetraeteri di glicerolo, i quali costituiscono un lipoglicano monostratificato, che conferisce resistenza e rigidità all’organismo.

Tra di essi, il Solfulobus può vivere in habitat inospitali ed estremi come le solfatare, che emettono massicce dosi di acido solfidrico (H2S), ossidato poi ad acido solforico (H2SO4) e sono pertanto caratterizzate da elevata acidità. I solforiduttori possono sfruttare le emissioni di questi gas per portare a termine la propria respirazione, utilizzando lo zolfo come accettore finale di elettroni.

Membrana di tetraeteri di glicerolo
Membrana composta da tetraeteri di glicerolo
(l’immagine l’ho creata io perchè di libere sul web non ne ho trovate)

Psicrofili

Esistono anche gli Archaea in grado di vivere a temperature molto basse: sono gli psicrofili. Il loro optimum di proliferazione si colloca introno ai -15°C, ma posso resistere a temperature molto inferiori. Ecco perché questi microrganismi possiedono delle strategie di protezione dal congelamento, a condizione che il raffreddamento sia graduale.

Dato che alle basse temperature le membrane cellulari divengono più rigide, quella degli psicrofili contiene un’alta percentuale di acidi grassi a catena corta e con numerose insaturazioni per incrementare la fluidità della membrana, abbassandone il punto di fusione.

Questi particolari Archaea sono per lo più marini ma possono trovarsi anche nei suoli alpini, negli ambienti artici e persino all’interno del ghiaccio. Proprio a causa delle avversità degli habitat in cui risiedono, gli psicrofili si trovano a dover affrontare svariate problematiche, quali le elevate concentrazioni saline dei ghiacci marini o l’alta pressione delle profondità oceaniche.

Alcalofili e acidofili

Infine, esistono gli Archaea alcalofili e quelli acidofili. I primi resistono a condizioni ambientali di elevata basicità (es. i pozzi petroliferi, i laghi alcalini), e hanno un optimum di crescita a pH compresi tra 9 e 12, condizioni analoghe a quelle che si verificano nella soda caustica; mentre i secondi prediligono gli habitat fortemente acidi (es. le prese d’aria idrotermali nelle profondità oceaniche, lo stomaco umano, geyser, piscine sulfuree) caratterizzati da pH di 2.0 o inferiori.

Strategie adottate

Alcuni tra gli archaea acidofili, per far fronte alle condizioni di acidità estreme, attuano un particolare meccanismo che consiste nel pompaggio di ioni H+ (protoni) al di fuori della cellula. In tal modo il citoplasma mantiene un pH neutro (7-7.4) e non incorre nell’eccessiva acidificazione che indurrebbe serie problematiche per la funzionalità complessiva della cellula. Infatti, sono davvero pochi gli organismi che resistono alla condizione di acidità intracellulare, tra questi il più noto è l’Acetobacter, un proteobatterio sfruttato, tra le altre cose, per la sua caratteristica di saper fermentare l’etanolo ai fini della produzione di aceto.

Diversamente, i microrganismi alcalofili (o basofili) possono tollerare un pH interno compreso tra 4.5-5 o 9-9.5. AL di fuori di questo range verrebbe alterata la stabilità delle macromolecole biologiche, compromettendo la funzionalità dell’intera cellula.

A cosa si devono tali condizioni di vita estreme?

Dal momento che si tratta di organismi tra i più antichi mai comparsi sulla Terra [1], gli Archaea si sono trovati sin dalle origini a dover sopravvivere in un ambiente decisamente poco ospitale con abbondanza di gas, quali H2, S0, Fe2+, ecc. Pertanto hanno dovuto imparare a sfruttare tali risorse a proprio vantaggio. Ci sono riusciti talmente bene che ancora oggi vivono in condizioni arcaiche, simili a quelle che caratterizzavano l’atmosfera primitiva.

La versatilità e la resistenza di tali microrganismi hanno permesso agli scienziati di confidare nella possibilità di sopravvivenza degli Archaea anche su pianeti diversi dal nostro, come Marte. Ecco che gli Archaea, spesso sottovalutati, costituiscono un’interessante prospettiva futura per il progresso e lo sviluppo scientifico.

Metabolismo

Gli Archaea sono molto diversificati per quanto riguarda il tipo di metabolismo, il quale dipende dalla differente situazione ambientale che si trovano a dover affrontare: alcuni possono vivere in condizioni di aerobiosi (cioè utilizzando l’ossigeno per le reazioni metaboliche), altri in anaerobiosi (ossia, portando a termine la respirazione in assenza di ossigeno); possono essere autotrofi (in grado di sintetizzare le proprie fonti energetiche tramite il processi di fotosintesi, da molecole di carbonio inorganico) o eterotrofi (che necessitano cioè di molecole organiche, sintetizzate da altri organismi).

A seconda della specie e del tipo di metabolismo, possono sfruttare diverse molecole come fonti energetiche, tra cui: il glucosio, lo zolfo, l’ammoniaca, l’acido acetico, l’alcool e molte altre ancora.

Leggi anche: Fissazione dell’azoto.

Caratteristiche morfologiche

La differenza tra batteri e Archaea è genetica più che morfologica. Entrambi, infatti, a seconda della specie di appartenenza, sono caratterizzati da un ampio range di forme. Possono essere a bastoncello, sferici, a spirale, piatti, a baccello, cuboidi, filamentosi, ecc… L’intervallo dimensionale degli Archaea ricopre all’incirca lo stesso dei batteri e va da 0.1 µm a 15 µm.

diverse morfologie degli archaea
Le diverse morfologie degli archaea (fonte: Wikimedia Commons)

Molti di loro possiedono anche delle strutture allungate, alla cui base può svilupparsi un’azione rotatoria. È proprio questa che permette ai microrganismi che ne dispongono, di spostarsi, muovendosi secondo un gradiente chimico che li conduce, il più delle volte, verso fonti nutritive. Tali appendici vengono definite flagelli.

cellula procariote
Prototipo di cellula procariote, provvista di flagello (fonte: Wikimedia commons)

Anche molti batteri (e alcuni protisti) possiedono i flagelli, ma la sostanziale differenza risiede nella modalità con cui questi vengono costruiti. Ciò dimostra ulteriormente come questi due domini procariotici si siano evoluti in direzioni divergenti, fin dalle origini.

Infatti, mentre nei batteri lo stelo viene gradualmente costruito depositando il materiale nella porzione superiore e verso il centro cavo della struttura, negli Archaea, questo viene eretto tramite l’aggiunta di materiale a partire dalla bas[2].

Parete cellulare

Il rivestimento esterno che ricopre gli Archaea possiede caratteristiche uniche tra gli organismi viventi e li distingue sia dai batteri, sia dagli eucarioti. La parete cellulare è la struttura più superficiale e si colloca, dunque, al di fuori della membrana plasmatica. Nonostante alcuni Archaea ne siano totalmente sprovvisti e assumano pertanto una forma irregolare, simile a quella delle amebe, il suo ruolo è quello di conferire rigidità e di dotare il microrganismo di una forma precisa. Essa è inoltre in grado di proteggere dai danni meccanici e di prevenire la lisi osmotica.

Gli Archaea vivono in ambienti più vari e spesso ostili rispetto alle altre forme di vita. Per questo motivo il loro rivestimento esterno, direttamente a contatto con l’ambiente circostante, deve essere adatto all’habitat in cui il microorganismo si trova a vivere.

Come avviene in generale per qualsiasi parete cellulare, anche negli Archaea questa è composta da catene di carboidrati. Tuttavia, negli Archaea, la sua composizione è assai più uniforme di quella batterica, essendo costituita prevalentemente da proteine, glicoproteine e polisaccaridi o, in alcuni casi, da molecole di pseudopeptidoglicano.

Tuttavia, la tipologia di parete più diffusa tra gli Archaea è quella costituita dallo strato paracristallino, altrimenti definito S-layer, presente anche in alcuni batteri e composto da proteine o glicoproteine, generalmente disposte in unità esagonali.

Pseudopeptidoglicano

Lo pseudopeptidoglicano è costituito da unità ripetute di acido N-acetiltalosaminuronico (NAT), anziché di acido N-acetilmuramico, presente invece nella parete cellulare dei batteri, e da molecole di N-acetilglucosamina (NAG). Inoltre, lo pseudopeptidoglicano si differenzia dal peptidoglicano batterico per il legame glicosidico β-1,3 al posto del legame β-1,4. Tale differenza nella modalità di connessione dei monosaccaridi del rivestimento esterno rende gli Archaea insensibili al lisozima, un enzima in grado di disintegrare la parete batterica. Ma non solo, gli archaea non sono vulnerabili nemmeno agli antibiotici, quali la penicillina, medicinale che mira a impedire la sintesi del peptidoglicano. Fortunatamente, non sono ancora stati scoperti Archaea patogeni, per cui non è necessario ricercare antibiotici in grado di combatterli, come invece facciamo per certi ceppi batterici.

La parete cellulare degli eucarioti è totalmente differente in aspetto e composizione rispetto a quelle di Archea e batteri, essendo per lo più formata da cellulosa o chitina.

Membrana cellulare

La membrana cellulare è un sottile rivestimento che si rivolge verso il lato interno della parete cellulare e si occupa della regolazione degli scambi tra la cellula e l’ambiente esterno.
Negli Archaea, la membrana citoplasmatica presenta differenze uniche rispetto a quella degli eucarioti e dei batteri, soprattutto a livello di composizione lipidica. L’inserzione di particolari lipidi conferisce maggior resistenza chimica e termica, che permette loro di sopravvivere negli habitat estremi in cui si trovano spesso a vivere.

Differenze tra la membrana degli archaea e quella dei batteri
Differenze tra la membrana degli archaea e quella dei batteri (fonte: Wikimedia).

Tali lipidi possiedono caratteristiche chimiche davvero singolari: diversamente da quelli di batteri ed eucarioti, che risultano dall’unione di acidi grassi (5) al glicerolo (7) tramite legami esterici (6), quelli degli Archaea dispongono, invece, di legami eterici (2) tra le due porzioni. Questo rende la membrana più resistente all’aggressione chimica esercitata da certe condizioni ambientali; inoltre, la membrana degli Archaea contiene unità ripetute di un polimero idrocarburico alifatico, l’isoprene (1), anziché semplici catene di acidi grassi come avviene in quelle dei batteri.

Tra le tipologie di lipidi più peculiari troviamo i dieteri e i tetraeteri. Questi ultimi sono formati da catene di fitanile, cioè lunghe molecole composte da 4 unità di isoprene, legate in modo covalente alle catene laterali del glicerolo. L’insieme di questi particolari lipidi non forma le comuni membrane bistratificate, bensì costituisce peculiari membrane a monostrato.

Monostrato lipidico

Le membrane monostratificate sono in assoluto le più rigide e per ciò si ritrovano solitamente negli Archaea ipertermofili. Questo perché con l’aumentare della temperatura, si verifica un momentaneo incremento della mobilità delle catene idrocarburiche, che induce una maggiore permeabilità della membrana nei confronti delle molecole di acqua e ioni vari. Al contrario, i legami etere aumentano la rigidità della struttura, anche grazie all’eventuale formazione di anelli ciclopentanici dal grande ingombro sterico. Ciò è dovuto al fatto che le membrane monostratificate hanno entrambe le estremità fissate al glicerolo. Al centro dei doppi strati fosfolipidici delle membrane bistratificate, invece, si verifica una maggiore mobilità delle catene che ne incrementa la permeabilità.

Differenze e somiglianze tra batteri e Archaea

Dividendosi per riproduzione asessuata, gli Archaea, così come i batteri, tendono ad avere una scarsa variabilità genetica. Questo li porta ad avere limitate capacità adattive per far fronte a eventuali circostanze ambientali avverse. In questi microorganismi esiste però un meccanismo che permette lo scambio geni anche tra specie distinte e filogeneticamente distanti. Questo fenomeno viene definito trasferimento genico orizzontale (Horizontal Gene Transfer) [6,7] e permette loro di acquisire nuovi caratteri che saranno eventualmente selezionati come favorevoli alla sopravvivenza, così da poter essere trasmessi alle generazioni successive [1,2].

I microrganismi trasferiscono fisicamente parte del proprio patrimonio genetico ad altre cellule scambiandosi dei plasmidi. Si tratta di unità genetiche brevi (1000-150000 bp) e circolarizzate, che si replicano in maniera autonoma. I plasmidi contengono informazioni geniche “accessorie”, cioè non indispensabili alla sopravvivenza dell’organismo ma che possono conferire caratteristiche vantaggiose.

Modalità del Trasferimento Genico Orizzontale

  1. I plasmidi che si trovino liberi nell’ambiente, ad esempio rilasciati dalla lisi cellulare di un altro microrganismo, possono essere assorbiti da altri microorganismi. Questa modalità viene definita Trasformazione.
  2. Esiste poi la Trasduzione, che si verifica in seguito all’infezione di un virus batteriofago, che trasferisce parte del proprio materiale genetico alla cellula ospite.
  3. Infine, la Coniugazione prevede il contatto diretto tra due organismi, un donatore e un ricevente, e la fusione di particolari strutture, dette pili sessuali. Tali appendici creano un canale attraverso cui può avvenire il passaggio del plasmide.

Leggi anche: Genetica batterica: coniugazione, trasduzione e trasformazione

Siccome tale meccanismo è molto comune anche nei batteri, spesso il trasferimento genico orizzontale si verifica tra membri appartenenti alle due diverse le categorie del dominio procariote. Questo processo spiegherebbe, in parte, le consistenti somiglianze tra batteri e Archaea.

Processi fisiologici in comune con gli eucarioti

Anche per quanto riguarda i meccanismi regolatori interni possono esistere analogie con gli altri domini. Ad esempio, sia il processo di trascrizione [8], sia quello di traduzione, assomigliano negli Archaea molto di più ai corrispettivi che si ritrovano nelle cellule eucariotiche, piuttosto che a quelli che si verificano nei batteri.

Infatti, l’RNA-polimerasi degli Archaea, ossia la responsabile della trascrizione delle sequenze nucleotidiche del genoma cellulare in RNA-messaggeri (mRNA), mostra un comportamento e una struttura molto simile a quella presente nelle cellule eucariote.

La stessa somiglianza si verifica per quanto riguarda i ribosomi, cioè quelle macromolecole che si occupano della conversione (traduzione) degli mRNA nelle corrispettive sequenze amminoacidiche, al fine della sintesi proteica.

Ad ogni modo, però, le modificazioni post-trascrizionali sono assai più semplici di quelle che si verificano nelle cellule eucariotiche. Inoltre, gli Archaea non possiedono introni – sequenze non codificanti, abbondanti nelle cellule eucariotiche – nella maggior parte dei geni che codificano per le proteine. Se ne trovano, invece, nelle sequenze relative agli RNA-ribosomiali (rRNA) e agli RNA-transfer (tRNA).

Leggi anche: Trascrizione nei procarioti: dal DNA all’RNA e Il Codice Genetico nella Traduzione

Gli Archaea causano malattie?

Attualmente non sono ancora stati isolati Archaea patogeni [9,10]. Il che è una fortuna dal momento che risultano immuni agli antibiotici e sarebbe dunque difficile riuscire ad eliminarli. Ma quello che ci si è chiesto è se gli Archaea possano esercitare un effetto benefico nei confronti degli individui che li ospitano.

Ad ora, la maggior parte degli Archaea riscontrati nell’organismo umano sono metanogeni [9,10] che competono con i batteri solfato-riduttori, presenti nella regione intestinale. Tale competizione si rivela vantaggiosa: in corrispondenza del tratto digestivo [9] è infatti preferibile la presenza di uno scarto metabolico come il metano (CH4), rispetto a quella di acido solfidrico (H2S), il quale è stato spesso associato a patologie e disordini intestinali come il cancro colorettale o la colite ulcerosa [10].

In un certo senso, quindi, gli Archaea simbionti esercitano indirettamente un effetto protettivo sulla salute dell’ospite.

Lo dimostrano anche i Methanomassiliicoccales, che sembrano svolgere un’azione detossificante agendo sul metanolo prodotto da altri simbionti.

E ancora, i metanogeni acetoclastici potrebbero essere in grado di ridurre il rischio di obesità nell’organismo in cui risiedono. Ciò è dovuto al fatto che tali Archaea consumano, tramite il proprio metabolismo, le molecole di acetato presenti nell’ambiente intestinale, che verrebbero altrimenti impiegate dall’ospite [9].

Nei pazienti che soffrono di diarrea dovuta alla chemioterapia, inoltre, è stato accertata una riduzione nell’abbondanza di archaea metanogeni nel tratto gastrointestinale, che porta alla diminuzione anche dei batteri simbionti benefici [10].

Possono invece espletare, in alcuni casi, anche un effetto negativo?

In effetti, è stato riscontrato che il Methanobrevibacter smithii sembra essere più abbondante nei campioni biologici estratti da pazienti che soffrono di diverticolosi, rispetto a quelli appartenenti ad individui sani [9].

Il Methanobrevibacter oralis, invece, sembra essere significativamente più presente nelle gengive di chi soffre di parodontite ed è inoltre stato individuato nel 40% dei pazienti affetti da ascessi cerebrali, rispetto al 10% riscontrato negli individui sani [9].

Tuttavia, non vi sono ancora inequivocabili evidenze a dimostrazione che gli Archaea possano essere effettivamente causa di qualche tipo di patologia. Forse perché, semplicemente, non è stato possibile identificare con chiarezza i sintomi di queste patologie o perché ancora non si possiedono i mezzi necessari per scoprire questa relazione. Questa eventualità non è così remota [10].

Infezioni virali

Nonostante non si possa ancora stabilire con certezza se gli Archaea abbiano o meno dei membri capaci di causare processi di patogenesi, è sicuro invece che sono vulnerabili ai virus. I virus capaci di infettare gli Archaea risultano davvero unici rispetto tutti i virus esistenti. Infatti, questi mostrano grande diversità e caratteristiche davvero particolari, dovute probabilmente alla stessa unicità dell’ospite.

Tuttavia, gli Archaea possono contare sullo stesso meccanismo di difesa che caratterizza il sistema immunitario batterico, la cui immunità adattativa è ormai nota e sfruttata a livello mondiale come tecnica di ingegneria genetica: il sistema CRISPR-cas.

Leggi anche: Premio Nobel per la Chimica 2020 a CRISPR/Cas9

Referenze

  1. Zimmer C – Triumph of the Archaea – The Discover. 1995.
  2. Sapkota A – Archaea vs Bacteria- Definition, 15 Major Differences, Examples (microbenotes.com) – MicrobeNotes. 2020.
  3. Alquéres SMC et Al. – Exploring the biotechnologial applications in the archaeal domain – Braz. J. of Microbiology. 2007.
  4. Chaban B, Ng SY, Jarrel FK – Archaeal habitats – From the extreme to the ordinary – Can. J. of Microbiol. 2006.
  5. Kandler O, Konig H – Cell wall polymers in Archaea – Cell. Mol. Life Sci. 1998.
  6. Calteau A, Gouy M, Perrière G –Horizontal Transfer of Two Operons Coding for Hydrogenases Between Bacteria and Archaea
  7. Fuchsman CA et Al. – Effect of the environment on horizontal gene transfer between bacteria and archaea – PeerJ Life & Environment. 2017
  8. Kyrpides NC, Ouzounis CA –Transcription in Archaea– Proc. Natl. Acad. Sci. USA.1999.
  9. Eckburg PB, Lepp PW, Relman DA – Archaea and Their Potential Role in Human Disease – American Society fon Microbiology. 2003.
  10. Aminov R – Role of archaea in human disease – Frontiers in Cellular and Infection Microbiology. 2013.
  11. Ching J – Why don’t archaea cause disease?– Microbiology Society. 2017.
  12. Belay NR et Al. – Methanogenic bacteria from human dental plaque – Applied and Environmental Microbiology.
  13. Madigan MT et Al. –Biologia dei microrganismi– Brock. Pearson. 2016.
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