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Alzheimer, un gene ne previene la comparsa

Se ne parla spesso, ma mai abbastanza. Tra le malattie neurodegenerative è sicuramente una delle più famose e per fortuna tanta fama si associa anche a una crescita esponenziale di ricerche volte a stabilire cause per il suo esordio, fattori protettivi (un’ultima scoperta ha sottolineato in tal senso l’apporto del THC) o terapie a breve e lungo termine che la contrastino. Alzheimer, una forma di demenza generalmente pre-senile spesso considerata frutto di una morte graduale delle cellule neuronali a causa della proteina beta-amiloide. Essa infatti si deposita proprio sui neuroni stessi, causando una risposta infiammatoria tossica.

Ricerca

Una nuova speranza scientifica si è però accesa proprio su questo tema: uno studio pilota svoltosi all’Imperial College di Londra sembra infatti far ipotizzare che sia possibile prevenire la comparsa dell’Alzheimer. Secondo i ricercatori londinesi, che hanno pubblicato le loro scoperte in un articolo sulla rivista Pnas, c’è la possibilità che ciò accada nei ratti da laboratorio attraverso un virus.

Dal virus alla scoperta: evitare le placche amiloidi

La parola virus potrà spaventare chi non conosce in realtà una funzionalità insita in questo specifico elemento: esso infatti viene utilizzato come vettore di un gene nel cervello. Tale gene, il PGC1-alfa, non è in realtà nuovo alle orecchie di molti; oltre ad avere un ruolo importante nel metabolismo, regolando lipidi e zuccheri dell’individuo, esso riesce a evitare la formazione della proteina implicata nelle purtroppo molto conosciute placche amiloidi, causa della tossicità e della necrosi neuronale.

Dato il suo enorme valore e le sue potenziali conseguenze protettive a livello cerebrale, il team ha ipotizzato sfruttare proprio la potenzialità dei virus di entrare nelle cellule fino a introdursi nel loro DNA. Ovviamente si è optato per una specifica tipologia, il lentivirus, di cui si è già usufruito in passato in terapia.

Esso è stato iniettato nelle zone ippocampali e della corteccia, utilizzando ratti nelle fasi prodromiche della malattia e con assenza di placche amiloidi. Confrontando in tempi successivi tale gruppo con uno non sottoposto a trattamento, si è osservato che non sussisteva affatto la presenza di placche con conseguenze degenerative. Gli stessi test di memoria hanno dato risultati pari a quelli di topi sani.

Come sottolineato dalla stessa Magdalena Sastre, ricercatrice del dipartimento di medicina dell’Imperial College, uno studio pilota di questa portata può dare solo indicazioni generali e ancora introduttive sull’applicabilità di una terapia genica.  Da buon pilota, esso potrà però dare ottime indicazioni per stimolare ricerche future.

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